addiopizzo
Tutti gli infami per nomi e cognomi
La recensione dello spettacolo NOMI COGNOMI E INFAMI di Serafina Ignoto per ilcarrettinodelleidee.com:
“Nomi, cognomi e infami”, lo spettacolo (che è anche un libro) di Giulio Cavalli, ripercorre i troppi anni bui della nostra Repubblica. La parola fa paura, sia essa una narrazione o un testo teatrale, una canzone o un articolo giornalistico: è un’arma bianca più potente di cento pallottole, colpisce senza spargere sangue, destinata a restare e a farsi Memoria collettiva. E’ in grado di mettere assieme fatti, persone e situazioni ma, soprattutto, fa pensare. Un peccato imperdonabile per la mafia che, infatti, ha costretto Cavalli a condurre una vita sotto scorta. La conoscono bene i prepotenti di tutto il mondo l’insidia che si annida nella potenza evocativa della parola, anche se poi peccano di ingenuità. Ingenuità si, perché la parola sopravvive alla morte. E se poi questa morte è pure violentemente provocata si ottiene un effetto contrario a quello che tutte le mafie vorrebbero per se stesse: l’invisibilità.
Si vive di segnali, la mafia ne ha sempre fatto largo uso, Falcone docet. Lo stato avrebbe dovuto mandarne uno e uno solo, forte e chiaro: si sarebbe dovuto alzare un urlo istituzionale che facesse da scudo alle vite di Di Matteo e di tutti i magistrati impegnati nel processo sulla trattativa. Si è invece sentito, ahimè, solo un silenzio imbarazzato e imbarazzante la cui logica rimanda al sospetto di complicità preoccupanti fra la mafia e pezzi grossi delle istituzioni. Perché anche i silenzi sono segnali.
E allora c’è da chiedersi qual è il senso di quel messaggio inviato alla Corte d’Assise di Palermo dal Capo dello Stato. Nel nostro Stato-di-diritto-ancora-per-poco chiunque venga chiamato a testimoniare lascia alle valutazioni della magistratura se le sue conoscenze sono utili e conducenti a chi indaga. E lo si fa dentro il processo, non fuori cercando escamotage per nascondersi dietro un dito. Ma dev’essere contagiosa questa malattia di credersi al di sopra delle leggi. Siamo un paese con troppi re e reucci, molti dei quali appaiono nudi.
Ma i silenzi parlano. Parlano e fanno pensare amaro, amarissimo le passerelle del Csm venuti a portare la loro solidarietà ai magistrati di Palermo. Un modo davvero singolare di agire non incontrando proprio chi ha subito minacce pesantissime di morte. Come leggere, allora, questo segnale visto che il capo del Csm è anche il capo di quello Stato che i giudici di Palermo tentano di processare?
Giulio Cavalli ha saputo raccogliere il testimone idealmente lasciato da Peppino Impastato con la sua trasmissione Onda Pazza a Mafiopoli. “L’arma” è la stessa, la parola ironica è precisa e tagliente, fa sorridere facendoci riflettere. E’ bravo Cavalli nel ricostruire non solo le vicende di Cosa Nostra, ma anche di ‘‘ndrangheta e camorra, di legami occulti solo per chi non vuole vedere.
Tocca le corde, pur mantenendo un tocco lieve, quando parla di Lea Garofalo, uccisa e fatta sparire nel cuore della Brianza, patria di un’entità geografica inventata come la Padania. Tremano i polsi quando racconta della figlia, Denise Garofalo, che si toglie di dosso anche il nome paterno per essere la pelle, la carne e la lotta di sua madre; Denise e la sua giovinezza uccisa, costretta a nascondersi per salvarsi la vita, il bene più prezioso. Commuove ancora Cavalli, quando si rivolge al figlio, in una fiaba ideale, per spiegargli tutta l’umanità di un sentimento naturale come la paura per la propria incolumità e, ciononostante, resistere. Caparbiamente continuare a denunciare e a informare. Senza sconti. Anche quando si arriva all’ardire di piazzare una rivoltella carica sotto la finestra della sua abitazione e della sua vita scortata. Segnali davanti a cui non indietreggia, nonostante la paura.
E’ un lucchetto di carne quella stretta di mano con Di Matteo alla fine dello spettacolo, il senso e il segno di una solidarietà vera e agita, un segnale tangibile che ci sono ancora “Uomini d’onore”. Onore vero, Giulio! Non quello annacquato e mistificato che ci vorrebbero propinare i mafiosi, sia quelli che mangiano cicoria, che quelli in colletto bianco che manovrano soldi e leggi dai luoghi istituzionali più alti. Hai ragione, ci hanno derubato anche delle parole: riprendiamocele! Loro sono solo Disonorevoli. Siamo noi i veri “uomini d’onore”, quelli che lavorano con “professionalità”, cioè declinando l’etica e il sistema di valori nella propria occupazione. E’ il messaggio della nostra Costituzione e tu ce lo hai ricordato: grazie, di questo.
Abbiamo ancora bisogno di giullari per ricordarci che abbiamo la Costituzione più bella del mondo!
Serafina Ignoto
Ci vediamo a Palermo, Parola di Pif.
Ve lo dice anche Pif. Noi ci vediamo al Teatro Biondo, eh.
Ci voleva WikiLeaks?
Un cablo riservato rilasciato da Wikileaks dice: la criminalità organizzata è, per il Sud Italia, uno dei più grossi ostacoli alla crescita economica ed alla stabilità politica; nonostante questo i politici italiani, per varie ragioni, sono incapaci se non riluttanti a fronteggiarla in maniera valida. Tra tutti gli elementi sociali coinvolti nella lotta al crimine organizzato, i politici, molti dei quali devono la loro sopravvivenza proprio alla mafia, sembrano essere i meno interessati a trovare una soluzione. Fino a quando questa situazione non cambierà, persino le azioni di polizia più efficienti (e ve ne sono molte che hanno dell’eccezionale) non saranno in grado di cambiare il corso degli eventi. Con tutta la stima e la simpatia per Assange le stesse cose si ripetono nei campi di Libera, nelle iniziative di Addiopizzo, negli incontri di Ammazzatecitutti! e in altri centinaia di comitati da qualche decina d’anni. Basterebbe ascoltarli. E magari sprecare qualche articolo in più.
Cinquecento euro e stai messo a posto. (mettiamo l’attak al pizzo)
Il testo è stato scritto e recitato in Piazza Mangione a Palermo il 15 Maggio per la 4 Festa di Addiopizzo
Cinquecento euro e stai messo a posto.
La frase rimbalza e lui continua a stare fallito. L’altro, invece, è “a posto”.
Cinquecento euro e stai messo a posto.
Non si riesce nemmeno a scriverla una scena teatrale per come rimbomba la frase. Chissà se almeno rimbalza sugli scaffali o si impiglia tra le gambe della sedia alla cassa, chissà come si stende o sta seduta. “Cinquecento euro e stai messo a posto” non è una frase per farci un pezzo di teatro in piazza, “cinquecento euro e stai messo a posto” è una bava. Una bava che scivola fuori dalla bocca del fallito, si secca sul pavimento come una macchia mica dignitosa che non va più via e rimane a guardarti lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, sabato mezza giornata e la domenica ti accompagna in tasca a portare fuori i bambini. Mano nella mano, vestito della festa, gelato e anche questo mese la dignità a posto. Un pompino da cinquecento euro alla dignità che, anche se si vende tutti i mesi, è una prostituta che costa. Un negozio con una macchia per terra e un postino fallito con la dignità degli altri rapita dentro la busta non sono personaggi che ci meritano un pezzo di teatro: sono personaggi appiattiti in una lettera. E allora eccola la lettera di questo mese. Francobollo con lo sputo, timbro a forma di cerchio e ve la leggo qui. Così per questo mese vi portate via anche la mia.
Caro picciotto, o se preferisci, visto che hai imparato a pettinarti e vestirti pulito, caro estorsore, o, se preferisci, caro esattore. E poi caro al tuo capo ufficio, quello che sta seduto a contare i soldi quando alla sera raccoglie le mesate del mandamento, quei soldi che vi auguro che vi marciscano in mano. E poi cari a tutti i falliti, perché è da falliti mangiare sulla metastasi della paura degli altri, oppure, per capirsi meglio, cari a tutti gli uomini d’onore, così ci capiamo meglio, così vi prendiamo dentro tutti e entriamo subito in tema.
Sono un commerciante di parole, a volte me le pagano bene, e arrotondo sempre il peso prima di chiudere la vaschetta. Non ho mica un negozio dove potete ballare felici la vostra danza della paura, mentre lasciate la scia del vostro onore di merda sulla serranda o tutti fieri correte dopo aver acceso il fuoco del vostro segnale da vigliacchi; sono un ambulante, non so come vi organizzate in questi casi, ma siete mediamente capaci di intercettarci. Questa sera apro la saracinesca fuori orario e vi vengo a cercare io, ma mica per i cinquecento euro così sto messo a posto, ma perché avrei, dico almeno, un paio di domande, una cosa da niente, mica per capire dove non c’è niente da capire, ma per togliermi il peso. Il peso di una curiosità che alla fine cercate sempre di farci pagare nel mercato della vigliaccheria di cui siete i detentori.
Nonno Cleto mi diceva che bisogna pagare il giusto, mio nonno Cleto era uno che portava in giro le bombole del gas con la vespa che si arrampicava in montagna. Pensava solo alle cose fondamentali, impegnato com’era a mettere in prima, seconda e fare bene la curva. Ma questa storia del pagare il giusto se la ricordava ogni volta che stava per due minuti al semaforo rosso con la frizione tirata. Non diceva pagare poco, mica diceva pagare tanto. Diceva pagare giusto. E allora, cari ricattatori delle minacce pagate a rate, cosa c’è, cosa pensate a mettervi in mano la paura in moneta? Quanto vi costa un regalo ai vostri figli con i soldi dei figli degli altri? Quanto vi sentite uomini a rosicchiare i torsoli come i vermi con le mele appena marcite? Com’è lavorare al mercato infame della minaccia?
Cinquecento euro e stai messo a posto.
La frase rimbalza e voi continuate a stare falliti. L’altro, invece, è “a posto”.
Cinquecento euro e stai messo a posto.
L’altro, nel negozio, chiuderà a chiave senza troppa attenzione. Anche questo mese ha pagato l’affitto ad una civiltà a rate. Poi sarà sera davanti al tavolo, la famiglia, l’educazione e la responsabilità stuprata anche questo mese. Tanto è il sistema, tanto è il nostro sistema per godersi il negozio e poi chi me lo fa fare di stare a fare il rivoluzionario. Tanto la mesata la pagheranno gli altri un pezzo al giorno. Tanto è la città intorno che sconta la macchia a forma di crosta sul pavimento dov’è coagulata anche questo mese la sua voglia di stare tranquillo. E per il resto del mese si impara subito ad alzare la serranda con la leggerezza che sia tutto meravigliosamente normale e di seta. È un gioco da ragazzi: per dimenticarti un giorno del mese hai tutte le settimane di resto. Come sarebbe triste una città, una regione, una nazione con la gente che smette di essere gente, con il cielo che si stinge, con un tumore che sottovoce esce in nero dalla cassa una volta al mese. È un angelo che balla smutandato ciclicamente, è un liquido che si secca e che non lascia impuniti. Non sarete impuniti per quel cerotto che si aggiunge di nascosto.
Cinquecento euro e stai messo a posto.
La frase rimbalza e voi continuate a stare falliti. L’altro, invece, è “a posto”.
Cinquecento euro e stai messo a posto.
I falliti risalgono in macchina, con i soldi che si ristropicciano nella tasca perché comunque c’è da essere svelti. Svelti per partire, svelti per arrivare a finire il giro prima che si chiude. Svelti perché la combriccola disonorata dei falliti d’onore possa contare, appuntare, mischiare per le mani più in alto. Con questi 50 euro che si appiccicano alle mani, che si impiastricciano sul cuore. Con questi 50 euro che puzzano così che bisogna aprire i finestrini per riuscire a starci dentro. È un brodo di sangue e letame cucinato una volta al mese per pagare l’organizzazione. Un piatto unico a prezzo fisso per il banchetto del re nudo del mandamento. I falliti con il sorriso dei falliti sulla macchina veloce e con il sorriso che si svitano alla sera prima di entrare in casa a fingere male di poter essere persone onorate.
Cinquecento euro e questo mese è a posto.
Mi piacerebbe chiedere al governatore della paura che senso danno al tatto quei mucchi sistemati male di soldi. Se non sono ruvidi di quel conato che non si lava nemmeno a stare cento volte sotto l’acqua corrente del lavandino. Mi piacerebbe vedervi in faccia mentre vi leccate il dito per contare quanto valete questo mese. Mi piacerebbe starvi in tasca per registrare le risate fiacche.
Perché sono sicuro che la sentite questa febbre che vi spaventa. Questa normalità di un no davanti alla cassa che mette in buca il vostro onore di gomma piuma.
Cari postini del re, c’è una favola che ogni tanto si racconta nelle scuole di Mafiopoli. È la favola di un formichiere che si tira su per il naso, in un paese lontano, le formiche a pranzo e le formiche a cena. Un formichiere con le formiche e il muco in testa che galleggia da imperatore per le strade del paese mentre sotto è una scia di percorsi di corsa di formiche, ognuno per conto suo che si sommerge per salvarsi. Ed ogni pranzo ed ogni cena è un flipper di zampe per sfuggire almeno per oggi al naso del despota. Raccontano nella favola che un giorno passava una zanzara, una zanzara che non era mica niente di speciale, ma che come tutte le zanzare riusciva a vedere dall’alto e mica all’altezza di un buco come il resto delle formiche abitanti della città. E come sia bastato così poco perché al mattino dopo il solito formichiere, dopo essersi lavato e i denti ed essere uscito dal suo appartamento a forma di buio, il solito formichiere trovò fuori dal suo zerbino un fiume nero, con il dorso lucido e compatto che camminava in linea. Credette fosse un incubo ma era semplicemente un gruppo. Che cominciò a salire dalle gambe per spolpargli la pancia e stringergli il collo.
Perché sono sicuro che la sentite questa febbre che vi spaventa. Questa normalità di un no davanti alla cassa che mette in buca il vostro onore di gomma piuma. Perché sono sicuro che cominciate a sentirlo questo plotone di schiene che hanno deciso di stare dritte.
Caro postino fallito, questa sera ti mando una lettera da portare al piano di sopra perché mi piacerebbe avere almeno due risposte: una lettera senza i biglietti da cento piegati dentro. Una lettera per passare un po’ il tempo senza farcelo passare dagli altri. Una lettera per sentirsi vivi. Tutti i giorni di tutto il mese.
Sono passati poco meno di 20 anni. Poco meno di 20 anni che Libero Grassi vi scriveva “…volevo avvertire il nostro ignoto estortore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere… Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al “Geometra Anzalone” e diremo no a tutti quelli come lui”.
Sono passati poco meno di vent’anni, e ne sono cresciuti di liberi se non di nome liberi per aggettivo. Sono passati poco meno di vent’anni.
Caro estortore, mentre decidi che negozio incollare appena comincia a fare notte rimettiti pure le mani in tasca.
Cinquecento euro e stai messo a posto.
La frase rimbalza e lui continua a stare fallito. L’altro, invece, è “a posto”.
Cinquecento euro e stai messo a posto.
Caro estortore, ti mando questa lettera con il bollo tutto sputacchiato. Senza soldi, sto a posto. Stiamo a posto.
Cinquecento euro e stai messo a posto.
La frase rimbalza e lui continua a stare fallito. L’altro, invece, è “a posto”.
Cinquecento euro e stai messo a posto.
Sappiamo i nomi, sappiamo le facce, vi ascoltiamo mentre decidete di incollare tutta vi dei Mille o mentre strisciate su a Milano in via Verdi. In un ponte di vermi che si spalma sull’Italia. Sappiamo dove state e sappiamo da che parte stare. Qual è il nostro di posto. Ambulanti ma con la parte chiara, la parte dove stare. Al massimo, per uscire a fare un giro, dico per divertirci, dico per stare un po’ insieme in questa notte così piena di corrispondenze, ci travestiamo da picciotti con l’onore dei clown e scendiamo anche noi, così magari ci incontriamo, tutti insieme a metterci il lucchetto e l’attak alla saracinesca del pizzo.