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Brusca torna libero perché lo dice la legge sui pentiti. E cambiarla sarebbe un regalo alla mafia

Sapete cosa sognava la mafia? Una revisione della legge sui pentiti. Era un chiodo fisso di Totò Riina, era una delle richieste che Cosa Nostra aveva intenzione di fare allo Stato, è il cruccio di molti boss che hanno dovuto fare i conti con le rivelazioni di collaboratori di giustizia in grado di aprire squarci fondamentali per le indagini e per le condanne.

Non serve nemmeno studiare troppo per sapere che la delegittimazione dei testimoni di giustizia sia il miglior favore che si passa rendere alla criminalità organizzata e basterebbe studiare la storia recente del nostro Paese per scorgere tra i politici poi condannati per reati di mafia un enorme dispendio di energie per mettere mano alla legge sui pentiti.

Che la scarcerazione di Brusca sarebbe stata il gancio perfetto per una sponda più o meno consapevole alle mafie si capiva fin dall’inizio: l’enorme squilibrio di attenzione sui reati commessi da un pentito mentre ci si ostina a giustificare criminali conclamati in tutti i gradi di giudizio ha lo stesso profumo di quell’Italia che puntava il dito sui picciotti mafiosi fingendo di non vedere i colletti bianchi.

È la solita prevedibile dinamica semplicemente un po’ più evoluta nei modi e nei toni: racconta al mondo che l’eliminazione di Falcone sia opera di Giovanni Brusca e intanto stendi un velo sui mandanti. Così è perfettamente funzionale un Salvini che si dice preoccupato che Brusca possa passeggiare libero per strada mentre nessuno gli chiede cosa ne pensi di un Paese in cui i mandanti possano essere addirittura classe dirigente del Paese.

Pochi intanto si prendono la briga di chiedere agli odiatori dei pentiti come possano contemporaneamente dichiararsi cultori di Falcone e Borsellino: furono proprio i due giudici a intuire per primi l’enorme ruolo dei pentiti. Venerare Falcone e volere i pentiti senza sconti in galera è una contraddizione cretina, strumentale, populista e ignorante. Decidetevi, mettetevi d’accordo. 

Anche perché il paradosso è dietro l’angolo: equiparare un pentito a un mafioso omertoso significa inevitabilmente indurre i criminali a non collaborare. Tutte le posizioni sono legittime ma almeno non bestemmiate la memoria di Falcone. Mentre i giornali si riempiono di notizie su una possibile riforma della legge sui pentiti i mafiosi brindano. Intanto sullo sfondo c’è la riforma sul carcere duro, il ponte di Messina, la liberalizzazione dei subappalti è una montagna di soldi che arrivano dall’Europa. Nemmeno Riina avrebbe potuto sognare un’epoca così.

L’articolo proviene da TPI.it qui

La Brusca indignazione

Tutta questa indignazione per il ritorno di Brusca in libertà è il regalo migliore per chi vorrebbe cancellare la legge sui pentiti? E basta ripassare la storia per capire chi avrebbe interesse a farlo…

Da più di 24 ore la politica si è scatenata sulla scarcerazione di Giovanni Brusca. Noto con il nome di ‘u verru (il porco) Giovanni Brusca è stato uno dei protagonisti della stagione del sangue guidata dai Corleonesi di Cosa Nostra. Fedelissimo di Totò Riina è stato arrestato nel 1996 e pochi anni dopo è diventato collaboratore di giustizia confessando di essere stato l’uomo che ha azionato il telecomando della bomba che a Capaci uccise il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e gli uomini di scorta. Fu l’uomo che ordinò il rapimento e l’uccisione di Giuseppe Di Matteo, il 12enne figlio di Santino che doveva subire una lezione per essere diventato collaboratore di giustizia: Giuseppe dopo una lunga prigionia fu strangolato e sciolto nell’acido. Secondo le fonti investigative Brusca sarebbe responsabile di almeno 200 omicidi. Lui stesso ha confessato di non ricordare nemmeno i nomi delle sue vittime.

I politici hanno cominciato compulsivamente dichiarazioni. Salvini dice: “Autore della strage di Capaci, assassino fra gli altri del piccolo Giuseppe Di Matteo, sciolto nell’acido perché figlio di un pentito. Dopo 25 anni di carcere, il boss mafioso Giovanni Brusca torna libero. Non è questa la ‘giustizia’ che gli italiani si meritano”. Virginia Raggi parla di “vergogna inaccettabile, un’ingiustizia per tutto il Paese. Sempre dalla parte delle vittime e di chi lotta e ha lottato contro la mafia”. Giorgia Meloni incalza: “È una notizia che lascia senza fiato e fa venire i brividi. L’idea che un personaggio del genere sia di nuovo in libertà è inaccettabile, è un affronto per le vittime, per i caduti contro la mafia e per tutti i servitori dello Stato che ogni giorno sono in prima linea contro la criminalità organizzata. Venticinque anni di carcere sono troppo pochi per quello che ha fatto. È una sconfitta per tutti, una vergogna per l’Italia intera”. Giuseppe Costanza, autista di Falcone, dice: “che Paese è il nostro? Chi si macchia di stragi del genere per me non deve più uscire dalla galera”. E così via.

Tutti indignati, certo, ma anche parecchio ignoranti. Sì, ignoranti perché che Brusca sarebbe uscito dal carcere si sapeva da tempo, basterebbe conoscere le leggi che non sono un particolare così irrilevante per chi vuole ergersi a eroe dell’antimafia e soprattutto perché sono le stesse leggi volute e sostenute da Falcone e Borsellino, i due giudici che svettano nei profili degli stessi indignati. L’ha spiegato con invidiabile equilibrio proprio la sorella di Falcone, Maria: “Umanamente è una notizia che mi addolora, ma questa è la legge, una legge che peraltro ha voluto mio fratello e quindi va rispettata. Mi auguro solo che magistratura e le forze dell’ordine vigilino con estrema attenzione in modo da scongiurare il pericolo che torni a delinquere, visto che stiamo parlando di un soggetto che ha avuto un percorso di collaborazione con la giustizia assai tortuoso. Ogni altro commento mi pare del tutto inopportuno”. Forse vale la pena leggere anche la dichiarazione di Pietro Grasso, stretto collaboratore di Falcone e Borsellino, che dice: “Con Brusca, infatti, lo Stato ha vinto non una ma tre volte. La prima quando lo ha arrestato, perché era e resta uno dei peggiori criminali della nostra storia per numero di reati e ferocia. La seconda quando lo ha convinto a collaborare: le sue dichiarazioni hanno reso possibili processi e condanne e hanno fatto emergere pezzi di verità fondamentali sugli anni in cui Cosa nostra ha attaccato frontalmente lo Stato. La terza ieri, quando ne ha disposto la liberazione dopo 25 anni di carcere, rispettando l’impegno preso con lui e mandando un segnale potentissimo a tutti i mafiosi che sono rinchiusi in cella e la libertà, se non collaborano, non la vedranno mai“.

Ora rimane un punto sostanziale per non alimentare un’indignazione populista: i politici, tutti, sanno bene che le leggi sui pentiti in Italia sono queste e fingere di non conoscerle per solleticare gli sfinteri non serve a nulla. Non sono d’accordo con queste leggi? Che ne propongano di altre. Non sono convinti del ravvedimento di Brusca? Usino tutti gli strumenti a disposizione per garantire tutti gli accertamenti del caso. Temono che l’ex boss possa non avere reciso i suoi legami con il passato? Usino tutti gli strumenti che hanno a disposizione per assicurare un serrato controllo. Però almeno un po’ di serietà e di consapevolezza giuridica, almeno quella.

Rimangono anche due riflessioni. Brusca ha raccontato della morte di Falcone ma noi oggi non abbiamo ancora tutta la verità sulla morte di Falcone. Ma soprattutto: vi rendete conto, vero, che tutta questa indignazione è il regalo migliore per chi vorrebbe cancellare la legge sui pentiti? E basta ripassare la storia per capire chi avrebbe interesse a farlo.

Buon mercoledì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Le carceri diventano un vero e proprio inferno: detenuti contagiati e infreddoliti

La seconda ondata del virus si abbatte violenta sulle carceri e rende ancora più difficile la vita della popolazione carceraria registrando il cronico sovraffollamento oltre i limiti di guardia, un pesante aumento di positivi al Covid rispetto alla prima ondata e nuove misure coercitive ancora più stringenti in nome della sicurezza sanitaria mentre scompaiono del tutto le occasioni di socializzazione e vengono a mancare i servizi sanitari che da sempre sono affidati ai volontari, diminuiti drasticamente in questi mesi.

È il quadro drammatico che emerge da un documento elaborato dagli operatori dell’area Carcere della Caritas Ambrosiana sulla situazione degli istituti penitenziari di San Vittore, di Bollate e di Opera in Lombardia.

Secondo fonti della Caritas nei tre istituti sarebbero almeno 260 i positivi tra detenuti e lavoratori con una percentuale del 7,7% della popolazione carceraria. Numeri molto più alti di quelli della prima ondata e che solo in parte può essere spiegata con i trasferimenti delle persone contagiate dagli altri istituti della regione nei due Covid Hub allestiti nel frattempo a Bollate e San Vittore. Il tutto, ovviamente, a fronte di un sovraffollamento che conta 3.400 detenuti presenti con una capienza teorica di 2.923 posti. Nonostante la popolazione carcerari sia diminuita dell’8% rispetto a quella registrata l’inizio dell’anno la riorganizzazione degli spazi legata alla necessità di predisporre reparti sanitari per gli ammalati e per l’isolamento dei detenuti positivi al Covid-19 ha costretto molti reclusi a essere trasferiti in altri reparti e a condividere le proprie celle con più persone rispetto alla loro situazione precedente, soffiando su una tensione ormai sedimentata da mesi.

Ma la condizione di sovraffollamento è resa ancora più intollerabile dalla chiusura dei reparti, dei piani e in diversi casi anche delle celle. Nel suo documento la Caritas denuncia che soprattutto nel carcere di San Vittore c’è stata una significativa rinuncia all’applicazione della sorveglianza dinamica che prevedeva nei reparti di media e di bassa sicurezza che le celle restassero aperte almeno negli orari diurni migliorando sensibilmente la vivibilità degli istituti. Le occasioni di socialità hanno subito una brusca frenata anche a causa della chiusura di gran parte delle attività lavorative, delle attività culturali e ricreative e delle occasioni di sostegno psicologico e sociale che nei tre penitenziari erano garantite dalla presenza di operatori esterni all’amministrazione penitenziaria e di volontari. «Le attività scolastiche sono ferme e non è, a oggi, stata attivata alcuna forma di didattica a distanza, le attività trattamentali sono ridotte al lumicino», scrive la Caritas nel suo rapporto.

È un girone infernale: la mancata presenza di volontari ha influito pesantemente anche sulla distribuzione di indumenti e di prodotto per l’igiene personale (che l’amministrazione penitenziaria non riesce a garantire nemmeno nella misura prevista dalla legge). A farne le spese ovviamente sono i detenuti più indigenti e più fragili. A San Vittore ci sono detenuti che non hanno nemmeno abiti adatti per proteggersi dal freddo invernale. Persino l’accesso degli avvocati è fortemente limitato e l’impossibilità di svolgere i colloqui con i propri famigliari è resa ancora più intollerabile dalla limitazione (e in alcuni casi addirittura la sospensione) di poter ricevere i pacchi con indumenti, prodotti alimentari e altri beni. «Nonostante siano chiare – scrive la Caritas Ambrosiana – le esigenze sanitarie che, in carcere come fuori, suggeriscono di limitare le occasioni di contatto interpersonale, quel che più preoccupa è il protrarsi della durata di questo regime d’eccezione, con il blocco proprio di quelle attività che più di tutte assolvevano alla funzione rieducativa della pena stabilita dalla Costituzione e che dunque sono indispensabili per un corretto funzionamento del sistema penitenziario». Si attende che il ministro batta un colpo.

L’articolo Le carceri diventano un vero e proprio inferno: detenuti contagiati e infreddoliti proviene da Il Riformista.

Fonte

Fratoianni a TPI: “Una patrimoniale per combattere le disuguaglianze. Altro che mazzata, così il ceto medio risparmia”

In un emendamento alla Legge di Bilancio firmato da deputati di Leu e del Pd si chiede l’abolizione dell’Imu e dell’imposta di bollo sui conti correnti e di deposito titoli, per sostituirle con un’aliquota progressiva minima dello 0,2% “sui grandi patrimoni la cui base imponibile è costituita da una ricchezza netta superiore a 500 mila euro”. I primi firmatari sono Nicola Fratoianni, che fa parte della componente di Sinistra Italiana in Leu, e Matteo Orfini, della minoranza Pd. Le opposizioni insorgono ma anche nella maggioranza in molti storcono il naso. Per TPI abbiamo intervistato Nicola Fratoianni.

Onorevole Fratoianni, sulla cosiddetta “patrimoniale” si sono sollevate subito le reazioni. Se le aspettava?
“Reazioni peraltro un po’ scontate. Come ha osservato più di qualcuno ‘patrimoniale’ è parola impronunciabile nella scena politica italiana. Tutto contro ogni ragionevolezza e perfino contro le idee di molti supermiliardari: Forbes nel luglio di quest’anno ha pubblicato la lettera di 83 miliardari che chiedono ai loro Paesi di introdurre tassazioni stabili e significative sulle loro grandi ricchezze. Tutto sulla base di un argomento molto chiaro e molto semplice: noi non possiamo fare chissà cosa ma abbiamo molti soldi e quei soldi possono risolvere molti problemi, non solo le emergenze drammatiche di questa fase della pandemia ma anche le crescenti disuguaglianze che costituiscono un problema non solo per chi le subisce ma anche per chi ha grandi ricchezze”.

Qualcuno dice che fissare un limite di 500mila euro è un azzardo. “Basta avere ereditato una casa in una grande città”, si legge in giro. Come risponde?
“Non è così. Non ne faccio colpa ai cittadini che non conoscono la norma. Primo: riguardo la questione immobiliare che viene usata contro questa norma occorre non confondere il valore commerciale con il valore catastale dell’abitazione. La nostra proposta, come tutte quelle che intervengono sulle questioni patrimoniali, si riferisce al valore catastale, quindi a chi dice che in alcune città il valore al metro quadro supera i 3mila euro basta rispondere spiegando questo punto. Se qualcuno ha una casa con un valore catastale superiore ai 500mila euro è difficile che abbia particolari difficoltà. In ogni caso le nostra proposte sono progressive, partendo dallo 0,2% da 500mila a 1 milione di euro e poi via via crescendo fino ad arrivare al 3% per patrimoni superiori al miliardo di euro. E poi ci si riferisce a persone fisiche, per cui se marito e moglie sono comproprietari di una casa quel valore si divide”.

E il secondo punto?
“Secondo: oltre a introdurre aliquote progressive, facciamo l’operazione di riordino di quella giungla di micro interventi patrimoniali, come l’Imu anche sulla seconda casa e la famosa imposta Monti (lo 0,2% sui depositi finanziari e sui titoli che non era progressivo). Quindi il ceto medio – ammesso che esista ancora – potrebbe perfino risparmiare”.

L’hanno stupita le reazioni all’interno del Partito Democratico, Zingaretti incluso?
“Sono molto contento che diversi parlamentari del PD abbiano appoggiato questa proposta, ma non mi stupisce la reazione complessiva del PD come quella del Movimento 5 Stelle. Questo è un momento in cui c’è una subalternità culturale sul tema delle tasse e dei patrimoni e sulla disuguale distribuzione della ricchezza. Il mantra ripetuto in ogni occasione è che le tasse sono troppe e vanno abbassate ma le tasse non sono troppe in sé: sono troppe su chi le paga e sono poche sulle grandissime ricchezze. Sono distribuite in modo diseguale. Faccio osservare che nei decenni la tassazione sui redditi ha conosciuto una brusca contrazione delle aliquote diminuendo la progressività. Questo significa favorire i redditi altissimi e penalizzare quelli più bassi. Bisogna proteggere i piccoli patrimoni e chi ha acquistato una casa dopo anni di lavoro o chi ha ereditato una casa (non certo a Roma o a Milano) che ha uno scarso valore commerciale e pesa sullo stipendio. Bisogna uscire da questa stagione di subalternità culturale: se uno usa sempre le parole dell’avversario è difficile poi sconfiggere il suo racconto pubblico”.

Nel pieno della pandemia è un buon momento per affrontare questo tema?
“Il momento buono è da molto tempo, oggi ancora di più. La pandemia ha messo in risalto la fragilità di un sistema di organizzare il lavoro, le vite, l’economia e del nostro welfare. Ha disvelato l’imbroglio del primato della privatizzazione nella tutela della salute. E la pandemia, come ogni grande crisi, ha evidenziato l’aumento della disuguaglianza: c’è chi ha visto crescere ancora e significativamente i propri patrimoni e chi si è trovato in difficoltà. Quindi questo è il momento della discontinuità nelle scelte e nel linguaggio per immaginare un mondo diverso da quello a cui siamo abituati, che spesso ci è stato presentato come l’unico mondo possibile”.

Sui giornali e sulle televisione la proposta è diventata “la proposta di Orfini”…
“Va benissimo così. Sono il primo firmatario ma non ho problemi di primogenitura, mi interessa aprire una discussione”.

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