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Cesare Pavese

«si era messa a piangere perché dormire era una stupidaggine e rubava tempo all’allegria»

415MfaJlBWL._SX306_BO1,204,203,200_“A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e traversare la strada, per diventare come matte, e tutto era cosí bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravano ancora che qualcosa succedesse, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, e magari venisse giorno all’improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare camminare fino ai prati e fin dietro le colline. – Siete sane, siete giovani, – dicevano, – siete ragazze, non avete pensieri, si capisce –. Eppure una di loro, quella Tina che era uscita zoppa dall’ospedale e in casa non aveva da mangiare, anche lei rideva per niente, e una sera, trottando dietro gli altri, si era fermata e si era messa a piangere perché dormire era una stupidaggine e rubava tempo all’allegria.”
(Cesare Pavese, La bella estate, Einaudi)

A proposito delle generazioni perdute

Ritrovo grazie a Adrianaaaa una nota di Cesare Pavese che colpisce per contemporaneità nonostante sia stata scritta nel 1950:

Per oggi ci preme rilevare la frase che uno “scrittore comunista” ha detto a Falconi intorno alla crisi, all’insufficienza narrativa del nostro tempo: “La nostra è una generazione in un certo senso perduta, e non si può pretendere di più…La nostra testimonianza non può essere che polemica e imperfetta… Domani i nostri figli… potranno essere invece i testimoni liricamente o epicamente sereni, ecc ecc”. A noi questa frase ripugna profondamente, e non abbiamo difficoltà a dire il perché. Non ci sono generazioni perdute – ci sono dei lavoratori e dei fannulloni, dei confusionari e delle persone intelligenti. Se anche una sola generazione avesse il destino culturale di riuscire perduta, di sacrificarsi in toto alla successiva, allora per tutte sarebbe così e ci si domanderebbe a che scopo lavorare ancora. Chi non sa di essere felice “qui e ora”, non lo sarà mai. E scrivere, sia pure combattendo, vuol dire essere felice. Lo scrittore che non si contenta del suo lavoro nei giorni che gli è toccato di vivere, non è uno scrittore. E siamo certo che non lo sarà nemmeno nel giorno beato in cui la società finalmente socialista gli offrirà i più impeccabili modelli di civismo. Allora troverà che il mondo non è ancora comunista. E così via.
La poesia (anche quella dei neorealisti) non ha nulla a che fare con queste velleità, con queste scappatoie. La poesia è l’immagine “chiara” di ciò che nell’esperienza ci è parso “oscuro”, “misterioso”, “problematico”. In qualunque esperienza. E in qualunque momento storico ci tocchi di vivere.

(Da La Letteratura Americana e altri saggi)

L’arte di essere solo

L’arte di sviluppare i motivetti per risolverci a compiere le grandi azioni che ci sono necessarie. L’arte di non farci mai avvilire dalle reazioni altrui, ricordando che il valore di un sentimento è giudizio nostro poiché saremo noi a sentircelo, non chi interviene. L’arte di mentire a noi stessi sapendo di mentire. L’arte di guardare in faccia la gente, compresi noi stessi, come fossero personaggi di una nostra novella. L’arte di ricordare sempre che, non contando noi nulla e non contando nulla nessuno degli altri, noi contiamo più di ciascuno, semplicemente perché siamo noi. L’arte di considerare la donna come la pagnotta: problema d’astuzia. L’arte di toccare fulmineamente il fondo del dolore, per risalire con un colpo di tallone. L’arte di sostituire noi a ciascuno, e sapere quindi che ciascuno si interessa soltanto di sé. L’arte di attribuire qualunque nostro gesto a un altro, per chiarirci all’istante se è sensato.

L’arte di fare a meno dell’arte.

L’arte di essere solo.

(Cesare Pavese da Il mestiere di vivere, 1935/1950 postumo, 1952)

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La bella estate

A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e traversare la strada, per diventare come matte, e tutto era cosí bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravano ancora che qualcosa succedesse, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, e magari venisse giorno all’improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare camminare fino ai prati e fin dietro le colline. – Siete sane, siete giovani, – dicevano, – siete ragazze, non avete pensieri, si capisce –. Eppure una di loro, quella Tina che era uscita zoppa dall’ospedale e in casa non aveva da mangiare, anche lei rideva per niente, e una sera, trottando dietro gli altri, si era fermata e si era messa a piangere perché dormire era una stupidaggine e rubava tempo all’allegria. (La bella estate, Cesare Pavese)