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Caso Regeni: l’Egitto ci prende in giro e il governo fa finta di niente

Ma cosa deve succedere ancora? L’Egitto deve bombardarci? Devono mandarci un figurante che finge di essere Giulio Regeni e fa “ciao ciao” con la manina in un video finto mandato in mondovisione? Devono accusare di terrorismo i magistrati romani? Devono raccontarci che il giovane ragazzo italiano è stato rapito dagli alieni e ucciso in una battaglia interstellare? Cosa deve succedere ancora perché uno, uno solo, uno qualsiasi degli esponenti del governo, cominci a alzare la voce e prendere un provvedimento che sia uno, uno solo, che non passi dalla vendita tutta compiaciuta di armi e navi?

Ieri i magistrati egiziani, dopo più di un anno, si sono presentati in videoconferenza ai magistrati italiani che indagano sul barbaro omicidio di Giulio Regeni e sono riusciti a non dare mezza risposta che sia mezza alle richieste. Dopo 14 mesi, non c’è nemmeno l’elezione del domicilio dei cinque indagati, tutti appartenenti ai servizi di sicurezza egiziana. E non solo: il procuratore egiziano Hamada Elsawy ha avuto anche l’ardire di chiedere (lui a noi) cosa ci facesse Regeni in Egitto, quasi alla ricerca di una giustificazione di quel massacro.

Addirittura la Procura egiziana emette un comunicato in cui sostiene che “Roma toccherà con mano la nostra trasparenza“, fingendo di non sapere che proprio alcuni giorni fa la famosa trasparenza egiziana ha inviato dei presunti effetti personali di Giulio Regeni che si sono rivelati falsi.

I genitori di Giulio, logorati da uno stillicidio continuo dal giorno della morte del figlio, hanno criticato l’atteggiamento egiziano “dopo quattro anni e mezzo dall’uccisione di Giulio e senza che nessuna indagine sugli assassini e sui loro mandanti sia stata seriamente svolta al Cairo”. E criticano ancora una volta il governo italiano per la sua linea della “condiscendenza”, del “stringere mani” e del “fare affari con l’Egitto”.

Perfino il presidente della Commissione d’inchiesta per la morte di Regeni, Erasmo Palazzotto, dice che “non abbiamo motivo di essere fiduciosi perché fino ad ora da parte egiziana sono arrivati soltanto tentativi di depistaggio e di coprire la verità”.

I genitori chiedono il ritiro dell’ambasciatore, il governo dice che ci pensa, una cosa è certa: a Giulio hanno massacrato la faccia, ma il governo italiano sembra volere fare tutto quello che serve per perderla. In tutto questo Patrick Zaky è prigioniero da 140 giorni, in attesa di un processo, mentre l’Italia fa finta di nulla. Quando finisce la pazienza?

Leggi anche: 1. I genitori di Giulio Regeni: “Un fallimento l’incontro tra pm italiani ed egiziani” / 2. Palazzotto a TPI: “Siamo in ritardo, ma vogliamo sapere la verità” / 3. Conte in audizione alla Commissione Regeni: “Da Al Sisi disponibilità, ora aspettiamo i fatti” / 4. L’Egitto acquista 2 navi militari italiane e tappa la bocca all’Italia sul caso Regeni

L’articolo proviene da TPI.it qui

Con l’Egitto non servono “progressi”: serve la verità

Vendereste armi a qualcuno che vi ha massacrato un giovane studente e che si è inventato di tutto prima di ammettere a mezza bocca solo che tutto quello che aveva cercato di dire per depistare è falso? Pensateci bene. Vendereste armi a un Paese che ha poi ripetuto lo stesso schema con uno studente, questa volta non italiano ma praticamente adottato dalla città di Bologna dove studiava all’università, arrestato lo scorso 7 febbraio e tutt’ora in attesa di un giusto processo e sottoposto a una detenzione che solleva più di qualche dubbio?

Il Paese in questione è l’Egitto e i due studenti sono Giulio Regeni e Patrick Zaky. A Regeni, come sappiamo tutti, è andata molto peggio e non è un caso che i suoi genitori giusto pochi giorni fa abbiano ribadito di essere molto delusi dalle istituzioni italiane.

Con l’Egitto l’Italia sta trattando per un affare militare del valore di 9-11 miliardi di euro e il presidente del Consiglio Conte qualche giorno fa ha dato il via libera per la vendita di due fregate Fremm. Vendere armi a un regime è già qualcosa di orrendo, venderle a un Paese che insiste a prenderci in giro sulla morte di Regeni è qualcosa di insulso.

Ieri Liberi e Uguali ha presentato un’interrogazione al ministro Di Maio (se vi chiedete se governino insieme la risposta è sì, torniamo al #buongiorno di ieri della simbologia che annoia) in cui chiedeva conto di questa torbida situazione con Al-Sisi e il ministro Di Maio ha risposto precisando che «resta ferma la nostra incessante richiesta di progressi significativi nelle indagini sul caso del barbaro omicidio di Giulio Regeni. Il governo e le istituzioni italiane continuano ad esigere la verità dalle autorità egiziane attraverso una reale, fattiva ed efficace cooperazione».

Ed è una frase che non vuol dire nulla. Non c’è nessuna cooperazione tra Egitto e Italia sulla questione Regeni: l’hanno detto in molti, tra cui quelli che indagano. Esigere la verità stringendo accordi è quantomeno curioso. Di Maio ha anche aggiunto: «l’Egitto resta uno degli interlocutori fondamentali nel quadrante Mediterraneo, nell’ambito di importanti dossier, come il conflitto in Libia, la lotta al terrorismo e ai traffici illeciti, nonché la gestione dei flussi migratori e la cooperazione in campo energetico».

Ecco, no, non ci siamo proprio. Qui non servono “progressi”, non ci si avvicina ad annusare la verità. La verità è una, limpida e manca.

Grazie.

Buon giovedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Platì: il parroco e il favoreggiamento ecclesiastico alla mafia

(Papa Francesco ha scomunicato i mafiosi ma dovrebbe dare un’occhiata anche ai suoi parroci. Forse. L’articolo di Lucio Musolino)

“La Chiesa deve dire di no alla ‘ndrangheta. I mafiosi sono scomunicati. La ‘ndrangheta è questo: adorazione del male e disprezzo del bene comune. Questo male va combattuto, va allontanato. Bisogna dirgli di no”. Le parole di Papa Francesco pronunciate durante la sua visita in Calabria nel giugno 2014 erano chiare. Non lasciavano adito a fraintendimenti. Eppure non sono state ascoltate da tutti. Sicuramente non le ha ascoltate don Giuseppe Svanera, parroco di Platì, che ai mafiosi non solo dice di sì, ma gli celebra i funerali, “li attende in chiesa e va a visitarli”. La polemica si è consumata tutta tra il 22 e il 23 ottobre quando il questore di Reggio Calabria Raffaele Grassi ha notificato al parroco un’ordinanza con cui ha vietato i funerali pubblici e in forma solenne per Giuseppe Barbaro conosciuto con il soprannome di “U cenni”. Si tratta di un esponente di spicco della ‘ndrangheta di Platì che nei giorni scorsi, a 54 anni, è morto in carcere dove stava scontando una pena perché condannato dal Tribunale di Torino a 5 anni nel processo “Minotauro”. Dal Piemonte alla Calabria, le regole della ‘ndrangheta sono le stesse. Comprese quelle dei funerali, ritenuti un momento importante per le famiglie mafiose che, proprio in queste occasioni, sfoggiano il loro potere e la loro capacità di piegare anche la Chiesa.

Per Giuseppe Barbaro, all’insaputa del vescovo di Locri, don Giuseppe Svanera prende carta e penna e scrive al ministro Angelino Alfano formulando un ricorso avvers o l’ordinanza del questore sostenendo che ha “infranto il principio di non ingerenza tra Stato e Chiesa”. Nella lettera, il parroco di Platì sfoggia le sue conoscenze giuridiche e, “sicuro di vostro benevole accoglimento del ricorso”, prima ricorda ad Alfano alcuni articoli della Costituzione e una sentenza del Tar della Campania e poi giunge alla conclusione che il “provvedimento di divieto questorile integra un illegittimo impedimento e limitazione allo svolgimento dell’ordinario rito funebre in forma pubblica previsto dal rito cattolico”. ‘Ndrangheta uno, Chiesa zeroplati-istanza-parroco.

Eppure il divieto dei funerali pubblici non è una novità in territori come quello di Platì. Poche settimane fa c’è stata la stessa ordinanza in occasione della morte del boss Paolo Sergi, un noto trafficante di cocaina coinvolto in numerose inchieste antimafia nell’ambito delle quali erano emersi i contatti tra il mondo dei narcos e delle brigate rosse. A queste latitudini, non c’è un mafioso morto che può vantare di aver ricevuto un trattamento diverso da quello imposto dal questore Raffaele Grassi.

Portano la sua firma, infatti, i divieti per altri funerali: da quello di Rocco Musolino, il “Re della Montagna” (ritenuto un boss anche se non è mai stato condannato per mafia), a quello dell’imprenditore di Palmi Vincenzo Oliveri, da quello del boss Antonio Nirta di San Luca a quello di Domenico Polimeni (uomo di fiducia dell’ex pentito Giuseppe Greco ucciso ad aprile).

E questi sono solo i morti eccellenti degli ultimi mesi per i quali è stato vietato il funerale in forma solenne, così come in passato è stato per il boss di Gebbione Santo Labate, per Domenico Vallelunga (padrino di Serra San Bruno), per il boss di Rosarno Giuseppe Pesce, per quello di Sinopoli Mico Alvaro, per il mammasantissima di Siderno Vincenzo Macrì (conosciuto con il nome di “barone”), per l’anziano patriarca Nicola Cataldo e per il reggente della cosca di Seminara Giuseppe Vincenzo Gioffré.

Ma a Don Giuseppe Svanera questo non interessa. D’altronde l’anno scorso aveva concesso una stanza della parrocchia per una protesta (organizzata dall’attuale sindaco di Platì Rosario Sergi) contro la frase del sottosegretario Marco Minniti che, dopo gli attentati terroristici in Belgio, aveva affermato “Molenbeek come Platì”. Una frase che non ha provocato un incidente diplomatico ma che, paradossalmente, ha urtato la suscettibilità degli abitanti di Platì.

Ritornando al funerale di Giuseppe Barbaro, sentito telefonicamente da ilfattoquotidiano.it il parroco rincara la dose: “È arrivata un’ordinanza del questore, l’ha portata la polizia e semplicemente ho detto che non sono d’accordo. Ho fatto tutto quello che c’era scritto lì, ma allo stesso tempo ho pensato che era conveniente e doveroso mandare questa nota al ministro Alfano. Personalmente non sono d’accordo che un questore possa proibire un funerale in chiesa. Un corteo lo può proibire senza nessun problema, ma in chiesa non comanda lo Stato. E dato che questo signore era battezzato e i familiari volevano i funerali in chiesa, io i funerali li faccio in chiesa, piaccia o non piaccia al questore. Non è lui che deve dare ordini”. E dopo la benedizione della salma al cimitero? “Alle 11 abbiamo celebrato la nostra messa in chiesa perché i familiari avevano affisso i manifesti con gli avvisi. Pensavamo di fare il funerale con il corpo ma l’abbiamo fatto senza. Però l’abbiamo fatto”.

Ma la Procura ritiene che Barbaro fosse un mafioso? “Io non so cosa pensa e cosa fa la ‘ndrangheta. Quello che è chiaro è che sono cittadino italiano e in quanto tale esigo che si compiano certi diritti. Io sono prete e, quindi, sono a disposizione della mia comunità cristiana, agli ordini del vescovo. Nessun può interferire su cosa faccio in chiesa. La ‘ndrangheta non è una questione mia. Sono venuto qui a fare il prete e non a cercare i mafiosi. La ‘ndrangheta è una questione dei giudici, dei carabinieri e degli avvocati. Che facciano il loro lavoro. Io faccio il mio. Qui ci sono almeno 600 o 700 persone di cognome Barbaro. Chi sono i criminali lo devono sapere i carabinieri. Io so che ci sono queste persone, li attendo quando vengono in chiesa, vado a visitarli. Io di mafia so solo quello che voi giornalisti scrivete. Per me un mafioso ha gli stessi diritti di una persona che non lo è”.

“Credo che la Chiesa debba con lo Stato (e quindi con le forze dell’ordine e con la magistratura) condividere un percorso di legalità senza contrapposizioni soprattutto quando il tema è la partecipazione di famiglie di ‘ndrangheta a manifestazioni pubbliche. Anche se queste, poi, si concretizzano in funerali organizzati da famiglie mafiose che rappresentano una manifestazione del potere della ‘ndrangheta”. Per il procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho non ci sono dubbi su come in certi territori la Chiesa sia sottomessa alle cosche: “Probabilmente – aggiunge a il fattoquotidiano.it – bisognerebbe che tutti ci muovessimo in un’unica direzione per avere un risultato più immediato anche nei confronti della ‘ndrangheta. San Luca e Platì sono comuni in cui la ‘ndrangheta ha un ruolo di signoria”.

Non lo dice espressamente, ma a questo punto il magistrato pone pure la questione dei contributi dati alle chiese: “La forza della ‘ndrangheta è quella che elargisce anche denaro. A volte non si guarda a chi dà il denaro o altre forme di contributo, ma si guarda soltanto a quello che si riceve. Se cominciassimo anche sotto questo profilo a selezionare i contributi, e tutto ciò che fa la mafia per apparire vicina alla religione e alla chiesa, probabilmente si comincerebbe a meditare sui comportamenti che sono stati tenuti. Quando chi rappresenta i valori e i principi della religione si oppone ai comportamenti di censura nei confronti della ‘ndrangheta, si crea una confusione enorme anche nella gente. Quella gente che è assoggettata al potere mafioso e che si accorge che nemmeno la Chiesa si oppone a chi fa del male”. “Il questore – conclude De Raho – doveva vietare i funerali in forma pubblica e questo avviene anche per evitare episodi come quello dei Casamonica. La popolazione è indirettamente e implicitamente costretta a partecipare ai funerali. Chi non partecipa finisce per rappresentare il proprio dissenso e questo nelle comunità piccole è gravissimo e non può avvenire. Così un rito religioso finisce per tradursi in una manifestazione di potere”.

Sul funerale del boss Giuseppe Barbaro, interviene anche il vescovo di Locri Francesco Oliva che racconta cosa è successo domenica quando si è precipitato a Platì per capire cosa stava facendo don Giuseppe: “Pensavo che il prete non avesse rispettato l’ordinanza del questore – ha spiegato a ilfattoquotidiano.it – Ero preoccupato e invece lui l’ha rispettata. Ho definito Giuseppe Barbaro un ‘padre di famiglia’ perché lo è: è sposato e ha quattro figli. Ma con questo non voglio giustificare i precedenti criminali. Che fuori dal cimitero si siano radunate delle persone, non dipende dal parroco. Chi deve fare rispettare l’ordinanza da questo punto di vista?”. E sulla messa in chiesa dopo la benedizione al cimitero? “Pregare per un defunto, – aggiunge il vescovo – chiunque esso sia, anche un delinquente, si fa sempre. Sono disposizioni dei vescovi calabresi. Si è sempre fatto così. Sono vietate le manifestazioni pubbliche, ma pregare per un defunto si può fare. Se non possiamo neanche pregare… a questo punto chiudiamo le chiese. Il parroco ha fatto quell’istanza al ministro Alfano senza consultarmi”. L’alto prelato prende le distanze dal ricorso di don Giuseppe Svanera. E nello stesso tempo lo difende: “L’unico divieto è che queste celebrazioni non avvengono in maniera solenne. Ma una messa sobria e senza la salma è una cosa ordinaria. La chiesa prega anche per il peccatore”.

‘Ndrangheta «Parco Sud»: cade in Cassazione il 416 bis per i Barbaro-Papalia

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Notizie dal fronte per i signorotti di Buccinasco:

«La pronuncia, a seguito dei ricorsi proposti dalle difese, era stata in parte (per il solo art. 416 bis, associazione mafiosa) annullata dalla Prima sezione penale della Corte di Cassazione, con rinvio ad altra Sezione della Corte d’Appello di Milano che in sede di rinvio ha completamente assolto Domenico Papalia, assolvendo anche Francesco Barbaro e Antonio Perre dal solo reato di cui all’art. 416 bis, confermando nel resto.

Avverso quest’ultima sentenza, è stato proposto ricorso per Cassazione sia dalla Procura Generale milanese, per le tre assoluzioni, sia dalle difese degli imputati che hanno riportato condanna per i residui reati di possesso e ricettazione di armi (Domenico, Rosario, Salvatore e Francesco Barbaro, rispettivamente a 6 anni e 6 mesi, 2 anni, 4 anni, e 4 anni e sei mesi di reclusione; Antonio Perre a 5 anni).

Con la pronuncia odierna, la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso del Procuratore generale, confermando le pronunce assolutoriedal reato di associazione mafiosaper Domenico Papalia, che risulta completamente scagionato (difeso dall’avvocato Francesco Lojacono), per Francesco Barbaro e Antonio Perre (difesi rispettivamente dagli avvocati Renato Russo e Amedeo Rizza), ed ha rigettato i ricorsi degli altri imputati, le cui condanne divengono definitive.»

(fonte)

A Platì dove abdica la politica

Platì, Calabria, Italia. Paese di ‘ndrangheta, qui comandano gli uomini del clan Barbaro nonostante molti di loro abbiano base nella lombardissima Buccinasco. A Platì le elezioni non si terranno: nessun candidato a sindaco. La politica abdica nei suoi territori più bui. Come si chiama: resa. Si dice resa. Ed è roba da omuncoli.

 La politica, a queste latitudini, non c’è. I partiti non esistono se non quando devono chiedere i voti per le regionali. La legge è quella della famiglia Barbaro e delle altre cosche mafiose. Il 27 marzo 1985 la ‘ndrangheta ha ucciso il sindaco Domenico Demaio. Da allora non è cambiato nulla. Le amministrazioni comunali vengono sciolte per mafia. Negli ultimi 12 anni per tre volte la prefettura ha inviato i commissari che gestiscono l’ordinario. Passano diciotto mesi e si ritorna a votare. Poco dopo, di nuovo la prefettura segnala che i boss condizionano l’attività dell’amministrazione comunale e chiedono lo scioglimento per infiltrazioni mafiose. Questa volta però è diverso. A fine maggio a Platì non si voterà. Non è stata presentata nessuna lista per le prossime elezioni comunali. La polemica riguarda il centrosinistra calabrese e, soprattutto, il Partito democratico di Renzi che, alle ultime regionali, è stato il più votato. La coalizione che ha sostenuto il governatore Mario Oliverio è arrivata al 77% dei voti mentre solo il Pd ha superato il 22%. Numeri che, in un Paese normale, avrebbero obbligato un partito a scendere in campo per dare un’alternativa a una cittadina dove i commissariamenti non hanno funzionato, una cittadina che non ha futuro se lasciata in mano a trafficanti di cocaina e famiglie mafiose.


(Fonte)

Le cosche e il re delle discoteche: insieme a Milano

E’ finito in carcere Silvano Scalmana, l’ex re delle discoteche milanesi considerato in rapporti con la cosca ‘ndranghetista dei Barbaro-Papalia. Secondo la Direzione distrettuale antimafia del capoluogo lombardo, l’imprenditore – già agli arresti domiciliari perché imputato di bancarotta fraudolenta – si è rivolto aimammasantissima per intimidire tre dipendenti chiamati a testimoniare nel processo a suo carico dove, oltre alla bancarotta fraudolenta, deve rispondere di emissione di fatture false e riciclaggio.

Mentre i personaggi a cui il gestore avrebbe chiesto aiuto per “raddrizzare” il suo processo sono già in carcere dopo l’operazione antimafia “Platino“, che l’8 gennaio scorso portò alla luce un sistema consolidato tra presunti boss e imprenditori della movida milanese e all’arresto di 10 persone. Secondo il procuratore aggiunto Ilda Boccassini e il pm Paolo Storari, che coordinarono l’operazione, le cosche fornivano una “protezione a tutto campo” a 17 locali locali del capoluogo lombardo – tra cui anche il De Sade gestito dalla società Acquario di Scalmana – attraverso una “sorta di estorsione-tangente”, dal cui pagamento gli imprenditori ricevevano “un cospicuo vantaggio economico”. E’ da quell’indagine, culminata con l’arresto di oggi, che spunta fuori la richiesta di Scalamana agli affiliati dei Barbaro-Papalia per “ammorbidire” i tre dipendenti chiamati a testimoniare sulla gestione dei suoi locali.

Il processo, che l’ex titolare di locali come il Karma e il Parco delle rose voleva far “aggiustare”, nel luglio 2012 è approdato in primo grado infliggendo a Scalmana i domiciliari. Secondo le indagini delle fiamme gialle milanesi, l’imprenditore insieme ad altre persone, tra cui l’avvocato aretino Stefano Angiolini (accusato negli anni ’80 di aver aiutato il venerabile maestro della P2 Licio Gelli), avrebbe ricevuto finanziamenti per quasi 30 milioni di euro grazie alla complicità di un dipendente Unicredit che, poco dopo, avrebbe fatto sparire.

Il provvedimento di custodia cautelare di oggi è stato notificato dai Carabinieri del Comando Provinciale di Milano, l’ex re della movida è stato accompagnato in carcere dai militari del Nucleo Investigativo. La misura è stata emessa dal gip di Milano che ha ritenuto l’imprenditore responsabile di intralcio alla giustizia e falsa testimonianza, in concorso con alcuni affiliati alla cosca Barbaro-Papalia.

(via)

Aspettando il grande capo Rocco Papalia

rocco-buccinasco-interna-nuovaViale del Buon Cammino, civico 19. Carcere di Cagliari. Le due del 23 aprile 2011. Un uomo ha appena varcato il portone d’ingresso. In strada respira il profumo dei pini marittimi. Il sole lo colpisce agli occhi. Abbassa lo sguardo. Lo rialza. Si stringe nella giacca. Poi gonfia il petto. Si sente libero come non lo era più stato dal 10 settembre 1992, quando iniziò la sua vita da carcerato. Diciannove anni dopo, il primo permesso e una sensazione che aveva imparato a dimenticare. Oggi la vita ricomincia, il sangue torna a scorrere, la mente a ingranare idee. Ancora, però, non è finita. Il rientro è fissato per le undici di sera. Meglio non pensarci. C’è la famiglia da riabbracciare, progetti da far ripartire.

Fino al blitz di questa mattina, quella data ha scavato come un tarlo nella testa dei carabinieri di Milano. Sì perché quel signore non alto, ma robusto, il volto indurito dagli anni di galera, lo sguardo che ghiaccia lo stomaco, non è uno qualsiasi, ma il boss dei boss, il padrino rispettato che assieme ai suoi due fratelli per oltre vent’anni ha giostrato gli affari della ‘ndrangheta all’ombra del Duomo. Questo, infatti, è Rocco Papalia nato a Platì il 24 ottobre 1950. Un supercapo che dal suo fortino diBuccinasco, comune dell’hinterland milanese, ha programmato sequestri e traffici di ogni genere. Erano gli anni Ottanta. All’alba dei Novanta, poi, lo Stato reagì. Centinaia di mafiosi finirono in carcere. Negli archivi giudiziari quel blitz fu classificato sotto il nome di Nord-sud. A dare la stura le parole del pentito Saverio Morabito, ascoltate e trascritte da un giudice coraggioso, Alberto Nobili, e da un sbirro eroico, Carmine Gallo. Il resto è una storia, quella che traghetta Milano verso il terzo millennio, fatta di dimenticanze politiche, smemoratezze istituzionali e voglia di cancellare l’assedio mosso all’epoca dalla mafia più potente del mondo.

Il brusco risveglio una mattina di luglio del 2008. Di nuovo la cosca Barbaro-Papalia, ancora l’incubo di un’ammissione che si può tradurre in un titolo: Milano provincia di ‘ndrangheta. L’operazione Cerberus fa saltare il tappo. In quattro anni la Procura mette a segno centinaia di arresti, narrando di una Lombardia che si è fatta mandamento mafioso con le sue regole e i suoi riti. Decine di informative raccontano di colletti bianchi e politici collusi. I giudici condannano senza sconti. Eppure tanta solerzia investigativa ha intaccato solo la superficie di una infiltrazione molto più profonda e devastante. Ecco perché questa storia non riguarda il passato, ma il presente e il futuro. Una storia sulla cosca Barbaro-Papalia, sui suoi nuovi assetti, sul suo tesoro (mai trovato), e sugli affari: dal traffico dei rifiuti agli appalti pubblici. Una storia che parte (o riparte) da Rocco Papalia e dai suoi fratelli (Antonio e Domenico), che, pur ergastolani, da anni ormai hanno abbandonato i rigori penitenziari del 41 bis. Ma anche da un gruppo di colonnelli, oggi tornati liberi, che negli anni Ottanta, stando alle parole di un pentito, componevano “il governo” della ‘ndrangheta a Corsico e Buccinasco.

Così, per capire quanto quel 23 aprile 2011 abbia tenuto gli investigatori inchiodati per oltre due anni sul territorio di Bucicnasco,  basta scorrere le oltre cento pagine di un’informativa del 17 giugno 2011. Nelle prime pagine dell’annotazione, che ha dato inizio all’indagine conclusa oggi, i militari, ricordando le ultime inchieste che hanno colpito la cosca Barbaro-Papalia (Cerberus nel 2008 eParco sud nel 2009), mettono nero su bianco un ragionamento che inquieta: “Non vi è alcun segnale che si sia verificato un vuoto di potere. Oggi, per di più, s’inizia a intravedere il giorno in cui Rocco Papalia potrà tornare a Milano e fruire dei permessi; il primo gli è stato concesso a Cagliari (…). Nel frattempo, sono tornati in libertà membri autorevoli dell’organizzazione (…) membri la cui fedeltà alla cosca e a Rocco Papalia, in particolare, è certificata nelle condanne passate in giudicato”. E ancora: “Le innumerevoli attività investigative che, dagli anni Ottanta a oggi, hanno riguardato la cosca insegnano che essa, nonostante gli arresti, le tante e pesantissime condanne, è caratterizzata da una solida continuità di comando. E da un rispetto assoluto delle gerarchie. E’ una cosca che, proprio in ragione di ciò, non ha mai subito né faide né scissioni”. Una data per capire: 1983. Scrive il brigadiere Giuseppe Furco della locale stazione di Platì: “In merito alla posizione di capo indiscusso, con ruolo di prestigio anche sugli altri capi non vi è dubbio, infatti, che Domenico Papalia, fratello di Antonio e Rocco, cugino dei Barbaro soprannominati I Nigri, è tenuto in ottima considerazione”. Ecco invece cosa annotano i carabinieri nel 2011: “Sono trascorsi quasi trent’anni da quando Giuseppe Furco scrisse quell’informativa (…) e gli equilibri, in seno alla cosca Barbaro-Papalia restano immutati”.

Corsico oggi. Un bar di via Salma. La storia riprende da qui e da una telefonata del 2011. “Sei al bar?”, chiede Agostino. “Sì”, risponde Michele. Il nastro delle intercettazioni registra. Il contenuto non è decisivo. Ai carabinieri serve per fissare nomi e luoghi della nuova pattuglia della cosca. Agostino, infatti, è Agostino Catanzariti nato a Platì nel 1947. Michele, invece, è Michele Grillo, anche lui platiota, anche lui classe ’47. Oltre all’anno di nascita, i due condividono l’appartenenza “al nucleo storico di ‘ndranghetisti che, alla fine degli Anni ’70, diede il via alla terribile stagione dei sequestri di persona in Lombardia“. Il 18 giugno 1987 Michele Grillo viene condannato a 18 anni per il sequestro di Tullia Kauten. Espiata la pena, oggi Grillo ufficialmente fa il camionista e vive a Casorate Primo, uno dei tanti comuni, a metà strada tra Buccinasco e Pavia, che rappresentano l’ultimo avamposto della ‘ndrangheta lombarda.

Di rapimenti è esperto anche Agostino Catanzariti. Secondo la ricostruzione dei carabinieri viene condannato per i sequestri di Angelo GalliAlberto Campari (1977)Giuseppe Scalari (1977),Evelina Cattaneo (1979). Il 24 maggio 1981 viene arrestato. In carcere ci resta fino al 2009. Quindi rientra a Corsico nella sua casa di via IV novembre dove finisce di scontare gli ultimi due anni ai domiciliari. Il 6 ottobre 1981, quando Catanzariti è in carcere da pochi mesi, la sua cella viene perquisita. Salta fuori un pizzino che i carabinieri riproducono integralmente nella loro informativa del 2011. “In quel pezzetto di carta – scrivono – si riesce a leggere: “Agostino Catanzariti capo, Rocco Papalia Supercapo”. Anche per questo: “Si ha motivo di ritenere che, nonostante la lunghissima carcerazione, egli sia tutt’ora personaggio autorevole”.

I luoghi in questa storia sono decisivi per cogliere affinità e rapporti. Ci sono i bar come quello di via Salma e come il Lyons di via dei Mille a Buccinasco, veri e propri “uffici dei Papalia”. Ma ci sono anche altri posti dove, secondo i carabinieri, la sola presenza è sinonimo di appartenenza. Uno di questi è il sagrato della parrocchia di San Silvestro. Qui il 30 aprile 2011 si celebra il funerale di un parente dei Papalia. I carabinieri ci sono, filmano, fotografano e scrivono: “È noto che nella ‘ndrangheta le cerimonie religiose (battesimi, matrimoni, funerali) sono occasioni sociali alle quali non è ammesso sottrarsi”. E in effetti l’album fotografico che ne viene fuori resta un documento importante per individuare i pretoriani della cosca. Agostino e Michele ci sono. Con loro i militari immortalano anche Natale Trimboli. Classe ’56, originario di Platì, Trimboli oggi vive a Zelo Surrigone. In passato è stato condannato a otto anni per armi e droga. Ufficialmente si occupa di movimento terra. Uno dei suoi figli assieme al pronipote di Catanzariti ha aperto un bar a Corsico in via Fratelli di Dio.

Alla cerimonia funebre, poi, compaiono altri due personaggi che fanno drizzare le orecchie ai militari. Quel giorno si vede Antonio Musitano detto Totò Brustia. Pure lui della truppa dei platioti di Buccinasco, Musitano fa 17 anni di carcere per l’operazione Nord-sud. Dal 2007 è libero. Di lui ha parlato a lungo il pentito Saverio Morabito: “Papalia si faceva coadiuvare da Antonio Musitano (…) Tra la fine dell’83 e dell’84 (…) Rocco Papalia si avvaleva della collaborazione di Musitano che si era rivelato un ragazzo sveglio”. Per molto tempo, racconta un investigatore, “è stato l’uomo di riferimento su Milano di Giuseppe Barbaro detto u’ Nigru”. Confermano i carabinieri nella loro informativa: “Antonio Musitano può essere considerato una delle figure apicali in seno alla cosca Papalia”. La riprova? “Il 27 maggio 2010, lo stesso Musitano accompagnò Rosa Sergi al carcere di Padova per un colloquio con il marito Antonio Papalia, fratello di Rocco”.

Funerali, ma non solo. I legami di sangue cementano il sodalizio. E come nella più rigorosa tradizione nobiliare, ci si sposa per elevare il lignaggio. Succede con Giuseppe Pangallo nato a Platì nel 1980. I compari lo chiamano Peppone. Oggi vive in provincia di Como assieme alla moglie Rosanna Papalia, figlia di Rocco. Dirà lei, intercettata durante l’inchiesta Marine della procura di Reggio Calabria. “Io stavo tanto bene con l’altro e mi hanno fatto sposare a te”. Definito “personaggio degno di attenzione”, nel 2005 viene condannato a 3 anni per droga, ma andrà assolto in Appello.

Questi sono i personaggi che vengono monitorati dai carabinieri di Milano. Eppure la storia non finisce qua. Negli ultimi anni, infatti, molti protagonisti dei maxi-processi degli anni Novanta sono tornati in libertà. Attualmente non risultano indagati e vivono da liberi cittadini nei comuni a sud di Buccinasco. Un lungo elenco dal quale spicca il nome di Paolo Sergi, boss di rango e cognato di Antonio Papalia. Al termine del processo Nord-sud incassò diversi ergastoli. Dal luglio 2011 vive in una villetta di Zibido San Giacomo con la possibilità di uscire solo poche ore al giorno. Suo fratello Francesco, invece, sconta l’ergastolo in carcere. Per tutti gli anni Ottanta ha gestito droga e sequestri ai tavolini del bar Trevi di via Bramante a Corsico. Il terzo fratello Sergi, Giuseppe detto Peppone, vive da libero cittadino e gestisce un esercizio commerciale a Corsico. Altro grande frequentatore dei bar-uffici della ‘ndrangheta è Antonio Parisi. Anche lui coinvolto nei maxi-blitz degli anni Novanta (condannato a 30 anni in primo grado), oggi vive a Buccinasco. Stesso destino per Diego Rechichi, ex luogotenente di Rocco Papalia, arrestato nell’aprile 2013 per traffico di droga. L’elenco è lungo. Ne fanno parte i fratelli Trimboli. Oltre a loro anche l’omonimo Domenico Tromboli, detto u Murruni, è tornato in libertà. In passato ha sposato una Papalia. Insomma, questa è la geografia. Un risiko fitto di protagonisti e comparse. Tutti in attesa del ritorno di Rocco Papalia, “il supercapo”.

(Un pezzo del solito Davide Milosa e dell’antimafia con nomi e cognomi come piace a noi da stampare e tenere in tasca)

La pericolosità delle droghe leggere

Francesco Perre, di 44 anni, affiliato alla cosca Barbaro della ’ndrangheta, condannato in via definitiva a 28 anni di reclusione, era latitante dal 1999 ed era inserito nell’elenco del Ministero dell’Interno dei ricercati più pericolosi. Perre è stato bloccato mentre innaffiava la coltivazione di canapa indiana composta da oltre duemila piante, tra Palizzi Superiore e Bova, nel cuore dell’Aspromonte.

Bollate, giovedì 14 ottobre: NO MANDALARI DAY. Fuori la mafia!

Un losco figuro si aggira per le campagne lombarde. Ha la lingua lunga (e intercettata) ed è il nuovo che avanza della ‘ndrangheta lombarda. I nuovi boss che si nascondono sotto il tappeto. Ad ascoltarli fanno tenerezza. Lontani anni luce dall’icona del boss tra cacchette di capra e ricotte che scriveva in codice sui pizzini stropicciati come Binnu Provenzano, oggi gli aspiranti boss lombardi sono un misto di prepotenti con la cazzuola ed esosi da periferia. Il guappo Vincenzo Mandalari al telefono nel febbraio del 2009 si incensa come fanno le sciantose sotto il portico della Scala: “C’è stato un momento, in cui ad Assago comandavo io! credimi! per mia negligenza, sempre per il fatto di essere abusivista, io ce l’ho nel sangue di essere abusivista!”. Poi, resosi presto conto che “i politicanti vedi che sono scemi” decide di scendere in campo. Aveva in mente di darsi da fare a Bollate per le elezioni comunali. Una strategia precisa: far cadere l’attuale amministrazione, prima, ed eleggere un sindaco amico, poi. “Adesso riusciamo a farla cadere, perché io mi sono intrufolato in politica»”dice in una conversazione del 13 febbraio 2009 Mandalari, e poi l’idea di fondare un partito “non è importante destra o sinistra a livello locale”. Un politico con le idee chiare, senza dubbio. Se è vero che Calderoli è diventato ministro non possiamo che ringraziare la Boccassini per avere frenato la rincorsa di Vincenzino verso la Presidenza del Consiglio. Ma la lingua lunga, nell’opera buffa della ‘ndrangheta milanese si paga: così oggi al Mandalari latitante per la sgarrupata periferia milanese forse converrebbe una residenza certa in carcere piuttosto che un bossolo lucido infilato nella schiena. Le malelingue dicono che stia facendo le primarie per decidere se costituirsi.Intanto, di sicuro, ha chiesto che vengano dissequestrati i suoi beni perché in questi tempi di crisi anche le latitanze costano.

Domani, giovedì 14 ottobre, dalle ore 18.30/19.00 nella piazza di fronte al Comune di Bollate (MI) proveremo tutti insieme a raccontare e fare chiarezza sulle vicende che qualcuno vorrebbe taciute con una manifestazione tra le gente: NO MANDALARI DAY.

Siamo scesi in piazza per condonati, prescritti e salvati. Domani scendiamo in piazza per sgretolare l’onore.

Chi è Vincenzo Mandalari? Ecco cosa scrive l’ordinanza di cattura:

MANDALARI Vincenzo è il capo della locale di Bollate. In apparenza è un incensurato imprenditore, impegnato nel settore edilizio e delle compravendite immobiliari. Nel contesto ‘ndranghetistico ha ereditato il ruolo dal padre Giuseppe, da lui indicato come uno dei fondatori della “Lombardia”. Unitamente al fratello Nunziato ed a numerosi altri soggetti fu denunciato per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. dai Carabinieri della Compagnia di Rho nell’ ambito di indagini che prendevano lo spunto dall’omicidio ALOISIO e da altro evento omicidiario, sempre commesso in Rho il 18.01.1991 in danno di STASI Giuseppe (vedasi comunicazione di notizia di reato dei CC Rho del 18.11.1991). Il suo nome era emerso in occasione delle indagini sul sequestro SGARELLA, poiché, come si è già evidenziato trattando della “ Lombardia”, già all’epoca gli orti di Novate Milanese erano luogo di ritrovo degli affiliati ed egli ha paretecipato al summit del 30 maggio 1998 (come l’esame dei nastri allora registrati ha mostrato). MANDALARI Vincenzo era presente presso la pensione “SCACCIAPENSIERI” di Nettuno il 30 aprile 1999 in occasione di quello che fu definito dagli investigatori un summit di ‘ ndrangheta. In tale occasione erano presenti oltre a NOVELLA Carmelo, all’epoca capo della lombardia, GALLACE Giuseppe, figlio di GALLACE Vincenzo, BARRANCA Cosimo, BARBARO Domenico detto “l’australiano”, attualmente detenuto per il reato di cui all’articolo 416 bis c.p., MOLLUSO Giosofatto, affiliato al locale di Corsico, MINASI Saverio, affiliato al locale di Bresso, RISPOLI Vincenzo, capo del locale di Legnano, MANDALARI Nunziato, affiliato del locale di Bollate, PANETTA Pietro Francesco, PANETTA Salvatore, LAVORATA Vincenzo e BELCASTRO Pierino, capo ed affiliati del locale di Cormano, dunque, un nutrito gruppo di affiliati della “lombardia”. MANDALARI Vincenzo, come si è detto, si intrattiene quotidianamente a bordo della propria autovettura con PANETTA Pietro Francesco, con il quale è legato dalla comune appartenenza alla ‘ndrangheta, ma anche da vincoli di amicizia. Le conversazioni tra i due sono state una inesauribile fonte di informazioni sulla regole di ‘ndrangheta, sulla struttura e sulla organizzazione delle cellule di base, le locali, e degli organi di rappresentanza, la Provincia. La figura di MANDALARI è quella di un navigato uomo di ‘ ndrangheta che esprime tutta la sua ammirazione ed il suo sostegno nei confronti di un soggetto carismatico quale era NOVELLA Carmelo (anch’egli originario di Guardavalle).