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‘Ndrangheta: il boss Pesce sotto scacco

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Il boss era ricercato da 6 anni ed è stato catturato a Rosarno, il suo paese di nascita. Non ha opposto resistenza. Insieme a lui c’erano due uomini, padre e figlio

“Ti conosco, ti ho già visto in tv”. Sono queste le parole che il boss Marcello Pesce ha pronunciato rivolgendosi ad un dirigente della Squadra Mobile, nel momento in cui gli uomini della Polizia di Stato hanno fatto irruzione nel covo dentro al quale si nascondeva il capo della cosca egemone di Rosarno. E’ finita così la sua lunga latitanza.

marcello-pesce-latitante-arrestatoIl blitz all’alba. Gli uomini del Servizio centrale operativo (Sco) e della squadra mobile di Reggio Calabria sono entrati in azione attorno alle 5, quando si è avuta la certezza che il boss fosse lì. Pesce era ricercato dal 26 aprile 2010, quando sfuggì alla cattura nell’operazione “All Inside”. Al momento della cattura, era in camera da letto e non era armato. Non ha opposto resistenza ed è stato arrestato con 2 uomini, padre e figlio, che erano con lui. Condannato in appello a 16 anni e 8 mesi di reclusione per associazione mafiosa.

marcello-pesce-latitante-arrestatoLatitante a casa sua. “Un uomo molto particolare, anche molto colto. Sono stati trovati libri di Proust e Sartre nel covo dove si nascondeva”. Lo ha detto il procuratore di Reggio Calabria Gaetano Paci, ai microfoni di SkyTg24, a proposito del boss della ‘ndrangheta Marcello Pesce, catturato a Rosarno, il suo paese di nascita. “E’ inevitabile che sia stato trovato a casa sua – ha aggiunto il procuratore Paci – Un latitante che è anche capo operativo, in questo caso anche capo strategico, deve stare nel suo territorio e deve avere il controllo della situazione”.

Ricercato da 6 anni. “Appartiene a una delle famiglie più blasonata della piana di Gioia Tauro e di Rosarno in particolare: quella dei Pesce, da sempre trafficanti di droga e con il controllo del territorio – ha sottolineato Paci – Lui è stato condannato per associazione mafiosa e intestazione fittizia di beni a 16 anni, è latitante da sei anni e dalle nostre risultanze è emerso che si tratta di un soggetto altamente operativo ma di una operatività molto raffinata. Le indagini – ha concluso Paci – durano da oltre tre anni e hanno avuto una importante intensificazione negli ultimi sei mesi. Si sono avvalse esclusivamente di attività tecnica e di osservazione sul territorio, un territorio peraltro difficile da permeare all’attività di indagine”.

(fonte)

Ernesto Fazzalari, preso.

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Buone notizie. Un bel regalo per il mio compleanno.

«Nelle prime ore di oggi 26 giugno 2016, in Molochio (RC) frazione Monte Trepitò, i Carabinieri del Reparto Operativo del Comando Provinciale di Reggio Calabria, collaborati da operatori del Gruppo Intervento Speciale e dello Squadrone Cacciatori Calabria, a conclusione di articolata attività d’indagine coordinata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria – Direzione Distrettuale Antimafia, hanno tratto in arresto, in esecuzione di ordine di carcerazione a seguito di condanna all’ergastolo, FAZZALARI Ernesto, 46 anni, per i reati di associazione per delinquere di tipo mafioso, omicidio, porto e detenzione illegale di armi ed altro. Lo stesso è il secondo dei ricercati per importanza e pericolosità dopo Matteo MESSINA DENARO.

Prevenuto, latitante di massima pericolosità inserito nel programma speciale di ricerca, irreperibile dal giugno 1996 allorquando si sottraeva all’arresto nell’ambito dell’operazione convenzionalmente denominata “TAURUS”, veniva individuato all’interno di un’abitazione in complesso di caseggiati a ridosso di impervia area aspromontana.  Il FAZZALARI, ritenuto elemento di vertice dell’articolazione territoriale della ‘ndrangheta operante prevalentemente in Taurianova, Amato e San Martino di Taurianova e con ramificazioni in tutta la provincia ed in altre in ambito nazionale, sorpreso nel cuore della notte, non ha opposto resistenza e, subito dopo l’irruzione degli operatori del GIS, forniva le proprie generalità lasciandosi ammanettare.
Nel corso della successiva perquisizione veniva rinvenuta una pistola con il relativo munizionamento, nonché altro materiale ritenuto di interesse e suscettibile di ulteriori approfondimenti investigativi. All’interno dell’abitazione, al momento dell’irruzione, era presente anche una donna, di anni 41, che è stata tratta in arresto per i reati di procurata inosservanza di pena, concorso in detenzione di arma comune da sparo e ricettazione.

(fonte)

A Busto Arsizio il boss te lo ritrovi in teatro

cosimo-modugno-522347.610x431Dicono che il bar del Teatro Sociale di Busto Arsizio ultimamente avesse assunto le fattezze di una friggitoria. Niente di personale contro le friggitorie ma immaginate un luogo pensato come elegante disimpegno del foyer di un teatro inaugurato nel 1891 trasformarsi in una rosticceria.

Del resto viene difficile pensare che possa avere qualsiasi abitudine al bello uno come Cosimo Modugno che, sotto le mentite spoglie del bravo maritino un po’ unto che aiuta la moglie (era lei a risultare titolare dell’attività acquistata nel dicembre del 2015), è la stessa persona che aveva cercato di ammazzare Vincenzo Corallo e Domenico Leovino, colpevoli di avere pensato di “mettersi” in proprio disconoscendo il boss. Forse Modugno avrà pensato che fosse una buona idea cambiare aria (e così dalla Puglia è arrivato nel profondo nord) anche se non ha perso la vecchia abitudine di tenersi una pistola in tasca (con la matricola abrasa) e qualche proiettile. Cose così, giù al nord.

 

‘Ndrangheta: preso (a Roma) Domenico Mollica

E’ stato arrestato il latitante Domenico Antonio Mollica, terzo nella lista del giudice per le indagini preliminari del tribunale di roma a dover finire in carcere per i reati di intestazione fittizia di beni aggravata dal metodo mafioso, commessi per favorire la ‘ndrangheta operante nella capitale per il controllo delle attività illecite sul territorio. Mollica, 47 anni, era sfuggito all’esecuzione di una misura restrittiva della libertà personale lo scorso 9 gennaio quando, nell’ambito dell’operazione “fiore calabro” coordinata dalla direzione distrettuale antimafia di roma, erano stati arrestati placido scriva e domenico morabito. I poliziotti che bussarono alla sua porta non lo trovarono in casa lo scorso 9 gennaio. la latitanza di mollica è però durata meno di venti giorni. gli agenti della squadra mobile di roma, convinti della presenza di mollica nella sua abitazione, hanno chiesto la collaborazione dei vigili del fuoco per esplorare eventuali intercapedini della palazzina terra- cielo. la presenza di prese d’aria esterne ha indotto gli inquirenti ad abbattere il solaio; al secondo colpo di mazza, dalla soffitta si è sentita una voce dire “scendo, scendo”. L’accesso al sottotetto era camuffato all’interno di un armadio a muro, il cui pannello superiore scorrevole ha rivelato l’esistenza di una botola dalla quale il ricercato, calandosi da una corda attaccata all’architrave del tetto, è uscito. Il sottotetto ha rivelato la presenza di un locale, scaldato dalla canna fumaria, dove era presente un giaciglio, acqua, documenti e un santino ritraente la Madonna di Polsi.

(clic)

‘Ndrnagheta: preso Natale Trimboli

Trimboli-Natale-600x400Non ha opposto alcuna resistenza e si è fatto arrestare dai carabinieri ai quali aveva dato prima un nome falso. Dopo 5 anni finisce così, in un appartamento di Molochio nella Piana di Gioia Tauro, la latitanza del boss Natale Trimboli originario di Platì ma ritenuto un “santista” di Volpiano in provincia di Torino. Inserito nell’elenco del Ministero dell’Interno sui ricercati più pericolosi in ambito internazionale, Natale Trimboli aveva un ruolo di primo piano nella cosca Trimboli-Marando di Platì. “Era un personaggio di peso nella criminalità organizzata – ha spiegato il colonnello Falferi – Era l’uomo di collegamento tra le cosche della Locride e il nord Italia”.

Oltre a numerosi anni di carcere per traffico di droga e associazione mafiosa, sulla testa di Natale Trimboli pesa una condanna all’ergastolo per gli omicidi di Antonio e Antonino Stefanelli e Franco Mancuso, trucidati a Torino in un regolamento di conti durante una faida tra famiglie ‘ndranghetiste per il controllo del territorio e del traffico di stupefacenti e di cui non sono mai stati ritrovati i corpi. Casi di lupara bianca sui quali è stata fatta luce grazie alle dichiarazioni del collaboratore Rocco Marando il quale aveva raccontato ai pm come sono state uccise le vittime in risposta all’omicidio di Francesco Marando: “Mio fratello Rosario e Trimboli Natale – è scritto nel verbale – sparano dei colpi di pistola con il silenziatore a Mancuso e al nipote Stefanelli Nino: li colpirono alla schiena. Poi, lo zio Stefanelli Antonino, visto che i due suoi familiari erano stati uccisi, chiedeva pietà e diceva che ad uccidere Francesco era stato suo nipote Nino e Mancuso, dicendo ‘io non c’entro niente’”.

Coinvolto nell’inchiesta “Minotauro” della Dda di Torino, Trimboli da tempo si nascondeva in Calabria. Con lui sono stati arrestati anche tre fiancheggiatori: Natale Altomonte, Santo Surace e Carmine Luci. Quest’ultimo, che ha precedenti di polizia per associazione a delinquere e armi, aveva la disponibilità dell’appartamento dove è stato scovato il latitante. Un appartamento che doveva essere abitato ma i carabinieri da alcuni giorni avevano notato alcuni movimenti all’interno. Insospettiti hanno proceduto a un normale controllo scovando il latitante Natale Trimboli. Fratello dei narcos Saverio e Rocco Trimboli, al momento dell’arresto il ricercato non era armato e il materiale rinvenuto all’interno dell’abitazione ora è al vaglio dei carabinieriche stanno cercando di ricostruire la rete di favoreggiatori che ha consentito al latitante di sfuggire alla giustizia.

 (clic)

Camorra: preso Giovanni Licciardi

LICCIARDIGiovanniGiovanni Licciardi, di 37 anni, ritenuto l’attuale reggente dell’omonimo clan camorristico operante soprattutto nel quartiere di Miano, a Napoli, è stato arrestato dai carabinieri su ordine di carcerazione per associazione per delinquere di tipo mafioso.

Licciardi è stato bloccato lungo il Corso Secondigliano a bordo di una Smart guidata da un 29enne, già noto alle forze dell’ordine. Sottoposto a perquisizione, è stato trovato in possesso di 1.100 euro in contanti, sequestrati, e sono state avviate le verifiche per accertarne la provenienza.

L’ordine di carcerazione è stato emesso il 15 gennaio dalla Corte di Appello di Napoli: quello che viene considerato dagli investigatori il boss di Miano, deve espiare una pena residua di un anno, 11 mesi e 27 giorni di reclusione per associazione per delinquere di tipo mafioso. In particolare il 37enne è stato condannato nel marzo 2014 a 8 anni di reclusione e l’11 luglio 2014 era stato rimesso in libertà dal carcere di Terni dopo aver scontato 6 anni e 3 giorni di custodia cautelare in carcere. Il 15 gennaio scorso la sentenza è diventata definitiva. L’arrestato è stato condotto nel carcere di Secondigliano.

La mafia con il silicone

Spunti per uno spettacolo:

Una maschera in silicone per garantirsi la fuga. Antonino Messicati Vitale, il presunto boss di Villabate (Palermo), è stato fermato oggi dai carabinieri. Gli investigatori seguivano passo passo i movimenti dell’indagato, che ha sempre amato la bella vita e che i carabinieri bloccarono nel dicembre 2012 a Bali, in Indonesia, dove aveva trovato rifugio poco prima di essere colpito da un’ordinanza di custodia cautelare. Poi erano scaduti i termini e il presunto capomafia era tornato un uomo libero. Messicati Vitale aveva solo l’obbligo di dimora a Palermo, per il quale tra l’altro aveva fatto ricorso chiedendo il trasferimento a Portella di Mare, frazione di Misilmeri. Il provvedimento di fermo, disposto dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo, ipotizza i reati di associazione mafiosa ed estorsione.

Messicati Vitale si era dato alla latitanza qualche mese prima dell’aprile 2012, quando con l’operazione Sisma scattarono una serie di arresti nei confronti di appartenenti al mandamento mafioso di Misilmeri – Belmonte Mezzagno. Fu poi rintracciato il 7 dicembre 2012 in un villaggio turistico di Bali, grazie alla collaborazione dell’Interpol. Un anno dopo estradato in Italia e sottoposto all’obbligo di dimora nel comune di Ficarazzi (Palermo.

Il fermo è motivato dagli inquirenti dalla “sua perdurante appartenenza a Cosa nostra, quale reggente della famiglia mafiosa di Villabate, e al pericolo di fuga”. E per gli investigatori è responsabile di un tentativo di estorsione in danno di un commerciante di carni della zona. Per i pm lo spessore del presunto boss è confermato da alcuni collaboratori di giustizia come Stefano Lo Verso, ex autista di Bernardo Provenzano, e Sergio Flamia. Nel 2011 Lo Verso dichiarava: “Nel 2010 durante la detenzione con Comparetto, dallo stesso ho appreso che ‘a Villabate si muoveva Tonino Messicati che era uscito da poco dal carcere e Tonino è un tipo che per il quale andare ad uccidere una persona è come comprare un pacchetto di sigarette…”.  Successivamente Flamia, pentito del clan di Bagheria (alcun suoi verbali sono confluiti nell’inchiesta sul protocollo Farfalla, ndr), ha definito Messicati Vitale “il vero capo del mandamento di Bagheria, un uomo d’onore della famiglia di Villabate molto influente e potente, addirittura sovraordinato a Zarcone Antonino”. Dichiarazioni che, per gli inquirenti, trovano conferme in quanto dichiarato dall’ultimo pentito del clan di Bagheria, Antonino Zarcone: “È uomo d’onore di Villabate. Dopo l’arresto di Giovanni D’Agati ha preso in mano la direzione della locale famiglia e ha anche favorito la latitanza di Gianni Nicchi”, sostiene il pentito, che aggiunge: “Nel 2011 io sono stato affiliato nella famiglia di Villabate anche se dovevo fare parte della famiglia di Bagheria, alla presenza dei fratelli Messicati Vitale, Tonino e Fabio, e Lauricella. Io, Gino Di Salvo e Tonino Vitale avevamo un ruolo direttivo nel mandamento di Bagheria; Nicola Greco era all’oscuro della nostra affiliazione”.

(fonte)

Facce intelligenti (e paurose) di boss acciuffati

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I carabinieri del reparto operativo del comando provinciale di Caserta, guidati dal tenente colonnello Alfonso Pannone, hanno proceduto, la scorsa notte, a seguito di un’articolata e complessa attività d’indagine, alla cattura del latitante Gaetano Cerci (in foto), 49 anni, residente a Casal di Principe.

L’uomo, già pluripregiudicato, era stato precedentemente, lo scorso 24 luglio, destinatario di un’ordinanza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere per il reato di estorsione in concorso con altri tre soggetti, Mirco Feola, Adamo Filippella e Francesco Fiorinelli.

Fu poi scarcerato l’11 agosto scorso dal Tribunale del Riesame. Il giorno seguente, sulla base del fondato pericolo della reiterazione dei reati imputati, fu emessa una nuova ordinanza cautelare in carcere dal gip del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere e da allora Cerci ha iniziato la sua latitanza, conclusasi però la notte scorsa nei pressi della stazione ferroviaria di Salerno.

Il latitante è stato bloccato a bordo di un treno proveniente dal nord Italia.  La scelta della destinazione salernitana da parte di Cerci era proprio finalizzata ad eludere i controlli e la cattura. Cerci, ritenuto affiliato alla fazione Bidognetti del clan dei casalesi, secondo gli investigatori ha da sempre fornito la sua collaborazione al sodalizio criminale occupandosi quasi prevalentemente della delicata questione dello smaltimento e stoccaggio dei rifiuti.

L’argentino Mancuso

Aveva tentato di uccidere addirittura la zia e il cugino. Il boss Pantaleone Mancuso, detto “Luni l’ingegnere” (53 anni), è stato fermato al confine tra l’Argentina e il Brasile. Un altro boss della‘ndrangheta calabrese finisce in manette. La notizia si è saputa solo oggi (venerdì 12 settembre) ma dal 29 agosto uno dei più sanguinari capicosca di Vibo Valentia è nelle mani della polizia argentina che lo ha sorpreso a bordo di un pullman turistico con 100mila euro in tasca.

Era latitante dallo scorso aprile quando la Dda di Catanzaro ha emesso un decreto di fermo accusandolo di associazione mafiosa e del tentato omicidio di Romana Mancuso e del figlioGiovanni Rizzo avvenuto il 26 maggio del 2008 a Nicotera Marina. “Luni” voleva punire il figlio della zia perché non era considerato “un buon azionista” e non teneva alto il buon nome dei Mancuso, padroni assoluti di tutto il vibonese. Stando a una testimone, oggi testimone di giustizia che ha ricostruito i retroscena di quell’episodio, infatti, il boss accusava Giovanni Rizzo di prendere “iniziative sbagliate nei confronti di persone già protette che, evidentemente, poi si lamentavano con altri Mancuso”.

Un errore che doveva essere punito anche se commesso da un familiare. Al momento del fermo, “l’ingegnere” era in possesso di un documento argentino falso intestato a “Luca de Bortolo”, la sua vera identità è emersa a seguito dei controlli fatti con le impronte digitali. Nei prossimi giorni, i magistrati della Dda di Catanzaro organizzeranno il rientro del boss in Italia.

“Siamo soddisfatti – è stato infatti il commento del procuratore di Catanzaro Vincenzo Antonio Lombardo – abbiamo già avviato la richiesta di estradizione. “L’ingegnere” è ritenuto un personaggio di rilievo della costellazione dei Mancuso, un discendente della stirpe degli undici, ovvero gli undici fratelli che componevano il ramo della prima generazione della famiglia di ‘ndrangheta che opera a Limbadi, nel vibonese”.

(fonte)