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alessandro sallusti

Siamo tutti Sallusti?

Prima di rispondere sarebbe il caso di leggere Chiara Lalli e il suo articolo per Il Mucchio:

Perché qui la questione non è essere contrari all’aborto (opinione) ma avere raccontato il falso, avere descritto la ragazzina come vittima di crudeli carnefici e i genitori in combutta con il giudice per costringerla ad abortire, anzi per stapparle il figlio dai visceri. Sulla diffamazione si potrebbe discutere a lungo: vogliamo considerarlo reato senza vittima, siamo pronti a prenderci tutte le conseguenze? Siamo sicuri che non ci sia una vittima e come potremmo difenderci se qualcuno scrive su un giornale che siamo dei serial killer? Che pensare dell’incitazione all’odio razziale o dell’omofobia? In Italia il primo è reato come crimine d’odio, sulla seconda siamo terribilmente evasivi. Si potrebbe – e dovrebbe – discutere sul tipo di pena e sull’inopportunità del punire l’intemperanza del linguaggio, anche se le critiche si basano su fatti veri. Il carcere non può che apparire spropositato e insensato – ma anche giocare a fare i martiri dopo avere rifiutato qualsiasi rimedio lo è. Prima di decidere cosa pensare è consigliabile leggere almeno Sallusti secondo me di Federica Sgaggio, 23 settembre 2012 eLibertà di diffamazione di Michael Braun, 27 settembre 2012, Internazionale. Così siamo pronti per l’ultima puntata, cioè il cosiddetto SalvaSallusti. È lo stesso Sallusti a commentare il 13 novembre sul suo profilo “Mi sento meno solo. Con la legge approvata dal Senato a San Vittore finiremo in tanti”.

#Sallusti senza sale

Francesco dal suo blog sulla vicenda Sallusti:

Innanzitutto, Sallusti non è stato condannato per diffamazione.

Non parliamo di un reato d’opinione e la libertà di stampa non c’entra nulla. Ma proprio nulla.

Sallusti è stato condannato per un reato professionale, che attualmente, vista la legge, prevede il carcere per il direttore responsabile.

Stante l’attuale legislazione, Sallusti è corretto che vada in carcere, perché lo prevede la legge: non ha controllato adeguatamente un articolo anonimo, del quale non è imputabile altra persona.

Diciamo che siamo nello stesso universo di Schettino, con la differenza che Sallusti non ha mai provocato la morte di nessuno, se non quella del buon gusto. Ma il buon gusto non può attualmente presentare querele per diffamazione – e questo è uno dei problemi che risolverò quando sarò Presidente della Galassia.

Ora, il dibattito corretto dovrebbe vertere su altri punti.

Del tipo:

– è adeguato il carcere per un omesso controllo?

– non sarebbe meglio una (forte) pena pecuniaria?

– ancora meglio, non sarebbe più adeguato considerare una serie di attenuanti e prevederle nel Codice, in modo che ci siano varie gradazioni di “omesso controllo” a seconda del ruolo, della criticità e delle conseguenze del fatto?

(per dirla chiaramente: i dirigenti ENAC a processo per la strage aerea di Linate del 2001, non si sono fatti un solo giorno di carcere. Mentre il giornalista Guarino, per lo stesso identico reato di Sallusti, nel 2010 si fece 42 giorni di carcere. Ora, io invito tutti quelli che parlano in modo disinvolto di pene detentive, di considerare, con un po’ di onestà intellettuale, che qui nell’esercito di digitatori folli, non ce n’è UNO che psicologicamente reggerebbe anche solo una settimana di carcere.)

Questo per quanto riguarda l’eventuale discussione sulla legge.

Poi c’è la questione dell’informazione.

Come scrivevo nell’articolo di ieri sera su intervistato.com, e questa è una domanda rivolta ai gornalisti italiani: perché il grande e grosso Sallusti crea tutto questo scalpore, mentre giornalisti piccolini che il carcere per lo stesso identico motivo se lo sono fatto, ripeto “se lo sono fatto”, non hanno avuto che qualche articolino sui giornali parrocchiali della loro provincia?

Perché Nosferatu-Sallusti vende, ovvio.

Ecco, quando l’amico Francesco scrive così non rimane che leggerlo.

Il caso Sallusti oltre Sallusti

Ho fatto un sogno. Niente di rivoluzionario, per carità, ma qualcosa di utile: provare a cogliere le opportunità oltre che crogiolarsi nelle piccole soddisfacenti vendette. E provare a cogliere nel recente caso Sallusti (almeno per la dimensione mediatica che sta suscitando) un quadro generale di tutela non tanto per chi ha fatto della diffamazione e l’aizzamento a mezzo stampa un marchio di fabbrica (verrebbe da dire che a Sallusti stia capitando un banale contrappasso, del resto) ma per i molti giornalisti precari che non hanno casse di risonanza.

Come scrive Matteo su ValigiaBlu:

La difesa del diritto all’informazione non può essere subordinata allo scalpore provocato dal caso di turno, o allo status del giornalista coinvolto. Non deve diventare, implicitamente, una questione di classe riguardante i giornalisti di serie A. Spesso è proprio il giornalista che lavora nella piccola redazione locale  a subire le pressioni più forti, a essere più esposto a ogni tipo di censura, anche solo antropologica. Perché quando esce dalla redazione, e va in piazza o al bar, si trova gomito a gomito con quei personaggi di cui ha indagato e denunciato le malefatte. Lì trova il sindaco, l’assessore, l’amministratore delegato. Lì vede in faccia chi potrebbe, il giorno dopo, rivolgersi a un avvocato per zittirlo a suon di milioni, una volta letta la cronaca locale. In questi casi il rischio di querela è come avere una parte del cervello chiusa in un carcere le cui pareti sono fatte di paura, ansia, frustrazione e incertezza. Diventa dunque vitale, per poter svolgere al meglio la professione, essere tutelati.

Vale la pena di leggere il suo post e la sua intervista a Stefano Santachiara.

Il Giornale che si redime

La notizia potrebbe anche fare ridere se non fosse l’emersione delle tecniche che hanno avvelenato questi ultimi decenni: Il Giornale pubblica una prima pagina islamofoba sulla strage di Oslo ritirando fuori dal cassetto niente popò di meno che Al Qaida. Con tanto di editoriale “La guerra dell’Islamismo contro la nostra civiltà è feroce e aggressiva”. Poi si accorge della mastodontica falsità (come se non ci fossero abituati) e svolta su una più moderata apertura “Strage in Norvegia”. E’ la nudità della sistematica bugia che serve per concimare la paura e dividere in modo manicheo i buoni dai cattivi, il bianco dal nero, dove i peggiori sono sempre gli altri. Qualcuno la chiama macchina del fango invece sarebbe più banalmente un’associazione giornalistica a delinquere se il favoreggiamento culturale al falso fosse un reato (se non nel Paese almeno per l’Ordine dei giornalisti). Le due prime pagine di questa povertà intellettuale da copertina le potete trovare e leggere qui.