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Ambiente

Dove trovare i soldi? Da una carbon tax arrivano almeno 8 miliardi di euro.

(ne scrive Luca Alterini per Greenreport)

Lo stato insulare di Singapore è piccolo (neanche il triplo dell’isola d’Elba) ma economicamente assai agguerrito. Rappresenta uno dei principali snodi commerciali al mondo e una piazza finanziaria di livello globale, ma è anche sede di una florida attività di raffinazione petrolifera. Sono ben tre gli impianti presenti, tra i quali – oltre a quello della Singapore refining company – si annoverano le più grandi raffinerie possedute da Shell (500mila barili il giorno) ed ExxonMobil (600mila barili).

Una presenza ingombrante che non ha impedito al governo della città-stato di annunciare l’introduzione di una carbon tax a partire dal 2019 per ridurre l’impatto dei grandi emettitori di gas serra, come le centrali elettriche e le raffinerie. I margini di profitto delle multinazionali petrolifere presenti a Singapore, già pressate da una crescente concorrenza, saranno limati: i costi a barile si stima saliranno di 3,5-7 dollari, ma ridurre le emissioni di COeq viene ritenuto più importante. Singapore mira a ridurre del 36% rispetto al 2005 le proprie emissioni di gas serra entro il 2030, con l’obiettivo di raggiungere il picco in quell’anno. La carbon tax rappresenta l’asso nella manica calato dal governo, e verrà fissata attorno ai 7-14 dollari per tonnellata di CO2. Non molto, ma è un inizio.

Possiamo imparare qualcosa da quest’iniziativa? Il ministro dell’Economia italiano, Pier Carlo Padoan, è appena rientrato da un duro confronto con la Commissione Ue, che impone al Paese un ulteriore manovra finanziaria pari allo 0,2% del Pil, circa 3,4 miliardi di euro, pena l’attivazione della procedura d’infrazione. Dove trovare i soldi? Il ritocco all’insù delle accise sui carburanti – sui quali ancora grava il tributo per la guerra d’Abissinia – è inviso alla maggioranza di governo, contraria per il pessimo appeal che una simile decisione avrebbe sull’elettorato.

Una scelta più lungimirante sarebbe quella di guardare ad esempi come quello di Singapore, non certo il primo a introdurre una carbon tax: secondo la Banca mondiale sono ormai 40 i paesi e 20 tra città e province ad aver introdotto una tassazione sul carbonio.

Sulle pagine di Possibile è Gianni Silvestrini, direttore scientifico del Kyoto club a sottolineare che «questa sarebbe l’occasione giusta per una revisione della fiscalità che coinvolga tutti i combustibili fossili utilizzati nel Paese, includendo anche la generazione elettrica, favorendo quindi gli interventi di efficienza delle rinnovabili e, indirettamente, del metano. Considerando infatti che il prezzo della CO2 nell’ambito dell’ETS (European Emission Trading Scheme, ndr) è sceso a 5 €/t, è evidente che questo strumento non è assolutamente in grado di fornire segnali di mercato, con una decisa penalizzazione degli efficientissimi impianti a gas a ciclo combinato rispetto alle centrali a carbone».

Secondo Silvestrini, ipotizzando una carbon tax in Italia pari a «20 €/t, le entrate sarebbero dell’ordine di 8 miliardi, una cifra che consentirebbe di far fronte agli impegni europei, di tagliare del 10% le bollette elettriche grazie ad un alleggerimento della componente A3 e di ridurre il costo del lavoro». Un intervento, dunque, che al rispetto degli aridi meccanismi di austerità europei aggiungerebbe almeno una rilevante componente di politica industriale, utile per affrontare anche la spinosa partita della globalizzazione: «Per quanto riguarda le industrie energivore – aggiunge infatti Silvestrini – va appoggiata la richiesta inviata da più parti a Bruxelles (ultima quella del produttore di acciaio ArcelorMittal) di introdurre una tassa sui beni importati in Europa in relazione al contenuto di carbonio. Una Border Tax di questo tipo, contenuta anche nella citata proposta degli ex ministri del Tesoro Usa, andrebbe mantenuta fino all’introduzione di una carbon tax a livello mondiale».

In attesa che la comunità internazionale si impegni a muoversi nella direzione giusta, già a livello nazionale è possibile fare molto. Una revisione ad ampio raggio della fiscalità italiana, che vada oltre l’introduzione di una carbon tax per incentivare un impiego più efficiente delle risorse naturali (ad esempio con un credito di imposta sugli acquisti di prodotti realizzati in materiale riciclato), offrirebbe nuovo slancio alla competitività economica del Paese insieme alla possibilità di ridurre le imposte sul lavoro: come già mostrato da autorevoli economisti, il potenziale delle tasse verdi in Italia ammonta almeno a 25 miliardi di euro. Peccato che nessun governo abbia finora spinto per attivarle.

L’oro nero e la Basilicata che brucia

Ferragosto a Viggiano, nello stabilimento dell’Eni dissequestrato da poco (dopo l’inchiesta della Procura di Potenza sugli impianti Eni e Total in Basilicata che ha portato alle dimissioni della ministra Guidi) si sono levate in cielo lingue di fuoco. Sì, fuoco: il cielo della Val d’Agri è stato appestato dalle fiamme provenienti dallo stabilimento nel quale viene trattato il petrolio appena estratto dal territorio lucano.

L’inchiesta che ha messo sotto scacco l’impianto produttivo della Basilicata (ne scriveva Ilaria Giupponi qui)  e i signori del petrolio si è insabbiata nel silenzio viscido dei poteri che pretendono il silenzio. È rimasto anche sotto silenzio il fatto che il consigliere regionale della Basilicata (del PD) Vincenzo Robortella sia stato rinviato a giudizio (il 5 agosto scorso) insieme ad altre 57 persone e 10 società.

E forse è sfuggito a molti che i magistrati siano convinti che la società Outsourcing s.r.l, di cui il consigliere regionale era proprietario, avrebbe ricevuto un finanziamento europeo relativo ai lavori del centro oli Tempa Rossa della Total pur non avendone i requisiti di legge. Ah, Robortella è stato nominato presidente della commissione attività produttive, ambiente e territorio della Regione Basilicata.

(il mio buongiorno per Left continua qui)

L’acqua potabile gratis. A Riace.

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A proposito di buone pratiche:

«Riace potrà usufruire dell’acqua potabile gratuitamente. Il sindaco Mimmo Lucano, ormai noto alle cronache dopo essere stato inserito dalla rivista Fortune nella lista delle 50 persone più influenti del mondo, ha trovato il modo per svincolarsi dalla Sorical e risparmiare molti soldi: scavare un pozzo.

Grazie ad un progetto del geologo Aurelio Circosta ed al lavoro di un’impresa di Reggio, si è scavato per 160 metri fino a trovare l’acqua in località Niscia l’Acqua, dove è presente una antica falda risalente a 40 milioni di anni fa. Dai risultati delle prime analisi microbiologiche, l’acqua risulta pura. Un’elettropompa la spingerà nelle condutture comunali, e dal 2017 i cittadini riacesi potranno usufruirne gratuitamente.

La cifra complessiva per i lavori dell’opera sarebbe di circa 80 mila euro; briciole se rapportata alla spesa di 180 mila euro all’anno che il Comune di Riace corrisponde alla Sorical. Da sottolineare, infine, che i soldi necessari al completamento dell’opera saranno quelli risparmiati una volta interrotto il contratto con la Sorical (nel luglio prossimo).»

(fonte)

È il tempo in cui si trivellano le isole Tremiti

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La bellezza è il nuovo brand. Forse perché l’antimafia ormai è caduta in disgrazia per merito di antimafiosi più mafiosi dei mafiosi stessi ma oggi parlare di “bellezza”, “difesa della bellezza” o “cultura della bellezza” è il nuovo trend per rivitalizzare la politica. Si sprecano così le citazioni su Peppino Impastato (che si spaccherebbe la testa a vedere da chi viene menzionato) oppure qualsiasi altro nome che si avvicini al culto del bello quasi sacro. Non è un caso che durante Expo la mercificazione della bellezza (presunta, idolatrata, preconfezionata) abbia superato la proposta di contenuti. Oggi il bello è etico, moderno e soprattutto facile da capire e far capire.

E mentre di bellezza si parla dappertutto diventa esecutiva l’autorizzazione per trivellare le isole Tremiti:

Il 22 dicembre il ministero dello Sviluppo economico ha firmato il decreto di conferimento della concessione alla Petrolceltic Italia srl, che fa capo all’irlandese Petroceltic International, specializzata nell’esplorazione, estrazione e trasporto nel settore oil & gas. Dai documenti che Repubblica ha ricevuto in anteprima, l’area interessata ha un’ampiezza di circa 373 chilometri quadrati ed è stata concessa alla multinazionale per quattro anni a 1.900 euro l’anno (5,16 euro per chilometro quadrato).

(In foto l’opera di Elisa Ferrari “L‘inutile bellezza dell’arte“)

A Policoro erano in cinquemila

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(Questo pezzo è stato scritto da OLA, Organizzazione Lucana Ambientalista, che nel silenzio dei media sta coagulando una battaglia serena ma forte contro l’idea folle delle trivelle. Leggeteli ogni tanto, facciamo che non siano soli)

Uscire dall’era del petrolio per ridurre i gas serra, l’inquinamento delle acque e del suolo, per evitare guerre e terrorismo e per vivere in un mondo più equo, solidale e sostenibile per tutti. Ma anche un NO alle trivelle del petrolio che il governo Renzi vuol imporre alle comunità lucane in terra e in mare. Sono questi contenuti della marcia dei cinquemila oggi a Policoro (dati ufficiali della Questura) alla si sono uniti i commercianti e le attività produttive del centro jonico, sindacati e associazioni tra le quali No Scorie Trisaia. 

Presenti i sindaci di alcuni comuni del materano ed i rappresentanti della Chiesa. Questi ultimi hanno chiesto scusa ai giovani a nome degli adulti per aver lasciato un mondo inquinato e pieno di conflitti. La Chiesa con l’Enciclica “Laudato Sii” di Papa Francesco ascolta e sostiene i giovani – è stato ribadito – perchè insieme si può migliorare per cambiare le nostre coscienze e ciò che ci circonda.

Assenti ancora una volta le istituzioni regionali  che si defilano di fronte a questi temi importanti per le comunità con “battaglie” che si concentrano sui quesiti referendari in materia di petrolio, dimenticando però ancora una volta i territori.

“Quanto sta accadendo in Basilicata e cosa accade nel resto del mondo in tema di estrazioni petrolifere e le gravi conseguenze ambientali e sociali che queste comportano, chiediamo alle istituzioni presenti al SUMMIT DI PARIGI e soprattutto a quelle della BASILICATA, le seguenti azioni non più derogabili:

1. Sostituzione urgente di tutte le tecnologie che usano il petrolio e le altre fonti fossili e nucleari;

2. Blocco delle autorizzazioni e sospensione immediata di tutti i nuovi progetti di sfruttamento di fonti fossili ed avvio della sospensione delle attività e la bonifica dei siti di estrazione esistenti;

3. Incremento della superficie terrestre dedicata alle foreste, alle aree naturali ed a forme di agricoltura organica;

4. Incentivazione del risparmio energetico e riduzioni delle emissioni “clima alteranti” in tutte le attività umane;

5. Sviluppo delle energie rinnovabili, eque ed alla portata di tutti (No a mega impianti!);

6. Incentivazione della ricerca scientifica e delle applicazioni tecnologiche finalizzate alla sostenibilità di tutte le attività umane;

7. Nuove forme di convivenza civile tra i popoli, senza sfruttamenti, guerre e terrorismo;

In particolare per la nostra Basilicata chiediamo anche:

1. Percorsi didattici ed Università per le energie rinnovabili e le economie sostenibili (non una università “fossile” del petrolio);

2. Informazione e formazione diffusa sulle attività e tecnologie disponibili per la sostenibilità ambientale, in particolare per i sindaci, gli amministratori pubblici ed il personale dei vari enti della Basilicata, in tema di energia, nuove tecnologie, rifiuti e soprattutto tutela delle acque e della salute;

3. Blocco immediato ai rifiuti industriali di fuori regione da smaltire in Basilicata (non vogliamo diventare un’altra “Terra dei Fuochi” o la pattumiera europea!);

4. Bonifica immediata delle aree SIN (Siti di Interesse Nazionale per grave inquinamento) in Basilicata (Val Basento ed Area Industriale di Tito);

5. Stop a discariche e inceneritori. Vogliamo finalmente un ciclo virtuoso dei rifiuti, di recupero e riutilizzo dei materiali;

6. Un impegno ufficiale regionale e locale per la riduzione alla fonte delle emissioni industriali inquinanti e controlli ambientali efficienti ed efficaci; un monitoraggio continuo su tutte le principali aziende ad alto impatto o rischio ambientale, da riconvertire o chiudere urgentemente;

7. Una reale tutela delle acque lucane, vera ricchezza della Basilicata e del meridione;

8. Indagine e monitoraggio epidemiologico, con particolare riferimento alle malattie tumorali (registro dei tumori);

9. Una reale tutela della biodiversità, con una capillare diffusione dell’agricoltura biologica, capace di ridurre i gas serra.

Sappiamo che è necessario bloccare il decreto “Sblocca Italia” che consente alle compagnie petrolifere di occupare (e quindi inquinare) per sempre il nostro territorio; la nostra generazione non potrà avviare in Basilicata nessuna attività di sviluppo vista l’incompatibilità ambientale, sociale ed economica del petrolio (vedi l’esperienza della Val d’Agri).

Il coordinamento studentesco intende lanciare oggi le basi per una politica di sviluppo fatta di scelte eque e sostenibili che non pregiudichino il nostro diritto a vivere in un ambiente sano. Non vogliamo e non possiamo abbandonare la nostra Terra!

Merda in mare

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In mar Piccolo sono stati trovati lettini di ospedale, carcasse di auto, biciclette rotte, ruote di camion, di tutto e di più in attesa di una bonifica che chi sa quando comincerà.

(la notizia è qui)

Quelli che trivellano il mare

Trivellare il fondo del mare alla ricerca del petrolio. Sembra l’inizio di un film pastrocchio americano di quelli sulle grandi catastrofi e invece è l’ultima perversione di governo dedicata alla Basilicata. E come al solito i compagni di partito di quelli che decidono a Roma fingono di opporsi sulle pagine dei giornali e mai una volta mai che se ne sia sentito discutere, che ne so, in una delle soporifere direzioni di partito. Legambiente e gli attivisti cercano di alzare la voce (per farsi un’idea potete andare qui) ma la discussione ormai sembra non avere le stigmate per diventare tema nazionale.

Tra l’altro i minimizzatori di professioni continuano a dirci che le trivellazioni vanno che è una meravigli in Croazia. E invece anche questa è un bugia.

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Il conflitto ambientale nei media. Il caso Ilva.

[di Gaetano del Monte su siba-ese.unisalento]

Premessa metodologica

Lo scritto che presentiamo non è organizzato secondo i canoni della saggistica tradizionale delle scienze sociali. Si tratta di una ricostruzione prevalentemente giornalistica di una serie di eventi che hanno come scenario la città di Taranto e come epicentro l’Ilva, il gigante siderurgico italiano responsabile di un inquinamento territoriale conclamato. L’indagine che abbiamo condotto fornisce una chiave di lettura delle vicende tarantine, e si presenta come un materiale organizzato per ulteriori approfondimenti, auspicabilmente anche di tipo teorico.

Non si tratta di sole vicende recenti: come il lettore noterà, dopo aver sintetizzato i termini della questione venuta alla ribalta negli ultimi anni in seguito al lavoro della magistratura tarantina, la nostra ricostruzione torna agli anni ’70, quando l’Ilva era ancora un titano occupazionale e solo alcune voci dell’ambientalismo mettevano in guardia dalle conseguenze della produzione. Le nostre fonti sono in questo caso fonti giornalistiche d’archivio. Passiamo poi a esaminare i fatti che riguardano il modo di gestire il rapporto con l’informazione da parte dell’Ilva in anni recenti, e che hanno comportato l’uso come fonti delle intercettazioni telefoniche disposte dalla magistratura, le cui trascrizioni compaiono nelle pertinenti ordinanze dei giudici. Infine abbiamo intervistato alcuni testimoni privilegiati della vicenda Ilva, saggisti e operatori dell’informazione che hanno avuto modo di esprimere la loro opinione sul presente e il futuro prossimo della vicenda.

L’insieme dei materiali che abbiamo raccolto indica che dietro i fatti riportati si manifestano conflitti importanti, che prendono le mosse dal più impressionante tra essi: quello tra salute e lavoro. L’inquinamento proveniente dall’Ilva agisce sulla salute individuale e collettiva dei lavoratori e dei cittadini di Taranto, ma l’Ilva è anche l’azienda che dà lavoro a tanti. Dietro l’aspetto conflittuale originario si nascondono gli altri: quello tra azienda e lavoratori, quello interno ai sindacati, quello tra istituzioni e azienda, tra azienda e ambientalisti, tra sindacati e ambientalisti, tra media e azienda. Come vedremo, sono state messe in atto numerose tecniche di prevenzione del conflitto attraverso forme di accomodamento più o meno legali: tra queste, abbiamo dedicato il maggior spazio al processo di fidelizzazione della stampa locale promosso dalla direzione delle relazioni pubbliche dell’Ilva, e che emerge dalla documentazione pubblica sulle indagini della magistratura.

Lo scritto si chiude con un’appendice relativa agli eventi susseguitisi dal 17 febbraio 2012, data di apertura del processo per disastro ambientale a carico dell’Ilva, al 9 aprile 2014, data in cui la Corte Costituzionale respinge i ricorsi dei giudici di Taranto sul cosiddetto decreto “Salva Ilva”. Da allora, l’intensità conflittuale appare in diminuzione, e viceversa sembra aumentare l’intento di uscire dall’emergenza, promuovendo una soluzione di Stato ai drammatici problemi – quantomeno quelli più immediati – del colosso siderurgico.

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*Articolo pubblicato su siba-ese.unisalento.it,titolo originale: “l conflitto ambientale nell’agenda mediatica. Il caso Ilva”, H-Ermes n°3, 2014

Diosssina: Taranto è in provincia di Brescia

brescia-675A Taranto è tutto transennato. A Brescia, nei parchi alla diossina ci giocano i bambini. Tra il quartiere Tamburi di Taranto – a ridosso dell’Ilva – e il sito inquinato nazionale “Caffaro” di Brescia, gravemente contaminati dai cancerogeni Pcb e diossine, la sproporzione è tutta nei dati e nelle decisioni prese dalle autorità per proteggere la popolazione.

A Taranto, ad esempio, in un giardino con 0,283 microgrammi di Pcb/kg di terra il sindaco ha vietato l’accesso a tutti gli abitanti; a Brescia invece, nei parchi con 0,400 mg/kg di Pcb possono entrare anche i bambini, con alcune limitazioni che hanno scatenato le polemiche dei comitati di genitori e ambientalisti come il “divieto di scavo e asportazione del terreno” considerato improprio e difficile da far rispettare ai più piccoli. Il confronto è ancora più allarmante per le diossine: nel quartiere Tamburi, all’ombra dell’Ilva, sono vietate le aree verdi con 24,12 ngTEQ/kg(tossicità equivalente alla diossina di Seveso); mentre a Brescia l’ordinanza del sindaco, scritta sulla base di un parere della Asl, consente l’accesso nei parchi con 80,8 ngTEQ/kg di diossine, una concentrazione quasi quattro volte superiore.

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Lo denunciano una serie di comitati ambientalisti bresciani insieme a Medicina Democratica e al comitato Sos Scuola, chiedendo al sindaco di Brescia Emilio Del Bono e alle autorità sanitarie “il rispetto della legge”. Al centro della polemica l’ordinanza emessa dal sindaco Pd a pochi giorni dall’insediamento, il 24 luglio 2013, che ha dato il via libera all’accesso in aree con concentrazioni superiori ai limiti di legge per i Pcb e le diossine, zone contaminate che prima erano formalmente interdette con ordinanza “contingibile e urgente” reiterata ogni 6 mesi, anche se il divieto spesso non veniva rispettato dai bresciani, come mostrato dalle telecamere della trasmissione di Riccardo Iacona “Presa Diretta” nel 2013.

Per l’inquinamento dei suoli la legge prevede delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC). Per i siti ad “uso verde pubblico, privato e residenziale” – secondo quanto stabilito dal D. lgs 152/2006 – i livelli massimi di Pcb e diossine sono di 0,06 mg/kge 10 ngTEQ/kg. Soglie superate sia nel caso di Brescia che in quello di Taranto, per cui è necessaria una “analisi di rischio sanitario e ambientale” per “valutare gli effetti sulla salute umana derivanti dall’esposizione prolungata all’azione delle sostanze presenti”. Analisi di rischio che a Taranto ha portato alla chiusura delle aree verdi del quartiere Tamburi con un’ordinanza del giugno 2010 per far fronte a un “rischio sanitario non accettabile in caso di esposizione prolungata nel tempo, a seguito di contatto dermico ed ingestione accidentale”, disposizione peraltro in vigore “fino all’ultimazione dei lavori di bonifica”.

A Brescia invece, dove le concentrazioni soglia sono molto al di sopra di quelle di Taranto (la chimica Caffaro, che ha prodotto i Pcb “cancerogeni certi” per lo Iarc dal 1936 al 1984, ha inquinato terreni e rogge con il veleno “puro”) l’Asl ha deciso – senza analisi di rischio “sito-specifica” – di dividere il sito inquinato in tre aree: blu, gialla e rossa. Nella “zona rossa” l’accesso è “interdetto a qualsiasi uso” (parchi di via Nullo, Passo Gavia, via Parenzo nord, via Sorbana nord, campo Calvesi), in quella gialla è consentito “con limitazioni” (parchi di via Fura, via Livorno, via Parenzo sud, via Ercoliani, via Sorbana sud, via Cacciamali). Ma nell’area gialla, dove giocano anche i bambini, ci sono concentrazioni di Pcb e diossine da due a quattro volte superiori rispetto a quelle di Taranto e oltre ai veleni chimici, a Brescia in quei terreni sono presenti anche metalli pesanti come mercurio, arsenico e rame. “A Taranto la legge che dovrebbe valere su tutto il territorio nazionale è stata applicata, a Brescia no – denunciano i comitati – e a trasgredire in modo così clamoroso sono le istituzioni pubbliche”.

(fonte)