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Caro Renzi, ora chiarisca una volta per tutte i suoi rapporti con l’Arabia Saudita

“Mi impegno a discutere i miei incarichi internazionali, ma dopo la fine della crisi di governo”. Parole, opere e solite omissioni del solito Matteo Renzi, pronunciate quando si infiammò la polemica per i suoi rapporti con l’Arabia Saudita. La polemica si infiammò quando si scoprì che il senatore di Italia Viva guadagna almeno 80mila euro all’anno per partecipare alle conferenze dell’FII Institute, un organismo controllato dal fondo sovrano saudita, e dopo la pubblicazione di un video in cui Renzi, di fronte al principe Mohammed Bin Salman, si ritrovava a magnificare un presunto “nuovo Rinascimento” di una nazione che secondo la Freedom House, un think tank americano di orientamento liberale, in un indice di libertà che va da 0 a 100 si ferma a 7 (la Russia di Putin, per dire, è a 20, l’Iran raggiunge 17, l’Egitto 21, l’Italia è a 89).

È la stessa Arabia Saudita che secondo Amnesty International detiene, tortura e giustizia migliaia di persone ingiustamente. La stessa nazione che nel suo consolato fece a pezzi l’editorialista del Washington Post Jamal Khashoggi nell’ottobre del 2018 su mandato (lo dice l’Onu) proprio del principe saudita Bin Salman, colui che paga profumatamente Renzi come testimonial.

La crisi politica è finita, ora si attende con ansia che il leader di Italia Viva risponda alle domande e ai dubbi dei giornalisti: “Prendo l’impegno di discutere con tutti i giornalisti in conferenza stampa dei miei incarichi internazionali, delle mie idee sull’Arabia Saudita, di tutto. Ma lo facciamo la settimana dopo la fine della crisi di governo”, disse Renzi nel pieno della polemica, con quel suo solito difetto di ritenere prioritarie solo le proprie priorità. Non è questo il momento?

E ha ragione il segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, quando scrive “è vero che Renzi ci ha abituato in questi anni a dire molte cose senza poi farle, dall’abbandono della politica se avesse perso il referendum fino al capolavoro del Mes, comunque noi rimaniamo in attesa della conferenza stampa sul Rinascimento Saudita…”.

Siamo qua, stiamo aspettando un chiarimento che è molto più “politico” di quello che si vorrebbe lasciare intendere poiché siamo curiosi di sapere cosa c’entri l’Arabia Saudita con il riformismo declamato da Renzi, cosa pensi del peso dei diritti umani in un Paese e come veda l’architettura fondamentale di una democrazia degna di chiamarsi tale. Senatore Renzi, lei che ama così tanto le luci della ribalta: i riflettori e i microfoni sono accesi, manca solo lei. Forza, coraggio.

Leggi anche: 1. Conflitto d’interenzi (di Giulio Gambino) / 2. Se Renzi vivesse in Arabia Saudita (di Selvaggia Lucarelli) / 3. Quel rapporto con il principe d’Arabia Saudita: la crociata di Renzi sui servizi ora diventa sospetta (di Luca Telese) 

L’articolo proviene da TPI.it qui

Il coraggio di chiamarsi perdenti

Ci pensavo oggi, un pensiero così, uno di quelli che ti vengono quando ti è scivolata di mano una grossa opportunità e tu non ci puoi fare niente, solo accettare il verdetto. Ti verrebbe voglia di scatenare l’inferno, di gridare al complotto o di uncinettare qualche magnifica storia per dipingere un sabotaggio. E invece no. Hai perso. Succede nella vita. Si perde, si vince. Si perde, soprattutto. E quando si perde pesa soprattutto il sogno di tutto quello che ti eri costruito presumendo la vittoria. Come se alla fine tu fossi il peggiore nemico di te stesso.

Eppure non c’è posto per i perdenti, qui. Tutti vincitori, oppure ben armati contro un nemico ben riconoscibile, tutti bravi a essere puntati contro un nemico ben definito. Non perdono mai, quegli altri. Al massimo vengono fregati, dicono loro. Così quando succede di perdere non sai nemmeno dove metterti perché l’unico spazio che ti è concesso è quello tra i falliti.

Bisognerebbe allenare il coraggio di chiamarsi perdenti, di dirselo dandosi del tu, guardandosi allo specchio: ho perso perché le regole del gioco mi hanno fatto fuori, ho perso perché probabilmente qualcuno meritava più di me.

È la vita vissuta come un enorme game (leggetevi il libro di Baricco se vi capita) dove tutto è punteggio, dove anche i fatti quotidiani diventano schermi da superare, nuovi livelli da raggiungere e dove perdere è considerato un peccato mortale.

Che bello che sarebbe il mondo se la gente ci scherzasse su, a una sconfitta, ci bevesse qualcosa ripromettendosi di fare meglio la prossima volta, vivendo invece fuori dal game e immaginando che l’esperienza sia quel pesantissimo bagaglio che contiene le nostre sconfitte e le nostre fragilità

E qualcuno che dice “ho perso” si merita un abbraccio più forte, perfino un abbraccio di consolazione. Senza classifiche, punti. Restando umani, davvero.

Buon lunedì.

L’articolo Il coraggio di chiamarsi perdenti proviene da Left.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2019/03/18/il-coraggio-di-di-chiamarsi-perdenti/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Il coraggio di chiamarsi perdenti

E qualcuno che dice “ho perso” si merita un abbraccio più forte, perfino un abbraccio di consolazione. Senza classifiche, punti. Restando umani, davvero.