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carriera

Colloquio per Ryanair: racconto semiserio di una giornata di ordinaria precarietà

(Sandro Gianni racconta la sua esperienza per Clap, qui)

A giudicare dagli annunci nei portali per la ricerca di lavoro, sembra che sul mercato esistano solo tre tipi di occupazioni disponibili: sistemista Java, dialogatore e operatore call-center. Se non conosci Java e hai zero voglia di vendere il tuo tempo per delle chiacchiere con degli sconosciuti, al telefono o dal vivo, la ricerca pare senza possibili sbocchi. Aggiungi che la percentuale di risposta ai curriculum inviati rasenta lo zero e che la laurea e/o i master di cui sei in possesso non sono particolarmente quotati nella borsa degli skills… il quadro si complica parecchio.

Perciò, quando qualcuno ha finalmente risposto alla mia “iscrizione a un’offerta di lavoro” ho provato una strana sensazione, di affetto quasi. Ho pensato di dover ricambiare, presentandomi al colloquio. Ho detto “qualcuno”, ma in realtà avrei dovuto dire “qualcosa”: un algoritmo, un dispositivo automatico di risposta alle mail, un bot del portale. Non posso saperlo, ma l’invito a comparire in un hotel nella zona di Tor Vergata è arrivato pochi millesimi di secondo dopo l’invio della mia iscrizione. Ciò esclude la mediazione umana e, dunque, una seppur minima selezione del curriculum, che avrebbe potuto equivalere a qualche decimale in più nella stima probabilistica di un’assunzione .

Il lavoro non era proprio quello dei miei sogni, ma provavo a vederci delle sfumature positive: la possibilità di viaggiare, avere un contratto decente, ricevere uno stipendio non troppo basso. Ovviamente, mi sbagliavo.

Nell’atrio dell’hotel di lusso, nella periferia sud-est di Roma, una quarantina di ragazzi e ragazze tirati a lucido, con la barba fatta, il vestito e la cravatta siedono in silenzio. Tra loro, io. Alcuni si muovono sicuri nei completi eleganti, camminano come se nulla fosse, bevono il caffé senza bisogno di sistemarsi di continuo la giacca, muovono le mani sullo smartphone senza domandarsi perché la camicia faccia capolino solo da una delle due maniche. Altri sono impacciati, si toccano insistentemente la cravatta temendo che il nodo si sciolga, cercano delle tasche in cui infilare le mani senza trovarle, provano a controllare la continua fuoriuscita della camicia dalla giacca senza alcun successo. Evidentemente, non sono abituati a conciarsi così. Tra loro, sempre io. C’è anche un ragazzo che deve aver letto male le istruzioni per l’uso: si è presentato in jeans e camicia a quadrettoni, rossi e blu. È imbarazzato, ma resta. Sembra simpatico.

In sala nessuno fiata. Quasi che taller e vestiti abbiano trasmesso per metonimìa un certo dovere di contegno, di formalità. «Dicono che l’abito non fa il monaco, ma non è vero» – argomenta il Totò ladro vestito da carabiniere, nei Due marescialli – «Io a furia di indossare indegnamente questa divisa, marescia’… mi sento un po’ carabiniere».

Ci chiamano e andiamo tutti insieme nel seminterrato dell’albergo, in una sala conferenze. Eliminata la prima decina di candidati con un test di inglese da seconda media, la selezione entra nel vivo. O meglio, nel video. Proiettano una presentazione del lavoro, divisa per sezioni: informazioni tecniche sulle diverse mansioni; procedure di inizio; questioni retributive e contrattuali; possibilità di carriera; criteri di premialità; caratteristiche dell’azienda che offre il lavoro e dell’agenzia di recruitment che assume (due cose diverse: una è Ryan; l’altra una fusione tra Crewlink e Workforce International… sì, si chiama proprio così!). In questa seconda fase, si rivolgono a noi come fossimo già assunti. L’uomo sulla cinquantina, inglese o irlandese, responsabile del reclutamento, allude più volte a quanto staremmo bene con indosso le nuove divise da hostess e steward.

Dalle immagini del video e dagli interventi del selezionatore si capisce che ci sono soprattutto tre caratteristiche importanti per fare questo lavoro: essere disponibili alla relocation immediata; parlare inglese; essere flessibili-e-sorridenti (insieme). Le immagini mostrano giovani di tutti i colori, che sembrano felici e raccontano la loro esperienza con Ryan di fronte a un bastone per i selfie. In particolare, insistono su quanto sia utile e divertente il corso di formazione per diventare personale di bordo. Si nuota, si spengono incendi, si salvano bambolotti, si incontrano persone. «You grow up like a man, not just cabin crew».

Ma è più avanti che le orecchie dei candidati si aguzzano: quando si inizia a entrare nel dettaglio del salario e dei tempi di lavoro. La retribuzione è organizzata secondo una serie di premi e possibili punizioni, un incrocio tra un videogioco e una raccolta punti del supermercato. «Your performance is continually monitored and assessed». Monitorare e valutare. Punire solo come ultima ratio. Soprattutto premiare: per far rispettare le regole, per aumentare la produttività, per migliorare le prestazioni. I like dei clienti danno diritto a delle ricompense: monetarie, ma soprattutto relazionali. Ad esempio, la penna nel taschino è indice di un certo numero di apprezzamenti. Costituisce dunque, tra i colleghi e nell’azienda, l’indicatore di uno status particolare.

Si viene pagati un po’ in base all’orario e un po’ a cottimo. Nel senso: un fisso non esiste; sono retribuite solo le ore di volo; si percepisce il 10% su ogni prodotto venduto (…adesso lo capite il perchè di tanto rumore?). Il contratto è registrato in Irlanda o UK. Si hanno delle agevolazioni sui viaggi in aereo.

Il salario mensile dovrebbe oscillare tra 900 e 1.400 euro lordi, in base al luogo di ricollocamento. «We try to keep the wages homogeneous among our workers». Bella l’uguaglianza, quando non schiaccia tutti verso il basso… penso io. Viene poi fatto cenno a un periodo annuale in cui non si lavora e non si ricevono soldi: da uno a tre mesi. Ma il selezionatore ci assicura che questa pausa non supera (quasi) mai i 30 giorni.

Fino a qui, niente di eccezionale. Ma il rapporto premi-punizioni è più complesso e configura per intero il sistema di retribuzione. Ovviamente, se i diritti diventano premi e i doveri debiti, tutto cambia. Non si parla di tredicesima e/o quattordcesima, ma di bonus, che si ricevono solo il primo anno. 300 euro il primo mese di lavoro, altrettanti il secondo, il doppio il sesto. Chi va via prima della conclusione dei primi 12 mesi, però, deve restituire questi bonus. Inoltre, la divisa (quella bella di cui sopra) costituisce un costo esternalizzato al lavoratore: il primo anno sono 30 euro al mese scalati direttamente dalla busta paga; successivamente pare si ricevano dei soldi, ma non si capisce bene per cosa, se per lavarla o non perderla. Per ultimo, il famoso corso di formazione per diventare hostess o steward si rivela qualcosa di più di un parco giochi in cui fare festini con altri esponenti multikulti della generazione Erasmus. Principalmente, si rivela un’enorme spesa. Se all’inizio era stato comunicato che, in via eccezionale, le registration fees del corso erano dimezzate a 250 euro, è alla fine che viene fuori il vero prezzo da pagare. Ci sono due modalità differenti: 2.649 euro se paghi prima dell’inizio e tutto in un colpo; 3.249 se decidi di farti scalare il costo dallo stipendio del primo anno (299 euro dal secondo al decimo mese, 250 gli ultimi due).

Si aprono le domande. Dopo alcune irrilevanti su sciocchezze burocratiche, alzo la mano. «Ci avete parlato di un massimo di ore di volo a settimana, ma mai delle ore totali di lavoro. Quante sono?», chiedo. «Voi siete pagati in base alle block hours, cioé le ore calcolate dalla chiusura delle porte prima del decollo, all’apertura dopo l’atterraggio. I tempi di preparazione dell’aereo, prima e dopo il volo, possono variare». Varieranno pure, ma di sicuro non vengono pagati, nonostante siano tempi di lavoro.

Alza la mano quello dietro di me. «Scusi la domanda, ma ho bisogno di fare dei conti. Diciamo che uno stipendio per una destinazione non troppo cara è di 1.000 euro. Ve ne devo restituire 330 al mese tra corso e divisa. Ne rimangono 670. Dovrò prendere una stanza in affitto, diciamo 300 euro. Ne rimangono 370. In più avrò bisogno di pagare un abbonamento ai mezzi per raggiungere l’aeroporto e coprire almeno le spese della casa anche nella pausa annuale in cui non si lavora. Diciamo che, se va bene, rimangono 300 euro. E non ho scalato le tasse, perché non so come si calcolano in Irlando o UK. Secondo lei, con questi soldi si può vivere?». Sbem.

Il selezionatore della società di recruitment, fino a quel momento cordiale e spiritoso, accusa il colpo. Deglutisce. Tossisce. Arrosisce. Si butta sulla fascia, prova un diversivo. «With this work you don’t get rich, but it’s in accordance with your capacity and affords your lifestyle». Alla fine, anche qui le nostre capacità valgono poco più di un pacchetto di sigarette al giorno. Chissà, invece, come ha calcolato il nostro stile di vita!

Finito il video, io e gli altri candidati usciamo e andiamo a mangiare insieme. Da come siamo vestiti, sembriamo un gruppo di giovani businessmen in carriera, lanciati alla conquista del mercato e pronti a scalare colossi finanziari. Invece siamo lì per un colloquio che, se va bene, ci farà guadagnare meno della persona che ci serve la pizza.

Comunque, i calcoli veloci del ragazzo che ha fatto la domanda dopo di me hanno sciolto l’iniziale freddezza tra i candidati. In molti hanno perso interesse per questo lavoro. Anche per questo, si scherza e si chiacchiera. Alcuni hanno appena finito la scuola superiore, altri l’università. Altri ancora hanno già diversi anni di precarietà e i capelli brizzolati. Tra loro…

Rimango fino all’intervista, per sport. Mi capita la collaboratrice del selezionatore. Legge il mio curriculum. Niente di eccezionale, però insomma… neanche da buttare. Tutti i titoli di studio con il massimo dei voti, laurea e due master, cinque lingue, numerose esperienze di lavoro materiale e immateriale, in Italia e all’estero. «Are you sure you want to do this work?», mi chiede. Bleffo: «Eeeeeh. Why not?». «Do you know people working for us?». «No». «So, what do you know about this work?». «What you told me today», rispondo. Lei arriccia il labbro inferiore e muove la testa dal basso verso l’alto e poi in senso inverso, fissandomi con gli occhi corrucciati. Ho l’impressione che stia pensando sardonicamente “devi essere proprio una volpe, tu!”.

Saluto, me ne vado. Sulla vespa faccio i conti: due caffé al bar dell’albergo = 3 euro; un pezzo di pizza e una bottiglia d’acqua = 4 e 50; giri vari alla ricerca di vestito, cravatta e scarpe e poi fino al colloquio = almeno 5 euro; stirare la camicia = 2 euro; stampare 7 fogli di curriculum dal cristiano-copto su via di Torpignattara, che sembra sapere quando non puoi dirgli di no = 2,10 euro. Barba e capelli costo zero, taglio autoprodotto in casa. Alla fine, non mi è andata nemmeno tanto male. Qualcuno è arrivato in treno da lontano, spendendo molto di più. Per l’ennesima offerta di lavoro precario e sottopagato.

Almeno una cosa l’ho capita: nella compagnia aerea, quel low che precede il cost non è riferito soltanto ai prezzi dei biglietti, ma anche al costo del lavoro.

Salvo Vitale e la sincerità per niente smemorata

Tipologie dell’antimafia

di Salvo Vitale – 3 settembre 2009
Ci sono vari tipi di antimafia: mi soffermo su alcuni:

1) L’antimafia di facciata, è la più diffusa: manifestazioni formali, commemorazioni in occasione di ricorrenze (nascite, morti, partecipazione ad eventi, intestazioni di strade, convegni ecc.). E’ l’antimafia tutto fumo e niente arrosto, nel senso che basta impegnare pochi soldi (amplificazione, locale, spese di viaggio e di soggiorno per i relatori per promuovere l’immagine di un’amministrazione seriamente impegnata in questo campo, attraverso la diffusione della notizia sul giornale o in tv. Qualche presenza del politico di turno assicura più visibilità e più parole inutili. I risultati d queste attività sono pressocché nulli se non rafforzati da momenti di riflessione e da azioni d’intervento sul territorio. Da questa antimafia i mafiosi non si sentono disturbati, anzi condividono o promuovono la partecipazione di loro simpatizzanti alle iniziative, onde avere un alibi.

2) L’antimafia talebana: è quella di chi vede mafia e interessi mafiosi dappertutto, quella di chi su un saluto, su una parentela, su una frase avulsa dal suo contesto, scopre collusioni mafiose con i politici, loschi affari che nascondono chissà quali oscure trame. Si mettono assieme le più disparate notizie che possono avere una qualche connessione, per elaborare analisi indimostrabili, utili comunque a gettar fango sul proprio avversario politico o sul proprio nemico personale. Molti personaggi di primo piano, soprattutto a sinistra, hanno fatto parte di questa antimafia, finendo con il generalizzare in un unico calderone categorie sociali e persone che nulla avevano a che fare con la mafia. Personalmente ritengo di essere appartenuto anche io, in altri tempi, a questa categoria, quando, ai tempi di Peppino Impastato, ritenevo che “Scudo crociato- mafia di stato” o che ” D,C.+P.C.I= mafia”. C’erano allora certamente molti mafiosi nelle D.C. così come ora nell’UDC e nel PDL, alcuni anche nel PD, senza per questo dover concludere che tutti quelli che fanno politica sono mafiosi o collusi. “Se tutto è mafia niente è mafia”, diceva Sciascia. E questa sorta di smania di trovare “connessioni mafiose” dovunque, ricorda per certi aspetti l’integralismo dei talebani afghani. Quindi due tipi di “talebaneria”: quella sincera e radicale, chiusa in una completa intolleranza e nel rifiuto totale del sistema, quella che utilizza o strumentalizza presunte collusioni come mezzi utili a qualche strategia politica. E qua passiamo già alla successiva tipologia,

3) L’antimafia strumentale: l’uso dell’antimafia come strumento per far carriera. Sciascia, a suo tempo, bollò come “professionisti dell’antimafia” anche Falcone e Borsellino, accorgendosi, solo molto più tardi e dopo la loro morte, di avere sbagliato bersaglio. Per un magistrato che cura particolari inchieste, è facile costruire una cornice in cui l’impegno personale si media con la carriera professionale. Anche il politico può servirsi di quest’arma con intelligenza, favorendo le associazioni antimafia, assegnando loro beni confiscati, plaudendo alle operazioni delle forze dell’ordine quando smantellano organizzazioni malavitose presenti sul proprio territorio, o esprimendo solidarietà nel caso di attentati. Sull’esistenza di un autentica volontà antimafia si può avanzare qualche dubbio, anche se non mancano risultati eclatanti.

4) L’antimafia passiva, che comprende una “maggioranza silenziosa”, ostile alle prepotenze, desiderosa di vedere l’alba di una nuova Sicilia, ma che sopporta tutto e si adatta al sistema per mancanza di coraggio. “Pi amuri di la paci ognunu taci- e supporta la mafia in santa paci” , cantava Otello Profazio. Difficile catalogare come antimafia questa forma di accettazione passiva, specie quando è determinata dall’idea che nulla cambia o potrà cambiare l’attuale assetto di vita: non c’è miglior terreno di cultura della mafia che la conservazione dello stato di cose che ne costituisce il naturale brodo di coltura. Un passaggio più avanzato è l’accettazione determinata dalla paura: a nessuno piace subire la violenza, assoggettarsi al pagamenti del pizzo per evitare ritorsioni che possono arrivare alla rovina di un’attività. Lamentarsi non basta, ma c’è già qualche luce di ribellione, o comunque, di presa di distanza.

5)
Più consistenza ha l’antimafia militante, cioè quella di coloro che dedicano il proprio tempo e la propria vita a lavorare per l’eliminazione di questo triste fenomeno del sottosviluppo meridionale: quella di coloro che vanno nelle scuole, che scrivono inchieste coraggiose su alcuni giornali, che creano associazioni e promuovono iniziative di formazione e di lotta, anche spontanee, contro chi usa il potere per ricattare la gente impedendole di scegliere liberamente il proprio futuro. E l’antimafia di amministratori che si attivano per utilizzare i terreni confiscati ai mafiosi, quella dei docenti che elaborano progetti di educazione alla legalità ( non sempre efficaci), quella dei pochi giornalisti pronti a rendere note le collusioni con la politica e i giri d’affari illegali, mentre gran parte dei loro colleghi preferiscono scaldare le sedie con inutili servizi sulle vacanze, sui prezzi, sull’enalotto, sui meriti e i miracoli del loro padrone e dei suoi amici, ecc.

Tratto da: corleonedialogos.blogspot.com

Cronache da Bengodi: tutti allegri al nucleare comunale

giullarePrima notizia, non si è ancora calmato il ciondolo semipendulo del re che il governo di Bengodi ci regala una perla da rizzare anche i più distratti: si torna al nucleare. L’aveva dichiarato il ministro Scajola qualche mese fa ma in fondo ci avevano fatto caso in pochi, anche perchè ci eravamo costretti a non dare troppo peso a tutte le scajolate del ministro almeno per una forma di igiene mentale.

Per inquadrare la statura politica del nostro basta ripercorrere alcuni passi  della sua fulminante carriera verbale: dall’equilibrio dimostrato in occasione del G8 di Genova «Durante il G8, la notte in cui c’è stato il morto, ho dovuto dare l’ordine di sparare se avessero sfondato la zona rossa. A Genova, in quei giorni si giocava una partita seria, lo hanno capito tutti dopo l’11 settembre», passando per la sensibilità sulla vicenda Biagi «Non fatemi parlare. Figura centrale Biagi? Fatevi dire da Maroni se era una figura centrale: era un rompicoglioni che voleva il rinnovo del contratto di consulenza», da esperto di diritto del lavoro e processi addirittura senza bisogno di leggere le carte come sul caso Thyssen “Sinceramente, con tutto il rispetto per il procuratore e per il gup torinesi, e non conoscendo le carte processuali, mi riesce difficile immaginare che l’amministratore delegato della Thyssen abbia voluto provocare la morte dei suoi dipendenti. Agli altri indagati è stato infatti contestato l’omicidio colposo. Ed è un’accusa gravissima, intendiamoci”.

Insomma il giusto Ministro al Disastro Ambientale per una Bengodi che si rispetti.

Ora con la nuova Legge Sviluppo (indispensabile in un momento in cui diventa urgente raggiungere quanto prima almeno la maggiore età) si rilancia quel nucleare che più di qualche decennio fa si era perso tempo a rifiutare con un referendum. Infatti oggi il nuovo referendum se l’è fatto da solo il Ministro con il proprio omino del cervello e dai suoi calcoli sembra proprio che abbia vinto il sì, nonostante lui si sia astenuto. Tutti allineati quindi per rilanciare il nucleare come l’energia del futuro con giornali e televisioni allineati a fare festa in questa perversione di futurismo archeologico dell’informazione che ci regala pezzettoni di vomito vendendoceli come bigné.

IL NUCLEARE E’ RINNOVABILE! urlano gli strilloni del re con contratto  a progetto Co.Co.Prot. Da fonti interne dei servizi segreti sembra infatti che Scajola sia riuscito a trovare la formula segreta per produrre uranio all’infinito grazie ad una ricetta della nonna con uova, farina, un pizzico d’olio e una coda di gatto nero. E saranno felici sicuramente anche tutti quelli che l’hanno acquistato negli ultimi anni pagandolo in crescendo fino a 7 volte il prezzo che costava qualche anno fa (per una banalissima regola di mercato che dovrebbe suggerirci che probabilmente si stava esaurendo). Ora con la soluzione di pastafrolla siamo tutti più tranquilli.

IL NUCLEARE E’ PULITO! Certo caro Scajola, se lo scrivi 100 volte con un pastello a cera su un foglio di carta riciclata ancora meglio. E infatti sono le scorie che sono sporche. Quelle scorie che nessuno sa dove mettere e che dovrebbero essere avanzate anche da noi sotto il tavolo per aver provato a costruire qualche centralina qualche anno fa. Ma Scajola è tranquillo. Per le scorie al massimo basterà fare una mezza telefonata all’esercito di insabbiarifiuti del Ministero della Monnezza di Schiavone e Bidognetti o chi per loro e voilà in un batter d’occhio è come se non ci siano mai state. Al massimo subiremo qualche rave-party di un migliaio di mozzarelle un po’ troppo adrenaliniche. E comunque per eliminare scorie e diossine il re ha un metodo infallibile sul “letto quello grande”.

IL NUCLEARE E’ ECONOMICO! Sì, certo. E Rocco Siffredi è gay, l’onorevole Salvini è astemio e Emilio Fede è un ribelle. Chiedete ai finlandesi un paio di opinioni sulla centrale nucleare più grande del mondo Olkiluoto-3. Leggete qui.

IL NUCLEARE E’ SICURO! E a questo punto, a Bengodi, nessuno ha più avuto il coraggio di continuare la conversazione.

Da lontano Scajola urlava sul palchetto “Chi subira’ il disturbo psicologico (perche’ solo di questo si tratta) di ospitare una centrale dovra’ essere premiato e non si tratta solo di premiare il Comune o la Provincia che certamente dovranno avere delle royalties, ma dobbiamo andare direttamente sui cittadini che dovranno pagare l’energia molto, molto, meno che negli altri posti, grazie a bollette piu’ leggere”. Mentre da lontano il tramonto colorava il cielo di porpora.

Speriamo almeno non sia un fungo nucleare, disse il nonno al bambino.

Puf!