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carmelo novella

Porti chiusi. Per ‘ndrangheta

«Una delle vicende più assurde e paradossali della storia calabrese», dice un imprenditore che ha denunciato le pressioni subite dalla ‘ndrangheta per i lavori al porto di Badolato, in provincia di Catanzaro

Badolato è un gioiello calabrese appoggiato sulla costa jonica. Un comune in provincia di Catanzaro che negli anni 90 si è salvato dal declino dello spopolamento grazie ai molti turisti che lì hanno comprato dei vecchi edifici che sono stati messi in vendita e sono stati rimessi a nuovo. A Badolato da più di vent’anni si parla del nuovo porto come fiore all’occhiello di una rinascita calabrese che passi attraverso nuovi servizi e nuove infrastrutture. La storia potrebbe sembrare un piccola storia locale ed è invece il paradigma attraverso cui leggere un argomento che di questi tempi sembra sia passato completamente di moda: le mafie.

Il clan Gallace-Gallelli spadroneggia. Un’inchiesta passata, la Itaca Free-Boat, aveva evidenziato gli interessi di uomini di ‘ndrangheta per il porto. Bene, seguitemi: Carlo Stabellini è l’amministratore della Salteg che si occupa dei lavori di costruzione. Stabellini ha denunciato le pressioni subite dalla ‘ndrangheta e le sue dichiarazioni hanno permesso di fare luce su un sistema di oppressione mafiosa.

Il sindaco di Badolato è Gerardo Mannello, in carica dal 2016. Pochi giorni dopo la sua elezione è stato accusato di estorsione aggravata dal metodo mafioso in concorso proprio con gli uomini del clan Gallelli e proprio ai danni della Salteg, di Stabellini e dei suoi soci dell’epoca. E per quelle vicende è adesso sotto processo. Scrivono i magistrati che Mannello con altri, tra cui il boss mafioso della zona, si sarebbe adoperato negli anni dal 2001 al 2004 “per garantire la tranquillità nell’esecuzione dei lavori”, costringendo la Salteg ad una serie di assunzioni e ad affidare lavori in subappalto “per sbancamento, movimentazione terra, realizzazione della diga foranea alle ditte riconducibili a Vincenzo Gallelli “Macineju” e formalmente intestate ai generi Andrea Santillo e Luciano Antonio Papaleo, a quella del nipote Pietro Gallelli e a quella del suo storico referente Angelo Domenico Papaleo”. Il tutto con un’ estorsione anche di 100mila euro per il clan Guardavalle al tempo guidato da Vincenzo Gallace e Carmelo Novella.

Arriviamo ad oggi: il sindaco in carica Mannello (che non è decaduto) ha dichiarato cessata la concessione alla ditta Salteg (la stessa che è accusato di avere minacciato) per “gravi inadempienze contrattuali”. E fa niente che il tribunale scriva che il “persistente tentativo della ‘ndrangheta di condizionamento e infiltrazione nella gestione dell’attività portuale deducendone ulteriormente, che, a causa delle vertenze penali, il porto di Badolato è rimasto sequestrato dal 4 agosto 2004 al 6 maggio 2006 e dal 19 gennaio 2015 al 23 ottobre 2017 e che, pertanto la società non ha avuto la possibilità di completare i lavori ad essa demandati”.

“La burocrazia badolatese, con a capo il Sindaco Mannello – scrive in un’accorata lettera aperta Stabellini – ha ottenuto, volente o nolente, quello che i vari Saraco, Antonio Ranieri, Gallelli, Ammiragli, condannati nel procedimento penale “Itaca-Free Boat” per reati aggravati dal metodo mafioso, non erano riusciti a fare con le loro macchinazioni. Vedremo se il Consiglio di Stato, cui la Salteg ricorrerà, tra un anno saprà mettere fine ad una delle vicende più assurde e paradossali della storia calabrese”.

Dalla patria delle contraddizioni per ora è tutto.

Buon giovedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

‘Ndrangheta padana: condannato l’ultimo mandante dell’omicidio Novella

LEUZZI-COSIMO-GIUSEPPE-54Voleva dividere la ‘ndrangheta, sognava per sé il ruolo di capo indiscusso della Lombardia. Non fece in tempo, due killer lo giustiziarono mentre sorseggiava cappuccino bianco ai tavolini di una bar a San Vittore Olona. Era il tardo pomeriggio del 14 luglio 2008. Carmelo Novella, il boss secessionista, ebbe solo il tempo di fissare le armi che da lì a pochi secondi lo avrebbero ucciso. Sette anni e sei mesi dopo, il Ros di Milano chiude il cerchio attorno a uno dei più eclatanti omicidi di mafia nel nord Italia. Questa mattina, infatti, il giudice per le indagini preliminari Andrea Ghinetti ha firmato un’ordinanza di custodia in carcere per il capo della locale di Stignano Cosimo Giuseppe Leuzzi, ritenuto il terzo e ultimo mandante dell’esecuzione, incastrato dalle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia.

Si tratta del nono provvedimento cautelare dal 5 luglio 2010 quando tra Calabria e Lombardia scattò il maxi-blitz Crimine-Infinito. Nella rete, allora, finì anche Antonino Belnome, padrino di Seregno, il quale la sera del Natale 2010 decise di collaborare con la giustizia. Da quel momento il boss della ‘ndrangheta, con natali tutti lombardi, ha riempito migliaia di pagine di verbali. Belnome parla anche dell’omicidio Novella. E lo fa a ragion veduta visto che lui è uno dei due killer. Svela che a decretare la morte del boss furono i capi della ‘ndrangheta tra Guardavalle e Monasterace, Vincenzo Gullace e Andrea Ruga. L’altro killer si chiama Micheal Panajia, anche lui affiliato alla locale di Seregno, anche lui collaboratore di giustizia. Ed è grazie alla sua testimonianza che l’antimafia milanese è riuscita ad accendere la luce sul terzo mandante dell’omicidio. Recita il capo d’imputazione: “Cosimo Leuzzi, capo della locale di Stignano alleata con le locali di Monasterace e Guardavalle agiva in qualità di mandante (…) deliberando l’omicidio di Carmelo Novella e incaricando Panajia e Belnome della esecuzione”.

All’inizio del 2012 Panajia, del quale le forze dell’ordine conoscono ben poco, decide di collaborare. Parla molto, ma non dice tutto. In particolare non approfondisce la figura di Leuzzi, al quale è molto legato. La decisione arriva nell’estate dello stesso anno, quando, scrive il gip, “Panajia ha finalmente vinto ogni resistenza e ha raccontato l’origine e l’evolversi del proprio rapporto con Cosimo Leuzzi, personaggio carismatico che, specie dopo gli omicidi Novella e Ierinò, ebbe a occupare nella vita di Panajia il ruolo di maestro“. Prosegue il giudice: “Panajia ha detto di avere conosciuto Cosimo Leuzzi nel 2007 e che lo stesso gli venne presentato da Cosimo Spatari con il quale egli aveva stretto una forte amicizia tanto da avere con questi il sangianni, avendolo designato come padrino di battesimo della figlia”.

Il collaboratore di giustizia, poi, spiega la genesi dell’omicidio. Dice Panajia: “A dicembre di quell’anno (2007,ndr), quando io ho battezzato mia figlia (…) invitai Leuzzi” che “mi chiamò una sera, mi fece convocare da Cosimo Spatari (…) c’era anche Andrea Ruga”. Quelli di Panajia sono ricordi nitidi: “Eravamo nel salotto a casa di Leuzzi. Ci siamo salutati, abbiamo bevuto qualcosa e poi siamo usciti fuori da casa e siamo andati dietro che lui ha una specie di box, non abbiamo parlato in casa, e mi disse Leuzzi: senti, vedi che a Milano c’è un lavoro da fare, te la senti di darci una mano?Ci dai lo disponibilità?”. Panajia risponde affermativamente. Con Belnome parteciperà all’omicidio di Carmelo Novella.

Il giorno dopo l’esecuzione, il killer si trova in un locale di Guardavalle, il Molo 13. “Sono entrato e al bancone del bar c’era Domenico Tedesco, l ‘ho salutato, mi ha offerto un caffè. (…) Mi venne incontro Antonio Belnome, ci salutammo. Disse: entra dentro che ti stanno aspettando. A un tavolo c’era seduto Cosimo Leuzzi, Andrea Ruga e questa persona che mi dovevano presentare che era Vicenzo Gallace, era la prima volta che lo vedevo (…) Ci salutammo e mi disse: ti ringrazio di cuore per la cosa di Milano”. Quindi Leuzzi consegna a Panajia una mazzetta da tremila euro invitandolo nella sua villa per una cena.

Le parole di Micheal Panjia, secondo il giudice, completano quelle dello stesso Belnome, il quale, davanti al pubblico ministero Alessandra Dolci, aveva già parlato del ruolo di Leuzzi. Riassume il giudice: “Belnome ha più volte parlato dell’alleanza esistente tra Vincenzo Gallace, Andrea Ruga e costui, dicendo che i medesimi erano i tre uomini più potenti della costa ionica (” .. sono oggi i numeri uno e sono tutti e tre insieme”) e precisando che ogni decisione che riguardi Guardavalle, Monasterace e Stignano veniva presa congiuntamente da Leuzzi, Gallace e Ruga”.

Lo stesso Belnome ha ricordi ben precisi sul giorno successivo all’esecuzione. Ecco, allora, cosa racconta ai magistrati di Milano. “Le spiego – dice l’ex boss – perché dopo che arrivò Panajia andammo a casa di Vincenzo Gallace che ci fece trovare una tavola nella sua taverna piena di pasticcini e bottiglie di champagne, eravamo io, Panajia, il genero di Gallace, Franco Aloi, Leuzzi, si discusse delle dinamiche e si accennò all’omicidio”.

Per le parole di Blenome, la posizione di Leuzzi viene stralciata e nel febbraio 2012 lo stesso giudice Ghinetti chiede l’archiviazione. Il fascicolo è stato riaperto, quando a maggio dello stesso anno Panajia svela i suoi rapporti con il boss di Stignano, il quale, attualmente si trova in carcere dopo che la corte d’Appello di Reggio Calabria nel febbraio 2014 gli ha confermato otto anni di carcere per l’inchiesta Crimine-Infinito. Oggi per Leuzzi, il giudice di Milano ha firmato un’ennesima ordinanza in carcere sottolineando come “il pericolo di reiterazione del reato è quanto mai attuale e concreto ove si consideri che dall’omicidio Novella è scaturita una vera e propria faida tuttora in corso”.

(clic)

Il boss della Lombardia è un aiuto gommista

MANETTEAbita a Buccinasco in via Lecco e lavora dal gommista in via Idiomi affidato dal tribunale ai servizi sociali e quindi con metà stipendio pagato con soldi pubblici, per dire. Non è indagato (per ora) ma Rocco Barbaro è l’uomo da cui partire per leggere la nuova geografia della ‘ndrangheta in Lombardia. Dopo Carmelo Novella (ucciso nel 2008 in un bar di San Vittore Olona) e successivamente Vincenzo Zappia (coinvolto nell’inchiesta Infinito) oggi Rocco Barbaro detto u Sparitu nato a Platì il 30 giugno 1965 potrebbe essere il nuovo reggente lombardo. Rocco ha un curriculum criminale di tutto rispetto: latitante per anni (arrestato poi nel 2003 per traffico di droga) è uscito 2 anni fa dal carcere di Piacenza per tornare nella “sua” Buccinasco e assumere i gradi del capo per eredità famigliare: Rocco Barbaro, infatti, è il figlio di Francesco Barbaro Ciccio u Castanu, classe 1927, uno dei personaggi più in vista delle ‘ndirne da Platì, città  in cui è tornato il 5 febbraio dell’anno scorso con obbligo di soggiorno . Il fratello di Rocco invece, Giuseppe Barbaro è uno degli autori del primo sequestro di persona a Milano  (Giuseppe Ferrarini, il 9 luglio 1975) ed è da sempre vicino a Domenico Papalia (il fratello del potente Rocco). Ad ascoltare le parole intercettate ad Agostino Catanzariti con il compare Michele Grillo (entrambi arrestati nei giorni scorsi nell’operazione “Platino”) sembra che Rocco Barbaro abbia ottenuto le stigmate del reggente lombardo più per nobiltà parentali che una vera e propria decisione comune (“Lui è capo di tutti i capi (…) di quelli che fanno parte di queste parti” dice Cataranziti) anche se lo stesso Grillo, e sicuramente non solo lui, sembra non accettare nomine per eredità (“Capo mio non lo è! Non esiste, per me è un semplice picciotto”).

In Lombardia la ‘ndrangheta si riorganizza affidandosi al sangue e alla tradizione (come storicamente ha sempre fatto dopo gli arresti) e la geografia comincia ad assestarsi e noi non possiamo che seguirla con attenzione anche perché insieme a quelli che ci dicono che la mafia non esiste cominciano a spuntare i cretini che ci vorrebbero raccontare la ‘ndrangheta lombarda è stata decapitata.

Chi ha ammazzato Carmelo Novella

omicidio_crxSono 15 gli ergastoli e due le condanne emessi dai giudici della Corte d’assise di Milano nell’ambito del processo sulla ‘ndrangheta in Lombardia riguardante l’omicidio, fra gli altri, di Carmelo Novella. I giudici hanno inflitto 15 ergastoli (16 le richieste del pm Cecilia Vassena, della Direzione distrettuale antimafia) e condannato a 24 anni di carcere Antonio Tedesco e a 23 anni Michael Panaja (16 anni la richiesta dell’accusa). Inoltre hanno stabilito la confisca di quanto sequestrato preventivamente e ha condannato inoltre al risarcimento delle parti civili.

Il Comune di Giussano e quello di Seregno riceveranno ciascuno 100mila euro. Le motivazioni della sentenza saranno depositate entro 90 giorni. Gli omicidi, contestati a vario titolo agli imputati, sarebbero da ricondurre a contrasti interni tra le cosche Gallace e Novella. Oltre all’omicidio di Novella, gli imputati sono stati ritenuti responsabili, a vario titolo dell’omicidio di Rocco Stagno e Antonio Tedesco.

L’inchiesta era stata coordinata dal pm milanese Cecilia Vassena assieme al procuratore aggiunto Ilda Boccassini. Panajia era stato a capo di una delle cosche della ‘ndrangheta radicate attorno al capoluogo lombardo, quella di Giussano-Seregno, e ha poi riempito centinaia di pagine di verbali come collaboratore di giustizia. Altro pentito che ha dato input all’inchiesta è Antonino Belnome, che venne arrestato nel luglio 2010 nell’ambito della maxi-inchiesta ‘Infinito’ contro le infiltrazioni della mafia calabrese in Lombardia. Per gli altri 15 imputati, invece, tra cui Vincenzo Gallace, Luigi Tarantino e Cristian Silvagna sono arrivati gli ergastoli.

Carmelo Novella, il presunto ‘capo dei capi’ in Lombardia, venne ucciso il 14 luglio del 2008, freddato a colpi di pistola all’interno di un bar a San Vittore Olona (Milano), perché voleva rendere autonoma la ‘ndrangheta lombarda dalla casa madre calabrese. Rocco Stagno, invece, secondo quanto ricostruito nelle indagini, venne ammazzato il 29 marzo 2009 a Bernate Ticino (Milano) dentro una cava, mentre Antonio Tedesco, detto ‘l’Americano’, venne ucciso il 27 aprile 2009 a Bregnano (Como).

(via Repubblica)

‘Ndrangheta in Lombardia: operazione “Ulisse”. Facciamo il punto.

L’omertà

Il dato sconfortante che emerge dallo sviluppo delle inchieste Infinito e Crimine, e che ha portato oggi all’esecuzione di 37 ordinanze di custodia cautelare volte a smantellare le cosche di ‘ndrangheta radicate tra Milano e Monza, è sempre lo stesso: l’omertà degli imprenditori vittime di estorsione e usura. Piuttosto a dare un contributo fondamentale alle indagini, da quanto trapela da ambienti investigativi, è arrivato da un nuovo pentito. Si tratta di Michael Panaija, 37enne arrestato l’11 aprile 2011 perché ritenuto uno dei responsabili dell’omicidio di Carmelo Novella, il capo della “Provincia” lombarda (l’organismo che riuniva tutte le locali di ‘ndrangheta in Lombardia) ucciso il 14 luglio 2008 a San Vittore Olona perché voleva la scissione dalle cosche calabresi. A farne il nome come uno dei presunti esecutori era stato il collaboratore di giustizia Antonino Belnome. Era stato lui a snocciolare il suo e i nomi di altre 18 persone arrestate nel 2011 perché avrebbero avuto un ruolo – come mandanti, come esecutori, come fiancheggiatori, o come basisti – nell’omicidio Novella e in altri tre omicidi commessi nell’ambito delle guerre interne alla ‘ndrangheta per il predominio sul territorio e come ritorsione per i fatti di sangue. Si tratta dell’omicidio di Rocco Cristello, avvenuto il 27 marzo 2008 a Verano Brianza; di quello di Antonio Tedesco, ucciso il 27 aprile 2009 a Bregano, il cui corpo è stato trovato mummificato sotto due metri di calce e terra in un maneggio (è stato riconosciuto da una catena d’oro) ; e di quello di Rocco Stagno, fratello del più potente Antonio Stagno, avvenuto il 29 marzo 2010 in un cascinale a Bernate Ticino, il cui cadavere invece non è ancora stato trovato. Ora Panaija risulta aver svelato dettagli sulla reazione delle cosche lombarde dopo il maxi blitz che a Milano, nel luglio 2010, aveva portato all’arresto di oltre 170 persone, 110 delle quali già condannate con rito abbreviato. Le cosche di Giussano e Seregno avrebbero proseguito sia i traffici di droga, sia le estorsioni e lo strozzinaggio di piccoli imprenditori locali, soprattutto di origine calabrese. Oggi in manette sono finiti Ulisse Panetta, il presunto boss proprio della locale di Giussano, e alcuni appartenenti alle famiglie Cristello e Corigliano. L’inchiesta è coordinata dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini e dai pm Alessandra Dolci e Cecilia Vassena. Le ordinanze sono firmate dal gip Andrea Ghinetti.

Le estorsioni e i nomi

Le accuse per i 37 indagati arrestati stamani dai carabinieri del Ros a Milano e provincia sono di associazione mafiosa, porto e detenzione illegale di armi (Kalashnikov, mitragliette Uzi, bombe a mano), usura ed estorsione, aggravati dalle finalita’ mafiose. I provvedimenti di custodia cautelare scaturiscono da diversi filoni investigativi avviati dal Ros a seguito dell’indagine ‘Crimine’ che ha portato nell’aprile 2011 all’arresto di 11 affiliati alle ‘ndrine di Seregno e Giussano. Tra questi c’erano anche gli autori dell’omicidio di Rocco Cristello, Carmelo Novella, Antonio Tedesco e Rocco Stagno, tutti commessi in Lombardia tra il 2008 e il 2010 nell’ambito delle faide tra le cosche Gallace e Novella di Guardavalle (Catanzaro). Le indagini hanno svelato le attivita’ delle cosche al Nord: traffico di droga, usura ed estorsioni. Numerosi gli episodi di questo tipo raccolti dai militari. A partire dal 2007, quando le vittime dell’estorsione furono i titolari della concessionaria di auto ‘Selagip 2000′ di Giussano, a cui venne chiesto il pagamento di 500mila euro dopo minacce, telefonate minatorie, attentati incendiari, e l’esplosione di colpi di pistola contro le vetrine. E’ del 2010, invece, quella nei confronti di Domenicantonio Fratea, imprenditore nel settore immobiliare e titolare di una bar a Giussano. A lui vennero chiesti 80mila euro con la medesima modalita’ intimidatoria. La lista prosegue con Roberto Gioffre’, titolare di una sala giochi che alla fine del 2010 fu costretto a rinunciare a un credito di 70mila euro, che vantava nei confronti di alcuni affiliati, dopo numerose minacce. Infine, Stefano Sironi, imprenditore edile di Giussano, costretto a riconoscere interessi esorbitanti sulle somme prestate dalla cosca.

Il ruolo di Ulisse Panetta a Giussano

Dall’agosto 2010, in seguito al maxi blitz delle operazioni Infinito e Crimine che il mese prima avevano portato all’arresto di circa 300 persone in Lombardia e in Calabria, è Ulisse Panetta ad assumere il comando dell’associazione mafiosa facente capo alla locale di Giussano in qualità di vice di Michael Panaija, arrestato l’11 aprile 2011. Lo scrive il gip Andrea Ghinetti nell’ordinanza di arresto che oggi ha colpito lo stesso Panetta e altre 36 persone. Dall’agosto 2010, si riassume nel capo di imputazione, Panetta fa carriera. Già “in possesso della dote del vangelo, dapprima ‘contabile’ e ‘mastro di giornata’, quindi, dopo l’arresto di Belnome, ‘capo società’, diventa il “capo e organizzatore” della locale di Giussano. Di conseguenza, “sovrintende alla gestione dell’armamento in dotazione della locale, comprensivo di armi corte, lunghe, esplosivo e munizionamento, parte del quale è stato a lui sequestrato nel febbraio 2012, alla scelta del luogo di occultamento ed alla individuazione delle persone deputate di volta in volta a servirsene. Mantiene i contatti con gli esponenti delle famiglie di riferimento in Calabria, mandando e ricevendo ‘ambasciate’. Provvede a mantenere i contatti con le famiglie degli arrestati della locale sia a seguito degli arresti del luglio 2010, sia di quelli dell’aprile 2011. Partecipa ai summit sopra indicati nel corso dei quali vengono conferiti a lui stesso e ad altri doti e cariche. Partecipa alla pianificazione delle attività criminali della locale percependone anche parte dei proventi”. Antonino Belnome è il pentito che per primo ha fatto luce sull’omicidio di Carmelo Novella, ex capo della “Lombardia”, l’organismo che riuniva tutte le locali di ‘ndrangheta nella regione.

Il bunker

Una botola nascosta nel pavimento della cucina, con un perfetto meccanismo di apertura telecomandata. Un bunker in piena regola per scappare ai blitz della forze dell’ordine, identico a quelli di ‘ndranghetisti latitanti dell’Aspromonte. La novita’ e’ che il nascondiglio si trovava nel profondo Nord, a Giussano, piccolo comune della Brianza. Per la precisione in via Boito 23, dove il boss Antonio Stagno, di 44 anni, originario di Giussano e attualmente detenuto nel carcere di Opera per altri motivi, aveva la sua residenza. Si tratta di un vero e proprio bunker con una parete mobile che si aziona con un telecomando – ha spiegato il pm della Dda di Milano, Alessandra Dolci – come quelli che siamo soliti trovare in realta’ come San Luca o Plati’. Per gli investigatori e’ un dato molto importante perche’ dimostra l’ulteriore passo in avanti della ‘ndrangheta al Nord, ormai cosi’ a proprio agio da esportare tecniche ritenute esclusiva delle zone d’origine. Il procuratore aggiunto del Tribunale di Milano, Ilda Boccassini, ha aggiunto che questo e’ momento di cambiamento per le ‘ndrine, con i giovani che stanno prendendo il posto degli ”anziani”. Nonostante cio’, pero’, resistono le tradizioni come quella dei bunker, di cui i calabresi sono considerati esperti costruttori.

Le minacce: i coltelli al ristorante

Rocco mi punto’ contro anche un coltello, il coltello da tavola del ristorante”. Cosi’ una delle ‘vittime’ delle estorsioni messe in atto dalle cosche della ‘ndrangheta di Giussano e Seregno, in Brianza, smantellate oggi con l’operazione ‘Ulisse’ condotta dai carabinieri del Ros, ha raccontato agli inquirenti della Dda di Milano l’ ‘umiliazione’ che subi’ quando nella sala di un locale venne preso anche a ”pugni e schiaffi al volto da parte di quasi tutti i commensali”, tra cui il presunto boss del clan di Seregno, Rocco Cristello, uno dei 37 arrestati. Nelle oltre 230 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare, infatti, viene riportato anche il ‘capitolo’ della ”estorsione nei confronti di Gioffre’ Roberto”, ovvero le ”modalita’ estorsive attraverso le quali i due maggiori esponenti della locale di Seregno, ovvero Cristello Rocco e Formica Claudio (rispettivamente capo locale e capo societa’) si ‘appropriarono’ del locale chiamato ‘Casino’ Royale’ di Paina di Giussano, piu’ volte emerso nell’indagine ‘Infinito’ come luogo abituale di appuntamento degli affiliati”. La ‘vittima’ dell’estorsione, l’imprenditore Roberto Gioffre’, ha spiegato nella sua denuncia e nelle sommarie informazioni ai pm di aver dovuto incontrare nel 2009 in un ristorante di Seregno i presunti boss per cercare di ‘resistere’ alle vessazioni. ”Gioffre’ – scrive il gip Andrea Ghinetti – si reco’ all’appuntamento accompagnato dal fratello Francesco, consigliere comunale a Seregno”.

Appena entrati nel locale, Gioffre’ venne aggredito da Rocco Cristello che gli grido’: ”tu sei un pezzo di m…”. L’imprenditore disse agli uomini del clan che non avrebbe consegnato i ”50 mila euro” richiesti e per tutta risposta venne preso a ”pugni e schiaffi” al tavolo del ristorante. Poi il coltello puntato contro che fece reagire il fratello di Gioffre’, consigliere comunale. Cristello Rocco a quel punto, ha raccontato Gioffre’, ”lancio’ un’occhiata eloquente a mio fratello dicendogli ‘Franco, fatti i cazzi tuoi’, frase che fece desistere mio fratello”. L’importo totale ”di denaro” estorto a Gioffre’, sintetizza il gip, ”ammonta a 70 mila euro”. E’ questo l’unico dei 4 episodi di usura ed estorsione riportati nell’ordinanza nel quale la ‘vittima’ ha denunciato le vessazioni subite dai clan della ‘ndrangheta. Negli altri casi, invece, come si legge nell’ordinanza, gli imprenditori si limitavano al massimo a pronunciare al telefono, intercettati, frasi come ”mi hanno condannato a morte mi hanno detto (…) sono un morto che cammina”. Uno dei pentiti ‘chiave’ delle indagini di ‘ndrangheta degli ultimi mesi in Lombardia, Antonino Belnome, ha spiegato a verbale ai pm della Dda di Milano che ”la scelta delle persone da sottoporre ad estorsione nel territorio lombardo ricadeva quasi sempre (…) su imprenditori di origine calabrese in quanto maggiormente inclini per mentalita’ a sottostare alle richieste estorsive senza coinvolgere le forze dell’ordine”. Non solo, spiega ancora il gip riportando le parole di Belnome, ”le vittime, di solito e per risalente consuetudine, si rivolgono ad esponenti della criminalita’ organizzata del paese d’origine perche’ svolgano un ruolo di mediazione (e non gratis, ovviamente)”.

Il politico che nega

Francesco Gioffre’, consigliere comunale di Seregno (Milano), con un atteggiamento ”vicino alla connivenza”, tento’ ”di minimizzare” con le sue dichiarazioni agli inquirenti le minacce subite dal fratello Roberto, vittima di estorsione da parte della cosca della ‘ndrangheta dei Cristello. Lo scrive il gip di Milano, Andrea Ghinetti, nell’ordinanza di custodia cautelare a carico di 37 persone, eseguita oggi da carabinieri del Ros e del comando provinciale. ”Un discorso a parte – scrive il gip – meritano le dichiarazioni di Gioffre’ Francesco, opaco fratello della vittima ed unica ‘voce fuori dal coro’ il quale, sentito a s. i.t. (sommarie informazioni testimoniali, ndr) il 26 aprile 2011, pur ammettendo di conoscere i fratelli Rocco e Francesco Cristello (che sostiene di avere aiutato per una pratica presso il comune nel quale egli stesso e’ consigliere comunale), ha tentato in ogni modo di minimizzare la portata dei fatti giungendo quasi a prendere le difese dei Cristello, sino al punto di dirsi estremamente stupito nell’apprendere la notizia del loro arresto del luglio del 2010”, nell’ambito del maxi-blitz ‘Infinito’. ”E’ di tutta evidenza – si legge ancora nell’ordinanza – alla luce delle risultanze investigative sopra esposte, che le dichiarazioni di Gioffre’ Francesco, nella parte in cui contrastano con quelle del fratello Roberto, non possono ritenersi credibili ma debbono al contrario essere inquadrate nel medesimo clima di intimidazione del quale e’ stato vittima anche Roberto Gioffre’, che ha evidentemente portato i due fratelli a reagire in modo diametralmente opposto”. Mentre uno dei due fratelli Roberto ”ha scelto di denunciare i fatti con rischio personale che lo ha portato a temere talmente tanto per se’ e per i suoi familiari da decidere di lasciare il Paese per trasferirsi all’estero, il politico locale Gioffre’ Francesco ha fatto una scelta diversa, vicino alla connivenza, piu’ in linea con quella gia’ riscontrata in altri casi oggetto della presente misura cautelare”

 

‘ndranghetisti, condannati, confiscati e riaprono comunque: lo schiaffo della mafia alla Lombardia

Scritto per IL FATTO QUOTIDIANO

Giuseppe Antonio Medici è cugino di Salvatore Muscatello, originario di Sant’Agata del Bianco e emigrato al nord nel 1994. Era già stato implicato nell’indagine”La notte dei Fiori di San Vito”in quanto ritenuto affiliato al locale di Mariano Comense; tuttavia in relazione a tale procedimento fondato sulle dichiarazioni di collaboratori di giustizia è stato assolto.

Oggi invece è in carcere, a Opera, dove sconta la condanna dopo l’ultima operazione Crimine-Infinito. E’ uno che conta Medici: secondo la sentenza di primo grado emessa dal giudice Arnaldi per la locale di Mariano Comense (coordinata dal cugino Salvatore Muscatello) Giuseppe Antonio Medici è il custode di armi e esplosivi n un box di via Rossini a Seregno e vicino a gente di elevato spessore criminale come Cosimo Barranca, Giuseppe Salvatore e Vincenzo Mandalari. Medici era anche amico di quel Carmelo Novella, capo del distaccamento ‘ndranghetista in Lombardia (chiamato, con un eccesso di fantasia appunto “Lombardia”) che verrà ammazzato per il sogno di una ‘ndrangheta lombarda federalista che cercasse la secessione dalla Calabria. Morto ammazzato Carmelo Novella, Giuseppe Medici è comunque rimasto amico del figlio. Insomma, uno che ci tiene ai rapporti. Niente da dire. E tra ‘ndranghetisti le relazioni sono importanti per essere considerati e aggiungere spessore, non è un caso infatti che ci sia anche lui al summit di Cardano al Campo il 3 maggio 2008 dove vengono “battezzati” Alessandro Manno e Roberto Malgeri, in quel gioco di riti e conviti mafiosi che si intrufola tra le pieghe dell’operosa e indifferente Lombardia. Anche i famigliari di Medici sono “battezzati”, secondo il Tribunale di Milano.

Ma la passione vera di Medici era il suo ristorante: il Re Nove, con uno di quei bei nomi frugali e rustici come succede spesso per i ristoranti di mafia. Ristorante in stile medievale, pizze grandi e ben cotte, tavoli in legno con re e principesse alle pareti e qualche problema di parcheggio da risolvere arraggiandosi lungo la provinciale. Appena Medici sente odore di confisca del suo amato ristorante, il Re Nove viene ceduto in affitto alla New Re IX srl (quando si dice la fantasia, eh) originariamente di Giuseppe Zoccoli (cugino di Giuseppe Medici) e successivamente con odio unico e amministratore Adelio Riva: noto prestanome al quale sono state intestate numerose autovetture da parte dei clan (secondo l’annotazione di polizia giudiziaria riportata nelle motivazioni sono arrivate ad essere addirittura 29 (tra le quali Ferrari, Lamborghini, Bentley, Aston Martin) compresa una Audi A3 in uso (quando si dice il caso) proprio a Medici.

Medici sparisce dalle carte come proprietario ma non cambia gli atteggiamenti: si preoccupa delle aperture, delle chiusure, dei conti, fissa appuntamenti nel grande salone e si preoccupa dei lavori di ristrutturazione. Riciclaggio, pizze e prestanomi: la faccia pulita della mafia qui su al Nord. La Procura ascolta, trascrive, indaga e ne decide la confisca: dietro al ristorante Re 9, dicono, c’è sempre il boss.

Fino a qui potrebbe essere una storia a lieto fine di indagini e magistrature. Succede, invece, che come i cani che segnano il territorio di fronte al Re 9, oggi, di fronte al ristorante confiscato, dall’altra parte della strada come uno schiaffo a mano aperta in pieno viso, i prestanome hanno aperto un nuovo ristorante. Esattamente di fronte. Con dentro le stesse persone. Come a volersi imporre nonostante le sentenze e il tempo.

E allora la sfida oggi esce dalle carte giudiziarie e diventa civile. Di formazione e informazione, di consapevolezza e curiosità per tutto quello che si costruisce e apre intorno ai nostri luoghi. Nella disarmante semplicità di una Regione che ha l’obbligo di sapere, isolare e scegliere. Perché il senso di impunità che sta dietro all’apertura di un ristorante della stessa “compagnia di giro” in faccia a quello confiscato dice che oggi, in Lombardia, i boss contano ancora su cittadini poco vigili. E le sentinelle, nelle battaglie di mafia, sono importanti.

Buon appetito.

Domenico Nista e il fratello ammazzato: 18 omicidi in 5 anni in Lombardia dove la mafia non esiste

Un bel pezzo dell’amico Davide Milosa (ma va?) su Domenico Nista “Tyson” e il fratello Giuseppe Nista. Come avevamo raccontato.

Franco lo zoppoPeppe di CittanovaMaurizio detto Maurino, il Macellaio e Mannaia Dio. Alias di malavita. Pseudonimi da verbali di polizia. Nomignoli da strada. Che puzzano di cordite e cocaina. Gente abituata a sfrecciare a bordo di grossi scooter. Con i sedili armati di 357 magnum. Gente che spara e gambizza. Minaccia ed estorce. Picchia e recupera il denaro della roba. Ombre che girano “accavallate” (armate,ndr) da quando si alzano a quando vanno a letto. Balordi di periferia zeppi di denaro racimolato a suon di buste di droga, trafficate all’ingrosso e spacciate per quartiere. Soldati di un esercito che tra i palazzoni dormitorio di Milano controllano e comandano. In nome e per conto dei boss. Calabresi. Senza dubbio. Tradotto: ‘ndrangheta. Ma non quella che punta al business pulito o ai rapporti con la politica lombarda. Non quella che sorseggia calici di champagne. L’altra: quella che corre lungo i perimetri urbani carburando con pippotti e bicchierate di Vat 69.

Il risultato, però, non cambia. E anzi è ancora peggio. Perché tocca la vita quotidiana dei cittadini assediati da chi va per bar e spara. Picchia in mezzo alla strada. Magari davanti a donne e bambini. Senza scrupoli. Come cani rabbiosi. Non ieri, ma oggi. Perché le grandi indagini della procura di Milano, gli arresti numerosi e le cupole (vere o presunte) hanno offuscato l’allarme sociale della mafia: il controllo del territorio. E così oggi, a due giorni dai tre colpi di 7 e 65 che hanno ferito e poi ucciso Giuseppe Nista, 44 anni, balordo come sopra, la partita di quartiere giocata da boss e gregari ritorna su come un rigurgito. Perché Beppe Nista era un tipo da armi e cocaina. Pregiudicato e socio di uno sfasciacarrozze a Segrate. Qui, poche centinaia di metri dopo, in via dei Mille a Vimodrone, i killer lo hanno seguito e freddato.

Quarantotto ore dopo i carabinieri di Monza vagliano piste e spulciano verbali. Hanno un’idea? Più di una. Diverse. Forse Giuseppe Nista ha “scopato nel letto sbagliato”. Un’eventualità. Sulla quale pesa la modalità dell’omicidio. Mafiosa senza dubbio. E allora forse quel letto era di qualcuno di rispetto. O magari, e l’ipotesi viene ritenuta credibile, tutto sta nelle parole del fratello di Giuseppe. Lui come il Peppe di Cittanova o il macellaio legato ai boss di Rosarno, ha un soprannome: lo hanno sempre chiamato tyson per via dei modi spicci e del grilletto facile. In carcere ci finisce nel 2005. Sedici anni e pena blindata. Nel 2007, però, Tyson classe ’70, inizia a parlare con i magistrati della procura di Milano. Riempie verbali, almeno quattro, e soprattutto fa nomi. Decine di nomi. Un lungo elenco dal quale spuntano protagonisti e comparse di un brutto romanzo criminale. Ma c’è di più: nel 2010 Nista arriva in aula come testimone. A Monza dove si sta celebrando il processo contro la ‘ndrangheta accusata di essersi infiltrata negli appalti Tav. Alla sbarra ci sono personaggi di peso: la famiglia Paparo, legata alle cosche di Isola Capo Rizzuto, gente dal nome nobile come Arena e NicosciaTyson parla e accusa: tira in ballo i boss, colloca azioni, le descrive, entra nei particolari. Cita la cosca di Pioltello costituita da Cosimo Maiolo e Alessandro Manno. Gente di Caulonia che tira avanti con droga, pizzo e violenza. Poi Nista sposta il tiro e racconta degli affari diPio Candeloro, padrino in stile Soprano, oggi in attesa di giudizio nel processo Infinito.

Una sola audizione per dire molto, forse troppo. Quindi la beffa: niente programma di protezione. Ufficialmente Domenico Nista non sarà mai un collaboratore di giustizia. Solo otterrà, nel carcere di Torino, un regime speciale. I magistrati e i giudici, che nel processo ai Paparo, annulleranno l’accusa per 416 bis (mantenendo alcuni reati fine), ritengono provate le sue dichiarazioni ma non utili al processo, perché vanno troppo indietro nel tempo. Due anni dopo i killer gli uccidono il fratello.

Eppure è proprio da quei verbali, comunque allegati agli atti del processo e dunque acquisibili dagli imputati, che emerge un mondo di malavita del quale faceva parte il defunto Giuseppe Nista. “Mio fratello – dice Nista – in più occasioni mi mostrò diversi tipi di armi quali pistole, fucili a pompa e mitra, mi raccontò anche di avere la disponibilità di 50 chili di esplosivo al plastico (…). Non so dove occultasse le armi. E’ appassionato e va a sparare alla cava di San Maurizio al Lambro”.

Domenico Nista inizia a collaborare il 22 novembre 2007. Tyson si trova al sesto piano della procura di Milano. Racconta di una famiglia, il cui nome è noto tra le strade di Cologno Monzese e che nel 1999 fu coinvolta in un traffico di armi poi rivendute alla camorra. Parla di A.G. “Quando era ragazzino frequentava il bowling di Pessano con Bornago. Io lo vedevo prendere i soldi dai ragazzini, a cui portava via anche i ciclomotori, in sostanza faceva piccole estorsioni e chiedeva il “pizzo” nei locali”. A comandare, però, è il fratello V.G. “Mi disse che lui e i suoi erano affiliati alla ‘ndrangheta, mi raccontò che aveva “la terza”, cioè che aveva la possibilità di battezzare nuovi adepti e creare un’altra famiglia. Se ho inteso bene, il grado della “terza” dovrebbe corrispondere a quello di “sgarrista”.

Nista Tyson racconta che quelli hanno tentato di farlo fuori e che lui voleva vendicarsi. Ma poi, nel 2002, alla gelateria Visconti sempre a Cologno c’è un incontro con gli uomini dei Nicoscia. C’è da parlare di droga e di traffico. “Mi dissero che avremmo dovuto lavorare tutti insieme, sia per la droga, sia per le estorsioni ed aggiunse che già sulle estorsioni stavano lavorando loro. In sostanza, mi chiesero di lavorare con loro perché mi sapevano “uomo d’azione””. Non solo: Domenico Nista all’epoca tratta chili di droga. E per qualche tempo concilia affari e sentimenti. La sua donna, madre di sua figlia, “aveva il compito (…) di tenere la contabilità dei miei traffici, aveva un libricino in cui segnava tutte le entrate e le uscite sulla base delle mie indicazioni”.

Insomma, Mimmo Tyson Nista non è un boss ma nemmeno un “pisciaturi” qualunque. E’ uno che i piedi in testa mai. E sei i suoi quarti di nobiltà mafiosa se li è guadagnati tra i palazzoni di Milano, alcuni nomi che contano li conosce. Come Cosimo Maiolo: “Un personaggio di spessore”. E giù particolari: “Nelle baracche nella campagna di Seggiano di Pioltello c’erano degli incontri di “calabresi pesanti”. Ho partecipato anch’io in qualche occasione a queste riunioni, si faceva da mangiare e si parlava di traffici illeciti”. Da Caulonia a Rosarno, Tyson mette in agenda anche il nome di Pino Ferraro detto u Massune e del suo tirapiedi Giuseppe Celentano detto Peppe u macellaio. Nel carcere di Sollicciano, addirittura incrocia un tizio, soprannominato Mescal, che gli racconta di traffici di droga (cento chili arrivati a Ventimiglia) che coinvolgono uomini dei Ros.

E nonostante questo, le sue parole rimarranno per sempre lettera morta. Non serviranno ai giudici di Monza che le riterranno vere ma non utili. E nemmeno saranno utilizzate dalla procura di Milano che non avvierà indagini nemmeno su un’ipotesi di sequestro, così racconta Nista, ideato dal braccio lombardo dei Nicoscia ai danni della figlia di suo fratello. Oggi orfana di un padre ammazzato in un pezzo d’asfalto non distante dal cuore di una Milano che nel silenzio mediatico aggiorna a 18 gli omicidi di mafia negli ultimi cinque anni. La prima fu l’avvocato Maria Spinella(freddata da Luigi Cicalese, killer della ‘ndrangheta oggi pentito). L’ultimo Peppe Nista. In mezzo l’esecuzione di Carmelo Novella (2008) il capo delle cosche lombarde che voleva fare la secessione dalla Calabria e finì ucciso in un circolo di San Vittore Olona. E ancora: Giovanni Di Muro (2009), imprenditore vicino a Cosa nostra e spione per conto dei Servizi segreti. Poi Natalino Rappocciolo (2009) figlio d’arte e di mafia giustiziato a bordo strada, la sua auto bruciata, il corpo chiuso in un sacco con un testa di cane mozzata al fianco.  Il resto è cronaca di ieri e di oggi. Cronaca di mafia a Milano.