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aveva

Lombardia in tilt, ancora

La vaccinazione antinfluenzale fallita e finita. La “scoperta” che creare zone rosse era possibile. L’improvvisa rimozione del dg alla Sanità. Sì, si va proprio alla grande nella Regione amministrata da Fontana e Moratti

Varrebbe la pena andare a rivedere le immagini di Fontana e Gallera mentre assicuravano di non avere nulla da rimproverarsi sulle azioni messe in campo da Regione Lombardia per fronteggiare la pandemia. Varrebbe la pena scrutare con attenzione, tenerle bene a mente, quelle facce così convinte, quasi con sicumera, mentre accusavano noi giornalisti di voler remare contro, di vedere errori che non esistevano, mentre garantivano che tutto andava bene, che tutto sarebbe andato bene, che i vaccini antinfluenzali sarebbero stati fatti, che la Lombardia era solo vittima di una serie sfortunata di circostanze. Quelle circostanze sfortunate in effetti erano loro.

Gallera non c’è più, silurato perché ingenuo nelle dichiarazioni e perché gran collazionatore di figure di tolla (come si dice in Lombardia). È stato il capro espiatorio perfetto per essere linciato in nome della salvezza di tutti gli altri. Qualcuno ha osato pensare che avere cacciato Gallera fosse un’ammissione di colpa ma anche in questo caso Fontana se l’è presa sul personale e ha avuto il coraggio di dirci che no, che Gallera era solo un po’ “stanchino” (ha avuto il coraggio di dire davvero così). Peccato che qualche settimana dopo proprio Gallera si sia lasciato sfuggire in una trasmissione di una televisione locale che no, non era stanco, e che era stato Salvini a silurarlo.

Poi è arrivata Letizia Moratti con una nomina che ha tutto il sapore di un commissariamento. Ma come? La fulgida Lombardia aveva bisogno di una perdente per risollevarsi? Niente, non hanno mai risposto. Tra l’altro Moratti non ha fatto rimpiangere per niente Gallera in tema di figure barbine iniziando subito a bomba con la sua proposta di un vaccino in base al Pil. Intanto la campagna vaccinale antinfluenzale è miseramente fallita e finita. Poi ci hanno detto che entro giugno avrebbero vaccinato tutti i lombardi. Ora dicono che no, che si erano sbagliati. È arrivato pure Bertolaso. Ma come? Ma mica la Regione era talmente brava e competente?

Poi è successo che Regione Lombardia abbia chiuso dei comuni, trasformati in zona rossa per le varianti del virus. Ma come? Ma mica Fontana ci aveva detto che era compito del governo? E ora invece si può? E perché allora non si è chiusa la bergamasca? Quanti morti si potevano risparmiare? Nessuna risposta.

Ieri è stato fatto fuori il direttore generale alla Sanità Marco Trivelli. Sono rimasti sorpresi anche i consiglieri di maggioranza. Il comunicato della Regione è imperdibile: «Si tratta di destinare un’importante risorsa in termini di competenza ed esperienza alla guida di un’area strategica per la quale l’assessorato al Welfare di Regione Lombardia vuole riservare la massima attenzione». L’hanno spedito all’ospedale di Vimercate, il direttore generale, e vogliono farci credere che sia quasi una promozione.

Per inciso: Trivelli aveva sostituito 8 mesi fa, sotto Gallera, Luigi Cajazzo, oggi indagato dalla procura di Bergamo per il caso dell’ospedale di Alzano Lombardo, riaperto il 23 febbraio 2020 nonostante l’accertamento dei primi casi di Covid. Trivelli era quello che difendeva Fontana sui dati sbagliati inviati da Regione Lombardia, quello che ci assicurava che i vaccini antinfluenzali stavano andando alla grande.

Alla grande, proprio, sì, si va alla grande in Lombardia.

Buon venerdì.

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Un governo per niente impolitico

Il governo Draghi, quello che fa sognare i portatori d’acqua delle élite e i nuovi feticisti del merito usato come termometro personale per poter giudicare il mondo, ha già fissato un nuovo record: i suoi ministri hanno cominciato a litigare tra di loro quarantotto ore dopo il giuramento, due giorni prima addirittura di ottenere la fiducia, nemmeno il tempo di tornare a casa e svestirsi dei vestiti di ordinanza che erano serviti per apparire sobri. Tolti i vestiti, tolta la sobrietà. Il punto dirimente è stata la chiusura all’ultimo momento delle piste da sci alla luce dei nuovi dati sanitari (tra l’altro l’ennesimo colpo a un’economia che prova faticosamente e costosamente a rialzarsi e poi si ritrova con le gambe spezzate dal virus) ma non preoccupatevi perché sarebbe potuto accadere su un tema qualsiasi e accadrà, vedrete, su un altro milione di punti. Comunque è bastato il decreto firmato dal ministro Speranza (che mica per niente fino all’altro ieri era il capo della “dittatura sanitaria” strillata da destra) per accendere le voci di chi ha corso per scrollarsi di dosso la responsabilità e per apparire critico del governo per sembrare dalla parte dei lavoratori. In prima fila, ovviamente, ci sono stati i leghisti che sono quelli che più di tutti hanno meno da perdere nel fare gli sfascisti dall’interno e continuare a ondeggiare tra l’essere critici e responsabili, sovranisti e europeisti, patrioti e cosmopoliti.

Le bordate di Salvini, dei presidenti di Regione e dello Stato maggiore del partito avevano un unico obiettivo: scaricare su Speranza tutta la responsabilità, promettere che con loro queste cose non sarebbero mai più accadute e lanciare a Draghi il chiaro messaggio che loro no, non staranno tranquilli. Tant’è che proprio Palazzo Chigi (e hanno scritto tutti “Palazzo Chigi” perché gli tremano le dita a scrivere “Draghi”) ha dovuto smentire la fiumana critica che stava montando chiarendo che la decisione era stata condivisa in Consiglio dei ministri. Ovvero: questi fanno finta di non sapere e invece sono responsabili durante le riunioni con la maggioranza e poi si fanno esplodere appena gli capita davanti un microfono. E sarà così, sarà sempre così, sarà sempre di più così. Spiace anche vedere in giro gente che esulta confidando veramente sul fatto che Draghi riesca a tenere a bada i suoi ministri e i suoi sottosegretari: potrà anche accadere (sarà ben difficile, secondo me nemmeno questo accadrà) ma Draghi non potrà mai permettersi di zittire i partiti e sarà proprio dai partiti che arriveranno le bordate e non è un caso che i leader di partito si siano tenuti ben attenti tutti le mani libere. Ora da questo piccolo ma significativo episodio si può subito capire una cosa ben chiara: siamo di fronte a un governo con una connotazione fortemente politica (il “governo di quasi tutti i partiti”, altro che il governo dei tecnici) e noi dobbiamo valutarlo per questo. E allora che governo è il governo Draghi? La squadra di governo statisticamente disegna l’identikit di un maschio 55enne lombardo-veneto con 6 ministri di centrodestra (3 ciascuno per Lega e Forza Italia), 4 del M5s, 3 del Pd, 1 di Leu e 1 di Italia viva. Bastano le statistiche per capire di cosa stiamo parlando? Siamo di fronte a un governo con una maggioranza di ministeri dati al centrodestra (i numeri parlano) con il più promettente partito di destra, Fratelli d’Italia che presto volerà nei sondaggi, a capo dell’opposizione, con tecnici che provengono da una cultura bancaria a occupare le altre caselle, con una forte impronta cattolica (se non addirittura omofobi di derivazione ciellina) e con idee tutte’altro che progressiste in tema di diritti civili. Un governo, per intendersi, che dalle urne sarebbe uscito se la coalizione di Salvini e Berlusconi e Meloni avesse ottenuto la maggioranza dei voti e avesse potuto godere dell’appoggio esterno del presunto centrosinistra.

Questa è l’impronta, questa è la storia delle persone che sono al comando e non si capisce per quale ragione da un composto del genere dovrebbero uscire idee totalmente opposte ai loro curriculum. Allora forse conviene fare un patto, almeno con i lettori, e decidere che sia subito il caso di uscire da questo messianismo che ha immobilizzato un bel pezzo dell’opinione pubblica e che si cominci da subito a valutare il governo Draghi con lo stesso occhio clinico e attento che si userebbe per un governo di cui temiamo le mosse. Questo non per un miope pregiudizio di ideali (chi non si augurerebbe di vivere in un Paese che abbia la fortuna di trovare un ottimo governo?). Ma perché se continuiamo a rimanere imbrigliati nel tranello di considerare questo esecutivo “impolitico” allora saremo sempre pronti a digerire qualsiasi sua azione come “la meno peggio delle mediazioni possibili”. È un governo larghissimo? Sì, è vero, ma la responsabilità di tutta questa ampiezza se la sono presa Draghi e il presidente della Repubblica e se davvero siamo nell’epoca del “merito” allora se ne assumeranno tutte le responsabilità.

L’articolo prosegue su Left del 19-25 febbraio 2021

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L’intergruppo “Smutandati da Draghi”

I leghisti che plaudono alla cessione di sovranità all’Europa. I renziani entusiasti di un esecutivo che non parla di Mes. Il voto di fiducia al governo Draghi è stato il teatro di giravolte e capriole della politica

C’è talmente tanta ansia di comunicazione che alla fine tutti si esercitano nel solito esercizio: immaginare un programma di governo dalle parole di un discorso di insediamento vale più o meno come cavare il sangue da una rapa, soprattutto se il discorso al Parlamento è un elenco sartoriale (come l’oratore) di buoni propositi che possono voler dire tutto e il suo contrario.

Certo ieri Draghi ha fissato dei paletti e degli obiettivi dal profilo alto e di natura ambiziosa ma cosa ci possa essere dietro è ancora tutto da vedere. C’è dentro molta Europa (poi ci torniamo) com’era inevitabile che fosse ma bisogna capire se l’idea «di un’Unione europea sempre più integrata che approderà a un bilancio comune» indica una comunità di fatturati o di persone, c’è dentro la scuola ma si insiste sui «giorni di lezione persi» ed è un’affermazione falsa e piuttosto di pancia, c’è dentro finalmente la questione femminile collegata all’occupazione (ha detto Draghi: «aumento dell’occupazione, in primis, femminile, è obiettivo imprescindibile: benessere, autodeterminazione, legalità, sicurezza sono strettamente legati all’aumento dell’occupazione femminile nel Mezzogiorno») ma bisognerà vedere ovviamente come risolverla, c’è dentro molto ambiente (del resto lo chiede l’Europa, davvero), c’è dentro la cura per il patrimonio culturale anche se nella solita perversa visione della sua messa a reddito «per il turismo», c’è dentro la riforma strutturale del fisco che non può essere il mettere o togliere questo o quel balzello ma che ha bisogno di un pensiero totale che ne tocchi tutto l’impianto (ma bisogna vedere a favore di chi), ci sono dentro i giovani (quelli non mancano mai nei discorsi politici), c’è dentro il lavoro con una responsabilità politica enorme (scegliere quali aziende sostenere è una delle scelte più politiche che spetta a un governo, altro che tecnici), c’è dentro la promessa di politiche attive per i lavoratori (ma anche su questo non resta che aspettare i concreti provvedimenti). Volendo vedere ci sono anche parole che speriamo di avere interpretato male sull’immigrazione visto che è stata proposta come questione europea e l’esternalizzazione delle frontiere messa in atto dall’Europa è roba vergognosa che andrebbe rivista: nessuna parola su cittadinanza e integrazione, ad esempio. Parlando di ambiente è riuscito a buttarci dentro anche un ipotetico dialogo con il Signore, eh vabbè. Vedremo, osserveremo, vigileremo.

Però la giornata di ieri è stata anche e soprattutto la giornata dello smutandamento di politici ingarbugliati in capriole che sono stati smascherati da un governo che tra i suoi pregi ha sicuramente quello di svelare la bassa natura di alcuni protagonisti.

Per chi aspettava ad esempio con curiosità le parole dei renziani di Italia viva sul Mes che per Renzi era dirimente per l’eventuale fiducia al governo Conte (il 17 gennaio scorso disse «non voterò mai un governo che si ritiene il migliore del mondo e di fronte a 80mila morti non prende il Mes») c’è la fenomenale dichiarazione di Faraone: «Ci chiedono strumentalmente perché non chiediamo più il Mes. Non lo facciamo perché il nostro Mes è lei, presidente Draghi, e questo governo». Ecco, credo che non servano altri commenti.

Per chi ci diceva che il Recovery plan del precedente governo fosse “uno schifo” arrivano le parole di Draghi che confermano invece la «grande mole di lavoro» del governo precedente e l’intenzione di continuare in quella direzione. Così, per capire quanta ipocrisia ci siamo sorbiti nei giorni scorsi.

Draghi ha parlato di un rafforzamento della sanità territoriale e di fianco aveva Giorgetti, quello che diceva: «Mancheranno 45 mila medici di base, ma tanto nessuno va più da loro. È un mondo finito». Una scena epica.

Ma il campione delle giravolte è ovviamente Matteo Salvini che ieri è diventato turbo europeista lanciandosi a dire: «Vogliamo l’Europa 7 giorni su 7». Draghi ha parlato dell’irreversibilità dell’euro e lui si è inzerbinato, Draghi ha parlato di cessione della sovranità e il sovranista ha fatto sì sì con la testina. Un massacro. Se avete voglia di divertirvi andatevi a leggere i commenti dei suoi elettori sotto i suoi profili social: un’arena contro il capitano. Giorgia Meloni se la ride.

Lo slurp del giorno, manco a dirlo, lo vince Raffaella Paita di Italia viva: «Tra gli aspetti che mi hanno colpito del discorso di #Draghi c’è un dettaglio che probabilmente non tutti hanno notato. Quando veniva interrotto da applausi ricominciava il periodo dall’inizio per rispettare il rigore del ragionamento. #questionedistile #senato», ha scritto ieri. Evviva.

Buon giovedì.

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La strage degli invisibili, il freddo uccide 25 senza tetto

Ci sono vite che non si incrociano, che non hanno voce da alzare, che scivolano fuori dal dibattito politico perché vengono considerate poca roba, che non spostano molti voti, che si affievoliscono. Quando l’11 marzo dell’anno scorso per motivi di sicurezza nazionale, con lo spettro del virus che incombeva, il primo di una lunga serie di Dpcm lanciava l’appello #iorestoacasa per più di 55mila persone quel consiglio non era perseguibile: una casa non l’avevano. Sono vite precarie che ciondolano tra problemi di salute, fragilità relazionali e condizioni di vita assai difficile, sono il percolato di una paradigma sociale in cui se ti lasci andare finisci schiantato senza nessuna rete di protezione.

La pandemia non è uguale per tutti e non è nemmeno l’occasione per romanticizzare la solitudine nonostante più di qualcuno abbia provato a inquinare lo sguardo: la pandemia ha reso i poveri ancora più poveri, i precari ancora più schiacciati e ha annientato quelli che non avevano niente e ora insieme al peso del niente si portano anche la paura o le conseguenze del virus: «È stata un acceleratore per la costruzione di risposte e soluzioni organizzative, ma rimane il fatto che vi sono case vuote e tante persone in strada. Dare una casa a queste persone significa salvare la loro esistenza, significa dare loro forza e coraggio per riprendere in mano la propria vita, riallacciare relazioni ed affetti, reinserirle nel tessuto sociale», spiega la Fio.Psd (Federazione italiana organismi per le persone senza dimora) che con Iref (istituto di ricerche educative e formative) e in collaborazione con la Caritas ha redatto un report sulla situazione dei senza tetto in Italia lo scorso 26 novembre e che ora lancia un appello al Governo e al ministro Orlando per chiedere di agire subito. «Non dimentichiamoci degli ultimi!», dice Cristina Avonto, presidente della Fio.Psd, ricordando come con le temperature sotto zero siano già 25 i morti in strada.

L’organizzazione ricorda che l’Housing First (l’opportunità di entrare in un appartamento autonomo “senza passare dal dormitorio” godendo dell’accompagnamento di una equipe di operatori sociali direttamente in casa) costa in media 26 euro al giorno rispetto ai 30 euro giornalieri dei dormitori e i beneficiari vedono garantiti i loro diritti fondamentali: casa, residenza, lavoro e reddito. Le ricerche raccontano che in 8 casi su 10 la persona esce dall’isolamento, stabilizza il proprio benessere psico-fisico, si prende cura della propria salute, si impegna in attività di training e occupazioni di svago e in molti casi riprende i legami con familiari e amici. Sono storie di riscatto che ridisegnano il prodotto interno lordo della dignità di un Paese.

C’è Gian Maria, ad esempio, che per strada ci ha vissuto per cinque anni perché il suo orgoglio l’aveva sempre spinto a non chiedere aiuto ai dormitori pubblici. Gian Maria ha perso il lavoro, ha perso la casa ed è sopravvissuto fra i vagoni di un binario abbandonato frequentando le mense cittadine finché un suo compagno una notte non gli morì di fianco. Quando gli offrirono una casa la rifiutò, pretendeva un lavoro: «E come me la pago una casa se non ho un lavoro?», disse ai volontari. A 59 anni ora Gian Maria, che si sentiva a capo di un manipolo di soldati traditi dallo Stato, ha ricominciato piano piano a reinserirsi, ad affidarsi alle cure di uno psichiatra, a occuparsi di tutti i documenti che smettono di renderlo invisibile, ad appoggiarsi al reddito di cittadinanza e ora ha l’occasione di un lavoro.

C’è Anita che dopo la fine di una relazione si è ritrovata a chiedere ospitalità in un dormitorio e che ha vissuto una convivenza difficile con altre 6 donne. Trovare una casa ha avuto un effetto sorprendente: un crollo degli elementi di tensione e conflitto e una gioia incontenibile per la novità di un luogo da sentire come “casa propria”. Adesso ha un lavoro, la residenza e può incontrare a casa i suoi figli. Ci sono i racconti di chi ha vissuto l’angoscia della pandemia moltiplicata dall’essere per strada. Antonio racconta: «Uscivamo la mattina e non sapevamo dove andare, per evitare di incontrare la polizia, vagavamo per la strada in metro. Ci sentivamo braccati, evitavamo di fermarci perché altrimenti ci davano degli appestati. Vedere il panorama di una città vuota, senza auto e né persone, solo gabbiani».

«Troppe persone che da anni sono bloccate nel circuito dei servizi rendono evidente che il sistema è inefficace per fronteggiare le crisi – dice Giuseppe Dardes, coordinatore della Community italiana dell’Housing First -. Non possiamo sprecare questa opportunità. Persona al centro e responsabilità diffusa nella comunità: questi sono i due fattori chiave dell’efficacia di Housing First sia nell’esperienza italiana sia in quella della rete internazionale a cui Fio.Psd aderisce. Crediamo che si possa e si debba ripartire da qui per una nuova stagione della programmazione degli interventi per il contrasto alla grave emarginazione adulta».

La pandemia sta bloccando e scoraggiando gli ingressi nei ricoveri caritativi notturni, rendendoli anche più complicati per l’obbligo di eseguire il tampone. Tra i morti congelati e soli che riempiono qualche riga di giornali c’è anche Mario, 58 anni, deceduto il 6 gennaio vicino alla stazione Termini, a Roma. A pochi passi da lui c’era un albergo, vuoto per l’emergenza Covid. È la foto perfetta di un accoglienza possibile che viene respinta e lasciata sul marciapiede.

L’articolo La strage degli invisibili, il freddo uccide 25 senza tetto proviene da Il Riformista.

Fonte

Fingeranno sempre di passare lì per caso

Il governo ha deciso di chiudere le piste da sci sulla base dei dati del Cts sui contagi. Apriti cielo. Da Salvini a Zingaretti si levano voci sdegnate. E a parlare così sono i politici di quegli stessi partiti che hanno ministri nell’esecutivo Draghi. Ecco cosa c’e dietro il “governo dei sogni”

Giornata interessante, quella di ieri. Giornata significativa anche per quelli che da qualche giorno sospirano petali di rosa sognanti per un Draghi taumaturgo che avrebbe il potere di cancellare i partiti, la politica, la mediocrità di certi leader e soprattutto i normali meccanismi democratici di un Parlamento.

Accade che il governo decida di chiudere le piste da sci che invece avrebbero dovuto aprire. Accade che lo faccia all’ultimo momento: l’ultimo momento del resto è il primo momento utile con i nuovi dati che arrivano dal Comitato tecnico scientifico e volendo ben vedere anche il primo giorno utile da un governo che è naufragato per regalarci il governo dei sogni, il governo dei migliori, il governo che avrebbe cambiato tutto. Accade che di fronte i dati dei nuovi contagi (perché la curva non si abbassa più e anzi in modo preoccupante tende a rialzarsi probabilmente a causa delle varianti del virus) si decide di tenere chiuse le piste sciistiche. Apriti cielo: ogni volta che qualcuno tocca un settore qualsiasi ovviamente (e giustamente) si levano voci sdegnate. Ma badate bene, qui non si tratta delle voci dei lavoratori, che si sono ritrovati nella pessima situazione di dover cancellare una riapertura programmata che è costata organizzazione, soldi, fatica e che inevitabilmente costa moltissimo in termini economici e di spirito. No, qui si levano le voci sdegnate dei politici.

«I ministri hanno la nostra fiducia. ma serve cambiare qualche tecnico – ha avvertito Salvini – La comunità scientifica è piena di persone in gamba». Il presidente di Regione Lombardia, il leghista Fontana dice: «Trovo assurdo apprendere dalle agenzie di stampa la decisione del ministro della Salute di non riaprire gli impianti sciistici a poche ore dalla scadenza dei divieti fin qui in essere, sapendo che il Cts aveva a disposizione i dati da martedì, salvo poi riunirsi solo sabato». «Sono allibito da questa decisione che giunge a poche ore dalla riapertura», dice il presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio. Piste da sci aperte in Friuli Venezia Giulia dal 19 febbraio anche per gli sciatori amatoriali. Il governatore Massimiliano Fedriga ha firmato l’ordinanza urgente n. 4/2021 con cui apre anche agli sciatori amatoriali, a decorrere dal 19 febbraio e fino al 5 marzo, gli impianti nelle stazioni e nei comprensori sciistici. «Per noi viene prima di tutto la salute dei cittadini ma è raccapricciante e imbarazzante vedere un’ordinanza che proroga la chiusura degli impianti da sci pubblicata 4 ore prima di mezzanotte», dice il presidente veneto Luca Zaia. Ma badate bene, non è mica solo la Lega: «Il danno per l’economia dello #sci e della #montagna è davvero immenso. Il Governo si adoperi subito per indennizzi e ristori a chi è stato colpito. Questa è la priorità assoluta», spara il segretario del Pd Zingaretti. «Non posso non esprimere stupore e sconcerto, anche a nome delle altre Regioni, per la decisione di bloccare la riapertura degli impianti sciistici a poche ore dalla annunciata e condivisa ripartenza», dice il presidente dell’Emilia-Romagna e della Conferenza delle Regioni, Stefano Bonaccini. Italia Viva (figurarsi) chiede “un cambio di passo”. E via così.

Tant’è che a un certo punto si diffonde l’opinione che la decisione sia stata presa dal ministro Speranza, da solo rinchiuso nella sua stanzetta e che loro non ne sapessero niente. Peccato che a metà giornata Palazzo Chigi (quindi Draghi) fa sapere all’Agi che la decisione sugli impianti sciistici è stata adottata in base alle informazioni fornite dal Cts e condivisa dal governo e dal presidente del Consiglio Mario Draghi. Cioè la decisione è stata discussa con tutti i ministri e quindi si presume che i ministri abbiano avvisato i segretari del proprio partito e quindi si presume che sia tutta una posa, una finta sorpresa, un giochetto facile facile: questi fingeranno sempre di essere presi alla sprovvista perché appoggeranno il governo nella comoda posizione di chi comunque si sente un battitore libero. E continueranno a sparare cannonate perché Draghi potrà (forse) riuscire a tenere a bada i ministri e non i partiti, com’è normale che sia.

Ora capite perché la favola del “governo tecnico” è una bufala? Questi continueranno a fingere di passare di lì per caso, in Consiglio dei ministri, rimanendo stupiti tutte le volte, ognuno per proprio tornaconto elettorale. Il “governo dei sogni” è un governo che ha messo sul palcoscenico tutte le mediocrità, nessuna esclusa, e che rende facilissima la vita agli “oppositori interni”, quelli che sfasciano tutto per sentirsi vivi. Un capolavoro, insomma.

Buon martedì.

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Eccoli “i migliori”

Cosa hanno fatto e detto in passato alcuni ministri del nuovo esecutivo guidato da Mario Draghi, il cosiddetto governo dei migliori

Renato Brunetta in un Paese normale, in un Paese capace di esercitare il muscolo della memoria almeno per qualche anno, sarebbe considerato un politico “finito”, uno di quelli che incassa con dignità le sue sconfitte e silenziosamente si ritira a fare altro. In Forza Italia, nella Forza Italia che si è sgretolata in questi ultimi anni, lui ha mantenuto invece la qualità politica che più conta da quelle parti, la fedeltà al capo e ad esserne lo scherano e così ce lo ritroviamo estratto dal cilindro. Brunetta fu già ministro nel terzo governo Berlusconi, proprio alla Pubblica amministrazione, ve lo ricordate? Fu quello che si presentò additando come «fannulloni» i dipendenti pubblici (e se ci fate caso quel vento sta tornando di moda, bravissimo Draghi a fiutarlo, chapeau) e pensò bene di installare dei tornelli negli uffici (voleva metterli anche nei tribunali) per risolvere il problema dell’assenteismo. Capite vero? Il governo dei migliori che dovrebbe farci dimenticare i banchi con le rotelle ha ripescato dal cassetto dei giocattoli rotti il ministro dei tornelli. Fu il Brunetta che si scagliava contro i magistrati che «lavorano due e tre giorni alla settimana» (ma per difendere Berlusconi bisogna per forza odiare i magistrati) e che aveva definito alcuni poliziotti dei «panzoni passacarte». La sua riforma che avrebbe dovuto rivoluzionare la pubblica amministrazione non ha cambiato nulla, nulla. In compenso Brunetta fu quello che accusava le donne di usare «gli ammortizzatori sociali per fare la spesa» e che, tanto per farsi un’idea dello spessore culturale, disse: «Esiste in Italia un culturame parassitario vissuto di risorse pubbliche che sputa sentenze contro il proprio Pae­se ed è quello che si vede in que­sti giorni alla Mostra del Cine­ma di Venezia». Un migliore, senza dubbio.

Mariastella Gelmini fu la ministra all’Istruzione che per quelli della nostra generazione ha lasciato come ricordo le macchie di un incubo. Tanto per stare sui numeri: un taglio in tre anni di 81.120 cattedre e 44.500 Ata (il personale non docente). È la sforbiciata complessiva di 125.620 posti dal 2009 al 2011 che avrebbe dovuto far risparmiare all’Erario poco più di otto miliardi di euro. Otto miliardi e 13 milioni, per la precisione, stima il Tesoro nel «Def 2011». Parte di queste risorse, il 30%, servivano a recuperare gli scatti stipendiali bloccati nel luglio 2010 da Giulio Tremonti. Da buona efficiantista non sognava una scuola migliore ma ambiva a tagliare “gli sprechi”. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, di fronte ai tagli alla ricerca, era però dovuto intervenire a gamba tesa nel 2009 invitando la ministra a «rivedere alcuni tagli indiscriminati». Delle donne disse che sono delle «privilegiate» se scelgono di assentarsi dal lavoro dopo la gravidanza. Nel 2009 pensò anche a un tetto del 30%, per ridurre il numero degli stranieri in classe. Una migliore, applausi.

Erika Stefani è ministra alle disabilità. Già il fatto che per le disabilità venga messo in piedi un ministero senza sapere e senza capire che il tema attraversi tutte le competenze ha la forma di un’elemosina, lo ha spiegato benissimo Iacopo Melio in questo articolo per Repubblica, ma uno si aspetterebbe che in quel ministero lì ci sia una persona empatica, inclusiva, con testa e cuore larghi. Erika Stefani è stata ministra con il primo governo Conte ma se la ricorda solo Wikipedia. Fino a qualche giorno fa aveva come copertina della sua pagina Facebook la sua foto in Parlamento mentre strillava con un cartello “No ius soli”. Era una di quelli che proponevano le gabbie salariali ovvero «alzare gli stipendi al Nord e abbassarli al centro-Sud». Una migliore, complimenti.

Poi c’è Giorgetti, sempre della Lega, come Stefani. Giorgetti è in Parlamento dal 1996 e ha il grande “pregio” di aver sempre seguito i potenti, passando indenne da Bossi a Maroni fino a Salvini. Parla poco perché quando parla dice cose che rimangono impresse a fuoco come quella volta che disse che i medici di famiglia non servono più. Infatti nella sua Lombardia i medici di famiglia sono stati disarticolati e la Covid ha preso piede con grande libertà. Un capolavoro. Giorgetti è uno di quelli stimati perché non parlano mai e rischiano di sembrare intelligenti, come Guerini nel Pd, sempre pronti ad attaccarsi alle braghe del potente giusto per risultare pontieri mentre invece sono solo camerieri. Giorgetti era uno di quelli che ci spiegò che i mercati europei attaccavano la Lega perché «i mercati sono popolati da affamati fondi speculativi che scelgono le loro prede e agiscono», disse proprio così. Ora è europeista. Che migliore, davvero.

Questo è solo un assaggio. Nei prossimi giorni li raccontiamo per bene tutti. Evviva i migliori. Evviva.

Buon lunedì.

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“Bene il ministero verde, ma il M5S in questi tre anni ha fatto solo danni all’Ambiente”: la portavoce di Green Italia a TPI

Quindi ora si esulta per il super ministero per la Transizione ecologica, come l’ha chiamato con enfasi Beppe Grillo. Ma serve davvero? Come siamo messi con le politiche ambientali? Ne abbiamo parlato con Annalisa Corrado, portavoce del movimento Green Italia, ingegnera meccanica specializzata in Ricerca Energetica, che si occupa di impianti alimentati da fonti rinnovabili, di efficienza energetica, di gestione virtuosa di rifiuti e sotto-prodotti e di  valutazione degli aspetti ambientali dei sistemi energetici.

Ora torna di moda l’ambientalismo. Grillo dice di avere ottenuto da Draghi un super ministero per la Transizione ecologica e il tema esplode sui media. È comunque un bene o rischia di essere l’ennesimo fuoco di paglia che passerà presto?
A Grillo ha fatto molto comodo intestarsi questa proposta con un colpo di teatro. Ma, avendo avuto a disposizione tre anni con il primo partito in Parlamento, avrebbe potuto fare molto se ci avesse tenuto tanto. Contano i fatti: i fatti dicono che non solo i Cinque Stelle non hanno fatto molto, ma anche che, di tutte le cose che si sono intestati come battaglie politiche sull’ambientalismo, non hanno fatto praticamente nulla, se non alcuni danni piuttosto importanti.

Fa un po’ sorridere che adesso l’ambientalismo emerga come una vittoria di Grillo, anche se il fatto che abbia spinto anche lui su questa soluzione torna comunque utile, soprattutto perché finalmente se ne parla nel dibattito politico e mediatico, cosa che non accade quasi mai. A mio avviso l’istituzione di questo ministero è un’ottima notizia: tutto si giocherà su quali deleghe avrà il ministero, su chi lo guiderà e con quale visione, con quali risorse e con quale sostegno politico.

Noi avevamo chiesto addirittura una cabina di regia in sede alla Presidenza del Consiglio perché combattere il cambiamento climatico prevede un’interdisciplinarietà tale che rende insufficiente un dipartimento del ministero dell’Ambiente com’è ora. Ci vuole delega sull’Energia, sui Trasporti, sulla Mobilità, sull’Industria, sull’Allevamento, sull’Innovazione, sulla Cultura, sulla Formazione, praticamente tutto deve essere organizzato per essere sinergico. Se il nuovo ministero sarà così, allora sarà esattamente quello che serve. Solo dall’annuncio comunque c’è stato un dibattito culturale e politico sicuramente positivo.

Qualcuno fa notare che al ministero esistesse già un dipartimento che avrebbe dovuto occuparsi proprio di questo. Ritiene utile che venga creato un ministero appositamente?
Sì, esiste un dipartimento, ma è totalmente insufficiente anche perché il ministero per l’Ambiente in Italia non ha deleghe forti, non ha disponibilità e importante e non ha una struttura forte. Basti pensare che al ministero per l’Ambiente non è mai stato fatto un concorso specifico: sono tutti funzionari e dirigenti che vengono da altre realtà e tutti i tecnici sono stati consulenti esterni con contratti super precari, con un turnover spaventoso per cui metterci le mani adesso è complicato. È un ministero super depotenziato che quando andava a interloquire con altri ministeri non ne aveva la forza.

Come valuta il governo Conte dal punto di vista delle politiche ambientali?
La valutazione è piuttosto desolante, anche se il M5S aveva fatto promesse e creato consenso intorno a temi come l’abolizione dei sussidi alle attività dannose per l’ambiente o i sussidi alle fossili. Nei due governi in cui il M5S avrebbe avuto modo di agire non ha fatto nulla,. Solo ipotesi, i soldi sono sempre tutti là belli fermi. Anche perché quando c’è da fare una battaglia meno comprensibile per le persone, penso alla plastic tax, ci si tira immediatamente indietro.

Ma soprattutto il M5S ha fatto danni rispetto all’economia circolare, che è un tema da loro molto cavalcato, perché ogni volta che in un territorio c’è un loro comitato contro un qualsiasi tipo di impianto sono sempre in prima linea. C’è una grande ambiguità tra il consenso popolare e le cose che si devono fare. La rivoluzione verde non sarà indolore: prevede uno stravolgimento importante delle nostre abitudini, del modo di fare produzione, di fare industria, di spostarsi. Tutte le rivoluzioni vanno costruite con attenzione ai più fragili, alle disuguaglianze sociali, però sono stravolgimenti che vanno spiegati e compresi con competenza e che vanno governati.

Noi abbiamo perso molti treni come tessuto industriale proprio perché non siamo stati in grado di capire che questa era la nuova direzione in tutta Europa. Faccio un esempio: ora che la plastica monouso è messa da parte, l’industria del nord Italia, che produce il 70% del monouso che viene venduto in Europa, è in crisi. Quando 15 anni fa gli ecologisti dicevano di investire in economia circolare li guardavano tutti come dei pazzi. Forse adesso un poco lo stiamo comprendendo.

Quali dovrebbero essere le priorità del governo Draghi sul tema, anche in previsione dei soldi che arriveranno dal Recovery Fund?
Serve una visione sistemica, mancano gli indicatori, manca una visione complessiva, mancano gli strumenti e mancano le indicazioni delle riforme per portare a termine gli obbiettivi. Noi già siamo in difficoltà nella gestione ordinaria delle risorse europee figuriamoci in una situazione del genere. C’è troppo poco sulle fonti rinnovabili, pensando solo a un potenziamento del bonus sull’edilizia residenziale.

Servirebbe una riconversione di tutto il sistema industriale verso l’economia circolare, che non può essere solo una nicchia: l’economia circolare è la lente attraverso cui progettare tutta la filiera industriale italiana. Ad esempio: vogliamo tornare a contare nell’automotive? Dobbiamo convertire le nostre produzioni, ancorate a un modello vecchissimo per i soliti interessi fossili che ci hanno penalizzato.

Ci sono tante voci scoperte e non c’è un sistema di rendicontazione dei risultati. Poi non si può dire “il 37% va alle rinnovabili e il resto lo mettiamo dove ci pare”: serve una strategia complessiva che nemmeno un euro vada contro l’obbiettivo della de-carbonizzazione. L’altra priorità di Draghi deve essere l’infrastrutturazione di questo Paese, un welfare che crei una salubrità come concetto molto più profondo del semplice concetto sanitario e poi la ristrutturazione sociale per l’emersione della parità di genere e dei talenti femminili. Non dimentichiamoci che l’approccio ecologista segue l’agenda 2030 dell’Onu quindi il Pnrr deve essere illuminato da quel documento.

Com’è messa l’Italia in termini di politiche ambientali nello scacchiere europeo?
Siamo messi male, molto male. Abbiamo procedure d’infrazione su tantissimi temi come la qualità dell’aria e la gestione dei rifiuti. Le cose in Italia succedono solo quando le procedure d’infrazione diventano insostenibili: vedi la chiusura della discarica di Malagrotta. C’è stato un breve periodo in cui abbiamo fatto parecchio per le rinnovabili a cavallo del 2010 dopodiché ci siamo completamente fermati.

Abbiamo un territorio dove servono moltissime bonifiche, abbiamo zone aggredite dall’industria dove le industrie se ne sono andate e sono rimasti i danni. I numeri epidemiologici a causa dell’inquinamento sono spaventosi e le politiche non sono all’altezza. Ci sono nazioni che hanno uno sguardo molto più alto del nostro, come la Francia, la Germania e i Paesi del nord. Addirittura a prescindere dal colore del governo del momento.

Ritiene che quella stessa parte politica che per anni ha negato i cambiamenti climatici possa ora ravvedersi in nome della “responsabilità” invocata da Mattarella?
No, quella parte politica che nega i cambiamenti climatici con battute di spirito cambi le sue posizioni che sono sempre state sui fossili e sulla conversazione. Sono anche partiti antiscientifici, l’abbiamo visto anche per il Covid. Non credo cambieranno improvvisamente idea. Potrebbe essere ora che intuiscano che anche negli interessi dei loro interlocutori (industriali, piccole e medie imprese) è ora di mettere al centro la sostenibilità e la conversione ecologica.

Vince chi investe su questo e si fa trovare preparato alle crisi e i numeri dicono che sopravvivono le aziende più indipendenti dal punto di vista energetico, più pronte a affrontare un mercato che sta cambiando. Sta diventando un tema anche economico, con le linee guida dell’Europa bisogna sviluppare questa visione. In Germania i temi della transizione sono bipartisan, a parte Trump anche negli Usa i repubblicani parlano di carbon tax da anni.

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Ora per Italia Viva il Mes “non è imprescindibile”: svelato l’inganno, Renzi voleva solo la testa di Conte

Ogni tanto conviene esercitare la memoria, anche quella più breve, anche in un momento di eccitazione politica, almeno per una questione di igiene intellettuale, perché ognuno possa giudicare senza farsi travolgere dalle mistificazioni.

Ieri Maria Elena Boschi, esponente di spicco dei renziani, ha dichiarato in scioltezza che Italia Viva non ha mai preteso il Mes: “Abbiamo sempre detto che non era per noi imprescindibile”, dice l’ex ministra. E tutti che fanno sì sì, senza nemmeno porre qualche domanda.

Badate bene: è la stessa Boschi che lo scorso 12 gennaio disse che Italia Viva aveva “chiesto al governo di prendere il Mes”. “Servono soldi per la sanità, non poltrone per noi”, diceva.

È lo stesso partito che il 13 gennaio, in piena crisi politica, disse per bocca del suo padrone Matteo Renzi: “Qual è il punto decisivo per la rottura? Tanti. Ma su tutti, il Mes. Noi chiedevamo più soldi per la sanità, attivando il Mes”.

Il 17 gennaio fu sempre Renzi, ospite di Lucia Annunziata, a dire: “Non voterò mai un governo che si ritiene il migliore del mondo e di fronte a 80mila morti non prende il Mes”.

E fu sempre Renzi che disse: “La mancata attivazione del Mes sarà pagata dai dottori, dai ricercatori, dai malati e dalle loro famiglie”.

E quindi? Quindi il punto centrale della rottura di Italia Viva con il Governo Conte nel giro di pochi giorni è diventato precipitosamente un’inezia su cui si può soprassedere senza nessun problema.

Per carità, non stupisce: in questa fase politica, sotto il nome della “responsabilità”, stiamo assistendo alle più inaspettate (e poco dignitose) acrobazie per giustificare inversioni delle proprie fedi politiche: i sovranisti sono diventati europeisti, i nemici delle banche si sono innamorati di un banchiere, gli appassionati dei programmi scritti hanno acceso una smisurata passione al buio, i cultori dei passaggi democratici si scocciano ad avere a che fare con questo Parlamento.

Ma una domanda, una, sorge spontanea: il Matteo Renzi che per settimane ci ha detto che non fosse un problema di nomi e di persone ma che tutto il suo agitarsi fosse figlio di un’irrefrenabile coerenza per i suoi contenuti politici cosa ci dice ora del Mes, di Arcuri che dovrebbe rimanere dov’è, del reddito di cittadinanza che probabilmente non verrà toccato e di un governo che nasce proprio su un nome, su una persona?

Perché altrimenti avrebbe potuto dire che il problema era Conte, solo Conte e la pazza idea di governare (ancora) con il centrodestra. La sincerità è una virtù. Lo diceva anche Confucio.

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Messianismo, ancora

Il presidente del Consiglio incaricato Mario Draghi inizia oggi il suo giro di consultazioni. Le premesse non sono facili e questo è un punto politico, ci torneremo, ma ciò che conta che ad oggi Draghi l’abbiamo visto arrivare ai vari incontri istituzionali (i presidenti della Camera e del Senato e il presidente del Consiglio uscente), l’abbiamo ascoltato per qualche manciata di secondi in conferenza stampa mentre comunicava di accettare l’incarico con riserva e ne abbiamo potuto osservare l’eleganza del completo e la fulminante capacità di indossare correttamente la mascherina sopra al naso. Oggi inizierà a “fare politica”, oggi.

Eppure fin dalle prime ore di ieri mattina in Italia è scoppiato il messianismo e ancora una volta abbiamo assistito allo sport preferito di certa classe dirigente e di certo mondo dell’informazione: genuflettersi al prossimo leader, anche se ancora con riserva, e affidare a lui tutti i nostri vizi e le nostre fobie come se fosse uno psicoterapeuta e soprattutto comportarsi nel modo che abbiamo sempre criticato ai nostri avversari. Quelli che volevano il programma stampato con tutte le specifiche e i progetti declinati in centinaia di pagine ieri sono diventati barzotti per pochi secondi di discorso di circostanza: “ha sorriso!”, dicono, e in quel sorriso ci stanno infilando in queste ore tutto un ripieno di considerazioni politiche e finanche antropologiche, perfino il fatto che Draghi abbia sbagliato il lato dell’uscita dopo l’incontro con i giornalisti è diventato “un errore che lo rende più umano” come ha avuto il coraggio di scrivere qualcuno. Se fosse stato un avversario politico fino a due giorni fa ci avrebbero fatto un meme con una bella frase da sfottò. Poi ci sono quelli che per mesi ci hanno detto che “contano i fatti” e invece ora strepitano sul fatto che non dare la fiducia a Draghi sarebbe un sacrilegio: non si sa ancora un’idea che sia una di come Draghi abbia intenzione di portarci fuori dalla palude, sono gli stessi che ripetevano il ritornello del “contano le idee non le persone” e oggi si sono inzerbinati alle persone. Perché in fondo ciò che conta è l’atavica e feroce pulsione di gioire nella speranza della sparizione degli avversari, solo quella, solo per quello, un movimento di stomaco come il populismo che dicono di combattere.

In mancanza di temi veri la stampa ieri ha intervistato un centinaio di compagni di classe di Mario Draghi, un autorevole quotidiano che vorrebbe darci lezioni di giornalismo misurato ha scritto un lungo articolo su Mario “alunno brillante che non rinunciava alle battaglie con i cannoli e agli assalti ai prof con le pistole a riso”, Giancarlo Magalli è diventato un testimonial d’eccezione (come Salvini quando riporta le parole di Red Ronnie sul Recovery Fund), ovviamente ci si è buttati a pesce sulla moglie come curioso oggetto ornamentale da raccontare in tutti i suoi angoli d’osservazione. Agiografie dappertutto come se piovesse. Occhi puntati sui mercati come se fossero i giudici supremi della politica (perché è così che piace a molti di loro). Le agenzie di stampa battono convulse: “#Governo, look istituzionale per #Draghi”. Se lo aspettavano in braghette corte e anello al naso, probabilmente. Evviva, evviva. Dovremmo essere felici perché Draghi ha intenzione di relazionarsi con “rispetto” al Parlamento, evviva evviva. Anzi i più sfegatati invitano addirittura Draghi a “spazzare via tutti gli incompetenti in Parlamento”, qualcuno dice che dovrebbe “metterli a cuccia” e dire “faccio io”. Un delirio di incompetenza politica e di miseria istituzionale di un popolo perdutamente innamorato dell’uomo solo al comando, quello che da solo dovrebbe salvare l’Italia e che poi nel caso torna utilissimo da odiare in fretta e furia. Quelli che contestavano i “pieni poteri” che reclamava Salvini oggi vorrebbero un DPCM per affidare “pieni poteri” a Draghi: l’uomo forte al comando è un’idea che ha sempre germi che non portano a nulla di buono. 

Solo che oggi si comincia a fare sul serio e torna in campo il Parlamento, la politica, i partiti. Il primo capolavoro è avere resuscitato Salvini che era scomparso e ora è l’ago della bilancia. Non mi pare davvero una buona notizia. Anche questa volta la possibilità che si possa lavorare per ricostruire un centrosinistra seppur sgangherato sembra andare in frantumi, sarà per la prossima. C’è da trovare una maggioranza in Parlamento con quello che c’è e quel Parlamento è l’espressione democratica di quello che siamo noi. Ora siamo alla luna di miele ma quando ci sarà da parlare di soldi finirà questa tregua fatata e si ricomincerà di nuovo. È un moto circolare: ieri era l’ora dell’inno a Renzi che ci ha liberato da Conte, che ci aveva liberato da Salvini, che ci aveva liberato da Gentiloni, che ci aveva liberato di Renzi. Sempre con la soddisfazione bassa di avere eliminato qualcuno. E vorrebbero essere costruttori.

Ah, per i tifosi che leggono senza intendere: questo non è un articolo di critica preventiva verso Draghi di cui, vale la pena ripetere, al momento non conosciamo le proposte. Questo è un articolo per un pezzo di mondo che chiede “serietà” agli avversari e poi infantilmente tratta la politica come un reality show, anche senza Casalino.

Buon giovedì.

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