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ciro pellegrino

Dunque un niente.

Nel cuore del mattino Ciro Pellegrino mi permette di scoprire una lettera di Franco Fortini che è il testamento di un’epoca, forse molto più ripetibile di ciò che si potesse temere.

Cari amici, non sempre chiari compagni; cari avversari, non invisibili agenti e spie; non chiari ma visibili nemici. Sapete chi sono. Non sono mai stato né volteriano né liberista di fresca convinzione. Spero di non dover mai stringere la mano né a Sgarbi né a Ferrara né ai loro equivalenti oggi esistenti anche nelle file dei “progressisti”. Non l’ ho fatto per mezzo secolo. Perché dovrei farlo ora? Nessuna “unità” anni Trenta. Meglio la destra della Pivetti.
Ognuno preghi i propri santi e dibatta con gli altrui. Tommaso d’ Aquino, Marx, Pareto, Weber, Croce e Gramsci mi hanno insegnato che la libertà di espressione del pensiero, sempre politica, è sempre stata all’interno della cultura dominante anche quando la combatteva. Tutt’intorno ai suoi confini, però, c’erano, lungo i secoli, miliardi di analfabeti, inquisizioni mistiche o, a scelta, grassi doberman accademici, reparti speciali di provocatori incaricati di picchiare i tipografi e distruggere i manoscritti.
Ci sono manuali per l’uso della calunnia nel management della comunicazione, lupare bianche, colpi alla nuca; o, nel più soave e incruento dei casi, la damnatio memoriae, il nome omesso o deformato, la associazione indiretta con qualche notorio cialtrone.
Ma ci sono momenti in cui il solo modo serio di dire “noi” è dire “io”. La prima persona, quel qualcosa che viene dopo la firma. Questo è uno di quei momenti.
Bisogna spingere la coscienza agli estremi. Dove, se c’è, c’è ancora per poco. Quando non si spinge la coscienza agli estremi, gli estremismi inutili si mangiano lucidità e coscienza.
Chi finge di non vedere il ben coltivato degrado di qualità informativa, di grammatica e persino di tecnica giornalistica nella stampa e sui video, è complice di quelli che lo sanno, gemono e vi si lasciano dirigere. Come lo fu nel 1922 e nel 1925.
Non fascismo. Ma oscura voglia, e disperata, di dimissione e servitù; che è cosa diversa. Sono vecchio abbastanza per ricordare come tanti padri scendevano a patti, allora, in attesa che fossero tutti i padri a ingannare tutti i figli. Cerchiamo almeno di diminuire la quota degli ingannati. Ripuliamo la sintassi e le meningi. Non scriviamo un articolo al giorno ma impariamo a ripeterci, contro la audience e i contratti pubblicitari. Diamo esempi di “cattiveria” anche a quei lavoratori che dai loro capi vengono illusi di battersi attraverso le strade con antichi striscioni e poi, nel buio della Tv, ridono alle battute dei pagliaccetti di Berlusconi.
Lungo canali di storica vigliaccheria mascherata di bello spirito i colleghi della comunicazione stanno giorno dopo giorno cambiando o lasciando cambiare i connotati dei quotidiani; in attesa che se ne vadano quei pochissimi direttori che non hanno già concordato o “conciliato”.
Quanto a me, solo l’ età mi scampa dal dovermi dimettere. Mai come oggi, credo, il massimo della flessibilità tattica del politico vero dovrebbe andar d’accordo con la rigidità delle scelte di fondo. Un modesto zapping basta a capire che è inutile declamare estremisticamente, come ora sto purtroppo facendo.
Bisogna dire di no; ma c’è qualcosa di più difficile e sto cercando di farlo: dire di sì in modo da non nascondere il “no” di fondo; se si crede di averlo e saperlo.
Pagare di persona, secondo le regole del finto mercato che fingiamo di accettare: ossia dimettersi o costringere altrui alle dimissioni, ritirare o apporre le firme e le qualifiche e il proprio passato, affrontare sulla soglia di casa o di redazione le bastonature fisiche o morali già in scadenza.
Anni fa scrissi, enfaticamente, che il luogo del prossimo scontro sarebbero state le redazioni. Quel momento è venuto, il luogo è questo.
Chi tiene famiglia, esca. Chi ha figli sappia che un giorno essi guarderanno con rispetto o con odio alle sue scelte di oggi.
Scade il primo semestre di chi ha preso il potere, come tanti altri, legalmente, coi voti di un terzo degli elettori, ossia giocando con la manovra della informazione e la debilità culturale ed economica di tanti nostri connazionali e, perché no, con la nostra medesima.
Cari amici, non sempre chiari compagni; cari avversari, non sempre invisibili agenti e spie; non chiari ma visibilissimi nemici, vi saluta un intellettuale, un letterato, dunque un niente. Dimenticatelo se potete.
Franco Fortini
Milano, 5 novembre 1994

L’equo Ciro e l’equo compenso per i giornalisti

Ciro Pellegrino è un giornalista campano che oltre a raccontare i fatti attraverso il giornalismo ha deciso di raccontare il giornalismo possibilmente compiendo fatti. Ha contribuito alla sensibilizzazione sull’annoso tema dei compensi (quando ci sono) ai giornalisti per pochi euro al pezzo che fanno la fortuna di troppi quotidiani e oggi riporta un piccolo storico passo sull’equo compenso per i suoi colleghi:

Considero fratello chi con me è stato nel fango del lavoro matto e disperatissimo, nel gorgo delle mortificazioni economiche, nel vortice di rabbia che ti prende perché vuoi che la tua vita, un giorno, prenda una strada diversa, una strada giusta, sostenibile. Sono tutte cose tristi. Ma ogni tanto qualche soddisfazione ci esce.

Oggi, martedì 4 dicembre 2012, è stata approvata la legge sull’equo compenso per i giornalisti. Siamo in Italia, parliamo di una legge italiana sui diritti ai lavoratori, parliamo di giornalisti italiani: capisco gli scetticismi. Ma questa legge dice che sotto un certo livello economico gli editori non potranno più scendere. È è la prima volta che una norma sancisce ciò. L’equo compenso dovrebbe essere un concetto di civiltà, non solo una legge per gli iscritti ad un Ordine professionale. Mi piace pensare a questo come il primo passo. Non sono il solo ad averci creduto, ovviamente. Sono la minima parte di un movimento d’opinione costituito dai coordinamenti dei giornalisti precari italiani (quello della Campania, gli Errori di Stampa, i Re:fusi, i Free CCP romagnoli, i precari del Friuli, quelli del Molise e chi più ne ha, ne metta), dall’Ordine dei Giornalisti – e penso a Enzo Iacopino e Fabrizio Morviducci – da una parte della Fnsi, il sindacato dei giornalisti (l’altra parte sinceramente non ha remato contro, semplicemente se n’è fottuta) e anche da parlamentari italiani che hanno sposato quest’idea.

Non so se riesco a far comprendere la mia soddisfazione: a 35 anni non avrei mai pensato di contribuire, seppur modestamente, a scrivere una legge dello Stato. Eppure l’ho fatto, l’ho fatto diffondendo una idea di fondo, quella che il giornalista è come tutti gli altri lavoratori. Non più “sempre meglio che lavorare”, niente “casta”. Ma lavoratori, con tanti doveri e responsabilità che tutti – lettori e colleghi – non cessano di ricordare ogni santo giorno. Lavoratori con qualche diritto fondamentale che non può, non deve essere esclusivamente legato all’esistenza di un contratto giornalistico, merce ormai rarissima e in mano a pochissimi fortunati. (Altro su: http://www.giornalisticamente.net/blog/#ixzz2E7wiUQw8).
Equo compenso

Chi racconta le mafie: cosa avrei voluto dire oggi ad Ercolano

Oggi avrei dovuto essere ospite ad Ercolano dagli amici di Radio Siani per il Festival dell’Impegno Civile. Non ci sono potuto andare. Ho mandato due righe. Ecco il testo del mio intervento:

Innanzitutto mi scuso per la mia assenza. Ci armiamo contro le mafie ma soccombiamo all’influenza, siamo fatti così. Mi spiace non potere spendere l’abbraccio che ho tenuto in serbo per Pino Maniaci e la nostra Telejato che può rivedere la luce e continuare a raccontare che la sfrontatezza delle mafie in quei territori ha bisogno di uno sfrontato coraggio quotidiano e sempre in diretta. E avrei raccontato a Ciro com’è difficile qui giù al Nord fare informazione senza i morti ammazzati in giro che aprano le pance e le teste.

Perché il titolo della tavola rotonda proposto dagli amici di Radio Siani “Chi racconta le mafie” mi ha subito posto la domanda: ma chi racconta le mafie? Sappiamo chi cerca di fermarle e arrestarle, sappiamo dove vengono giudicate, conosciamo i meccanismi legislativi che le rallentano (o le favoriscono) ma in questa nostra Italia chi racconta le mafie? I giornalisti, mi si dice. Non tutti, chiaro. Ma molti. E’ vero. Ci basta? Gli scrittori, mi ricordano, anche se poi di solito sono i giornalisti che decidono di prendersi la libertà senza i limiti di battute. Il cinema e il teatro, ogni tanto qualcuno si avventura. Il cinema e il teatro? Pochi pervenuti, forse sono poco attento io, e quasi sempre sono trasposizioni giornalistiche, del resto.

Ecco, in fondo, se fossi stato lì vi avrei annoiato moltissimo su un mio dubbio (mi ci sto arrovellando da qualche mese) che non abbiamo ancora capito bene come raccontarle in giro, le mafie. Dico per strada. Tra la gente. Nei bar. Nelle piazze. L’argomento mafie che entra prepotentemente nei pochi minuti di conversazione in una giornata tra colleghi, coinquilini, i fedeli, tra i mariti con le mogli, negli spogliatoi delle partite di calcetto del mercoledì o nei treni pendolari. Lì ci siamo arrivati? Perché abbiamo un esercito di ostinati in giro (dico, lì siete tutti degli ostinati dell’antimafia che mi rendono orgoglioso di essere vostro concittadino) ma la sensazione è che poi ad un certo punto quel filo cada e si perda. Esce stampato in pagina, diventa un servizio televisivo, si veste da scena teatrale e non riesce a scendere le scale che portano alla gente. Rimane arroccato tra pochi. Un’oligarchia dell’analisi, delle chiavi di lettura e della consapevolezza.

Diventiamo “pop” se ci succede qualcosa. Si va a vedere Cavalli per vedere l’effetto che fa il minacciato al Nord, si invita Pino a raccontare delle lettere anonime o si solidarizza con Ciro per la causa milionaria. E noi (io almeno sicuro, non so se capita anche a voi) a correre e faticare per infilarci tra le pieghe del voyeurismo  qualche concetto vero, qualche valore che non ha bisogno di azzardate temperature emotive, uno slancio di studio e di analisi. Altrimenti siamo tutti animali da tournée, come l’uomo lupo che arrivava nelle piazze qualche decennio fa. Rischiamo addirittura di essere rassicuranti. Se esiste Cavalli a Milano, Pino Maniaci a Partinico, Ciro nelle terre di Cosentino e tutti gli altri nei loro luoghi dove devono stare ecco, in fondo, sembra che possa bastare per sentirsi tutti più sicuri.

Mi spaventa pensare a Don Peppe Diana che era riuscito ad infilare la parola antimafia invece nelle borse della spesa di tutte le donne di Casal di Principe. Mi spaventa pensare a Placido Rizzotto che aveva trovato le parole giuste per farla diventare un’emergenza nei campi. Mi spaventa la potenza di Don Puglisi che è riuscito ad infettare di bellezza i vicoli e i sottoscala. La potenza non perché bellezza o intelligenza, la potenza nell’essere così virale, così grande, così forte eppure così semplice da diventare subito quotidiana. Ecco, quella potenza lì. Come facciamo ad armarcene?

Non avrei avuto la risposta, eh. Avrei fatto la domanda con un discorso un po’ più arzigogolato e dentro un po’ di ironia per lenire il caldo. Ma quella potenza lì, per favore, se oggi pomeriggio trovate anche solo un’idea di come possiamo ammalarcene fatemi sapere con urgenza.

Un abbraccio.

 

Il Casalese non ama i libri

Scritto per IL FATTO QUOTIDIANO

Nicola Cosentino (anzi, i suoi famigliari per la precisione) ha intentato una causa penale e civile agli autori e all’editore del libro Il Casalese – Ascesa e tramonto di un leader politico di Terra di Lavoro. L’accusa è di aver leso l’immagine dell’azienda di famiglia. Si chiede il ritiro del volume dalle librerie e un milione e 200mila euro di risarcimento danni. Quel libro (che oggi ancora di più vale la pena di leggere e comprare) è l’unica biografia non autorizzata dell’ex sottosegretario salvato dal servilismo bipartisan di un parlamento garantista con i potenti e macellaio con i poveri. Quel libro è il simbolo oggi del giornalismo che decide di scrivere il fatto che sarebbe meglio oltrepassare, di fare quel nome che porta solo guai e di non essere compiacente. Mai.

Scrive uno degli autori, Ciro Pellegrino, sul suo blog:

Sostanzialmente Cosentino (il fratello) ritiene che il libro abbia un «intento denigratorio» tale da far affermare coscientemente il falso ai giornalisti che l’hanno scritto. Nella richiesta di distruzione e risarcimento si citano una serie di vicende raccontate ne “Il Casalese”: vicende rispetto alle quali gli autori dei capitoli in questione sono pronti a confrontarsi e lo faranno, pubblicamente.

Due spaventi, dicevo. Ma non ho spiegato perché sono ottimista sulla seconda vicenda: perché l’angoscia che lorsignori possono arrecarci con fiumi d’atti giudiziari e risarcimenti milionari  è in parte compensata dalle tante domande durante le presentazioni, dalle mail dei ragazzi, dall’interesse verso quella che –  dotti medici e sapienti se ne facciano una ragione – è semplicemente un’inchiesta giornalistica.  Spero che quest’interesse cresca.

Già: nessuno di noi ha la presunzione di poter parare tutti i colpi che arrivano (e arriveranno). Per questo motivo mi (ci) scuserete se oggi anziché raccontare la notizia, la notizia siamo noi, i giornalisti autori del Casalese. E ci scuserete se chiediamo attenzione sulla nostra vicenda. Consapevoli del giusto diritto di chiunque a veder rettificati errori lesivi della propria dignità e reputazione, al tempo stesso altrettanto coscienti dell’onesto e diligente lavoro di documentazione e scrittura intorno a questo libro, non certo operazione commerciale né politica, visto che a editarlo è una piccola casa editrice di Villaricca, popoloso comune alla periferia Nord di Napoli, a cavallo fra il capoluogo  e il Casertano.

Ci scuseranno anche gli amanti dell’anticamorra-spettacolo: non siamo abituati, abbiamo fatto solo i giornalisti. Ma in Italia da giornalista a imputato il passo è breve, troppo breve.

Fuori dal Parlamento però, le carte e le ragioni non sono secretati. Per questo gli autori e l’editore hanno deciso di organizzare due eventi per dire a gran voce le proprie ragioni e sostenere le proprie tesi.

– Martedì 27 marzo, alle 9.30, a Napoli presso la sede dell’Ordine dei Giornalisti della Campania, in via Cappella Vecchia, 8. Oltre all’editore e agli autori, parteciperanno: Ottavio Lucarelli, presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Campania; Lucia Licciardi, consigliere dell’Associazione napoletana della stampa.

– Giovedì 29 marzo, ore 17, a Roma, presso la FNSI in Corso V. Emanuele II, 349 . Parteciperanno insieme agli autori il presidente della FNSI, Roberto Natale, e il presidente dell’Associazione napoletana della stampa, Enzo Colimoro.

Questa volta il dibattito è pubblico. E da pubblicizzare.

Quando un uomo non ha il coraggio di resistere alla corrente, di bandire apertamente la verità e di sostenere contro tutti, anche contro il proprio interesse, la giustizia, smetta la penna, perocché la audace e tempestosa milizia del giornalismo non è fatta per lui. Quando voi obbliate che lo scrittore, poeta o giornalista, esercita un sacerdozio, non un traffico, che a lui è principalmente affidato l’educazione e il miglioramento della società, che la civiltà d’un popolo sta in diretta ragione della moralità della sua stampa; quando obliate tutto ciò per l’aura d’un giorno, per la limosina d’uno scudo, allora lasciate anche che vi dica che non v’è opera nefanda che uguagli la vostra, e che io, Potere, vi rizzerei tutti quanti sopra una gogna, affinché le moltitudini conoscessero chi ha loro ritardato i giorni della rivendicazione della giustizia. (Giuseppe Guerzoni)