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Charlie Gard: bravi, alla fine siete riusciti a farlo soffrire ancora di più, se possibile

“Il mio mestiere è evitare che il paziente muoia, non ucciderlo. Avete davvero mai incontrato un infermiere o un dottore che vuole la morte di un bambino? Non volevamo perdere Charlie, ma era nostro obbligo legale e morale, il nostro lavoro, diventare suoi portavoce quando è stato ora di dire basta.

 Era ovvio per tutti quelli che lo hanno curato. Gli abbiamo dato farmaci e fluidi, abbiamo fatto tutto quello che potevamo, anche se pensavamo che avrebbero dovuto lasciarlo spirare tra le braccia dei suoi genitori, in pace, amato.

Gli abbiamo dato farmaci, abbiamo fato tutto quello che potevamo. Anche se abbiamo pensato che avrebbe dovuto scivolare via tra le braccia dei suoi genitori. Non lo abbiamo fatto per Charlie. Non l’abbiamo fatto nemmeno per sua mamma e suo papà. Negli ultimi tempi abbiamo fatto tutto questo per Donald Trump, il Papa e Boris Johnson che improvvisamente sapevano di più su malattie mitocondriali rispetto ai nostri consulenti esperti.

E l’abbiamo fatto per i leoni da tastiera che hanno pensato che si potesse scrivere tutto il male possibile del personale medico al Great Ormond Street, anche se noi eravamo ancora lì accanto a Charlie, per  prendersi cura di lui nel miglior modo possibile, come abbiamo sempre fatto.

L’abbiamo fatto mentre ogni nostra fibra ci diceva che stavamo sbagliando, che avremmo dovuto smettere.

Ma non potevamo.

Nel corso delle ultime settimane, i media e il dibattito pubblico hanno trasformato la vita di un bambino in una soap opera, in una questione giuridica discussa in tutto il mondo.

Lavorando nel reparto di terapia intensiva è come vivere in una bolla, il più delle volte, ma in questo caso siamo andati oltre. Sono sempre stato orgoglioso di poter dire che lavoro qui, ma non ora. Anche i miei amici mi hanno chiesto: “Perché stai cercando di uccidere questo bambino?”

Voi vi dimenticherete di Charlie, andrete avanti tranquilli con la vostra vita. I suoi genitori vivranno con questo dolore per sempre continuando a chiedersi se hanno davvero preso le giuste decisioni per il loro figlio, se sono stati abbastanza forti per compiere quelle scelte tra la vostra  furia di voi mentre osservavate da dietro lo schermo lo svolgersi del dramma”.

Sono le parole di un infermiere che ha curato Charlie Gard. E dicono tutto meglio di qualsiasi editoriale. La sua lettera al Guardian vale, per umanità e lucidità, molto di più di milioni di gretti discorsi da bar che abbiamo sopportato per settimane e ci dicono una cosa semplice semplice: accanirsi è disumano.

Buon lunedì.

(continua su Left)

Pace è l’unica parola che può toglierci dai guai.

Da leggere Igiaba Scego, fino in fondo:

«Ma qui in occidente ogni musulmano è potenzialmente colpevole, ogni musulmano è considerato una quinta colonna pronta a radicalizzarsi. Il fatto non solo mi offende, ma mi riempie anche di stupore. Sono meravigliata di quanto poco si conosca il mondo islamico in Italia. L’islam è una religione che conta più di un miliardo di fedeli. Abbraccia continenti, paesi, usanze diverse. Ci sono anche approcci alla religione diversi. Ci sono laici, ortodossi, praticanti rigorosi, praticanti tiepidi e ci sono persino atei di cultura islamica. È un mondo variegato che parla molte lingue, che vive molti mondi. Andrebbe coniugato al plurale.

Il mondo islamico non esiste. È un’astrazione. Esistono più mondi islamici che condividono pratiche e rituali comuni, ma che sul resto possono avere forti divergenze di opinioni e di metodi. E poi, essendo una religione senza clero, per forza di cose non può avere una voce sola. Non c’è un papa musulmano o un patriarca musulmano. L’organizzazione e il rapporto con il Supremo non è mediato. Inoltre, bisogna ricordare che i musulmani (o più correttamente, le persone di cultura musulmana) sono le prime vittime di questi attentati terroristici. È chiaro che la maggior parte della gente, di qualsiasi credo, è contro la violenza. A maggior ragione chi proviene da paesi islamici dove questa furia brutale può colpire zii, nipoti, fratelli, sposi, figli.

Not in my name, lo abbiamo gridato e scritto molte volte. Ci siamo distanziati. Lo abbiamo urlato fino a sgolarci. Lo abbiamo fatto dopo il massacro nella redazione di Charlie Hebdo, dopo la strage al Bataclan di Parigi o quella nell’università di Garissa in Kenya. Lo facciamo a ogni attentato a Baghdad, a Damasco, a Istanbul, a Mogadiscio. E naturalmente abbiamo fatto sentire la nostra voce dopo Dhaka. Ma ora dobbiamo entrare tutti – musulmani, cristiani, ebrei, atei, induisti, buddisti, tutti – in un’altra fase. Dobbiamo chiedere ai nostri governi di schierarsi contro le ambiguità del tempo presente.

Il nodo è geopolitico, non religioso. Un nodo aggrovigliato che va dalla Siria al Libano, dall’Arabia Saudita allo Yemen, passando per l’Iraq e l’Iran fino ad arrivare in Bangladesh e in India. Un nodo fatto di vendite di armi, traffici illeciti, interessi economici, finanziamenti poco chiari. E se proprio dobbiamo schierarci, allora facciamolo tutti per la pace. Serve pace nel mondo, pace in Siria, in Somalia, in Afghanistan e non solo. Serve un nuovo impegno per la pace, una parola che per troppo tempo non abbiamo usato, anzi che abbiamo snobbato come utopica. Serve un nuovo movimento pacifista. Servono politiche per la pace. Serve la parola pace coniugata in tutti i suoi aspetti.

Pace è l’unica parola che può toglierci dai guai. L’unica che può farci uscire da questa cappa di sospetto e di paura.»

(fonte)