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cittadini

La rinocentite e la casta

In tempo di facilonerie e pancismi un articolo equilibrato, finalmente, di Alessandro Campi per Il Messaggero:

basta-castaPersino Maurizio Crozza – che è un grande professionista, ma rimane pur sempre un comico – alla fine ha riconosciuto che «forse stiamo esagerando». Sentire i presidenti delle Camere che all’unisono, appena eletti, annunciano in diretta televisiva di essersi ridotti lo stipendio (ma perché solo del 30%? perché non rinunciarvi del tutto?), leggere di un parlamentare grillino messo sotto accusa dai suoi colleghi per aver mangiato al ristorante di Montecitorio invece che alla mensa, tutto ciò dà il segno – ha sostenuto Crozza – di «una escalation assurda».

Se continua così, ha concluso fra le risate del pubblico, fra qualche tempo qualcuno si inventerà in televisione un’inchiesta-denuncia su un onorevole sorpreso a mangiare una brioche con crema all’autogrill di Roma Sud. Uno scandalo, ovviamente, visto che i parlamentari degli altri Paesi europei le brioche le mangiano vuote. E chi la paga la crema se non i poveri contribuenti italiani?

La verità, messa in luce da uno spettacolo satirico ma che si ha evidentemente paura di sollevare a livello di dibattito pubblico, è che la campagna mediatica contro la casta e gli sprechi della politica è sfuggita di mano a coloro che, nel corso dell’ultimo decennio, l’hanno meritoriamente promossa. Ma il loro obiettivo, apprezzabile dal punto di vista dell’impegno civile, era la riforma del sistema dei partiti, non la sua paralisi o peggio la sua distruzione.

Una riforma peraltro sostenuta da argomenti che ormai oscillano sempre più tra la demagogia e l’invettiva vera e propria. Nata per denunciare i costi oggettivamente esorbitanti delle assemblee rappresentative (centrali e periferiche) e in genere della macchina burocratico-istituzionale italiana, per mettere a nudo la corruzione dei singoli e i molti privilegi, diretti e indiretti, connessi allo svolgimento di ruoli e incarichi politici, tale campagna ha tuttavia finito per gettare una sorta di discredito generalizzato, un’ombra di sospetto permanente, su chiunque occupi uno scranno o svolga una funzione di governo, avallando implicitamente l’idea che la politica sia in sé un affare sporco.

Il trionfale ingresso di Grillo e dei suoi seguaci nelle aule parlamentari è in gran parte da attribuire proprio a questo sentimento collettivo, che da anni è largamente ostile alla politica e ai suoi attori tradizionali. Sentimento che Grillo – un Savonarola nell’epoca dei social network – ha capitalizzato, accomunando destra e sinistra in una condanna senza appello.

La sua vittoria ha spinto tutte le altre forze politiche, frastornate e impaurite, ad assecondarlo a costo di sfondare il limite del grottesco. Tutto, ivi comprese le trattative politiche più riservate e delicate, deve essere reso trasparente e accessibile. Ogni atto o parola deve essere ripreso in video e sottoposto al giudizio del pubblico. Ogni spesa, ivi comprese caramelle e penne a sfera, deve essere documentata scontrino alla mano.

Non c’è competenza o carriera professionale, non c’è funzione o incarico, per quanto delicato e prestigioso, che possa giustificare uno stipendio o una pensione che offenda l’amor proprio (o stimoli l’invidia sociale) di un pensionato, una casalinga o uno studente fuori corso. Tutti – purché cittadini – possono occuparsi di tutto e svolgere qualunque mansione, in omaggio all’idea che le istituzioni funzionano in virtù della volontà e dei desideri di chi momentaneamente se ne appropria, non delle conoscenze tecniche di chi opera stabilmente al loro interno.

Ma non basta. Ogni esperienza politica pregressa, aver già ricoperto un incarico pubblico o un mandato politico, è da considerarsi con sospetto, in una versione aggiornata e un tantino ridicola del delirio rivoluzionario che nella Cambogia degli anni Ottanta spingeva i seguaci di Pol Pot a deportare nelle campagne o eliminare chi indossava un paio di occhiali o possedeva un titolo di studio, e a consegnare il potere ai fanciulli.

E guai naturalmente a farsi vedere in un ristorante del centro, meglio recarsi a piedi in Parlamento, tutti a chiedere di tagliare: stipendi, province, rimborsi, numero dei deputati e dei senatori, auto blu, scorte, appannaggi, pensioni, in una gara nella quale il qualunquismo travestito da morigeratezza sembra superato solo da un’ipocrita insipienza.

Per chi si ricorda di Ionesco e del teatro dell’assurdo, sulla scena politica di queste settimane sembra essersi realizzata la trasformazione di milioni di italiani – ivi compresi opinionisti eccellenti e politici di lungo corso – in rinoceronti impazziti che caricano senza risparmiare nulla, mossi dallo spirito di rivalsa e dal desiderio di fare tabula rasa.

La “rinocerontite”, come la chiamava il drammaturgo romeno, sembra aver colpito la maggioranza e si va diffondendo come un virus. E l’unico che abbia sin qui avuto l’ardire (e il buon senso) di opporsi a questo delirio febbrile sembra essere stato Crozza, un uomo di spettacolo ma per sua fortuna ancora politicamente pensante.

La bellezza come senso di appartenenza

Architettura è quel che ci sta intorno. Noi – come tutti quanti – ci passiamo la vita dentro. (Louisa Hutton)

2vv5nhjUn articolo di Antonio Monestiroli su Repubblica che lascia una visione “politica” della bellezza, delle città, dell’urbanistica:

IN QUESTA confusione è necessario che ogni cittadino, prima di pensare di non essere all’altezza di giudicare, si faccia forte della propria esperienza. Affidarsi alla propria esperienza vuole dire giudicare i nuovi edifici allo stesso modo in cui giudichiamo i vecchi e cioè rispetto alla loro utilità e bellezza. L’utilità tutti sanno cosa è, la bellezza meno. Anche se c’è un modo molto semplice di definire la bellezza di un edificio: considerarla l’espressione della finalità dell’edificio stesso, che va oltre la sua utilità immediata, che pure è importante, che riguarda il suo significato culturale. Per capirci meglio pensiamo a un edificio straordinario come il Duomo di Milano, molto amato dai milanesi non solo per il suo aspetto esteriore, ma per il suo magnifico interno. Io credo che sia proprio la forma del suo interno a essere espressiva di un’idea di comunità che già appartienea tuttie che quando viene riconosciuta in un luogo dà un senso di pace e di benessere. Tutti gli edifici ben costruiti provocano in noi un’emozione: nei grattacieli è l’orgoglio della costruzione a provocarla, nella casa è il senso di appartenenza a un luogo. Ma perché questi nuovi e ingombranti edifici costruiti a Milano non provocano alcuna emozione? Il perché va cercato nelle premesse alla loro costruzione: la loro finalità non è quella di essere espressivi di alcunché ma quella di essere attraenti, qualità questa che per l’architettura è nefasta. Oggi i cittadini pagano il prezzo di una scarsa competenza dei progettisti che hanno lavorato a Milano, di una certa assenza dell’ amministrazione pubblica negli anni passatie di una ingiustificata libertà d’azione degli imprenditori, che hanno dimostrato di non avere alcuna attenzione per la città in cui hanno operato.

(Grazie a Daniele per la segnalazione)

E non è cambiato niente mai, e la disperazione ha preso il cuore di mi­lioni di cittadini, e io questo posso scriverlo onestamente perché la di­sperazione ancora non mi ha vinto.

Per non avere la memoria a corrente alternata ma una resistenza elettrica e continua, oggi ho ritrovato un pezzo di Pippo Fava. Era il 1975. Dovevo nascere due anni dopo. E può tornare utile rileggerlo per uscire dalla stucchevole polemica su alleati e alleanze di questi giorni:

Mi volete spiegare perché un uomo, un cittadino che da anni vede gli enti pubblici gonfiarsi di racco­mandati, le­noni della politica, imbro­glioni, gabel­loti dei partiti, e vede l’amministrazio­ne onesta paralizzata dalla faida di po­tere a tutti i livelli, e vede le opere pubbliche boicottate e annientate dalla paura che ogni uomo politico nutre ch’essa opera pubblica possa servire al concorrente, e vede i quartieri della città trasformati in lan­de di scorreria per teppisti d’ogni età; perché quest’uomo cittadino che pos­sibilmente è anche povero e galantuo­mo e non riesce a trovare lavoro one­sto, e vede i raccomandati, i lacché, i vassalli poli­tici scavalcarlo continua­mente negli esami, nei concorsi, nel diritto civile alla vita; quest ‘uomo che magari è stato ricoverato una vol­ta in ospedale o vi ha condotto un fi­glio o un padre, e ha visto i topi cam­minare sotto i let­ti, e gli esseri umani agonizzare per­ché mancava un litro di sangue, men­tre duemila, tremila impiegati politici divorano ogni mese miliardi di pubbli­co denaro, quest’uomo povero, fiducioso, perseguitato, che per anni e anni ha votato per la democrazia acca­nendosi a sperare che da una settima­na all’altra, da un anno all’altro, tutto potesse cambiare, e infine ha fanatica­mente votato fascista per esprimere la sua disperazione e nemmeno allora è successo niente, nessuno ha raccolto il monito drammatico.

Perché quest’uomo così ridotto e fe­rito come essere vivente e come cit­tadino ora, in questa occasione eletto­rale, non do­vrebbe votare comunista?

E così per anni e decenni, per mesi e per giorni, e per infinite occasioni, in­finite illusioni e speranze, gli italia­ni (e i catanesi) hanno perdonato e re­stituito la fiducia, e nutrita la speran­za che tutto stesse veramente per cambia­re.

E non è cambiato niente mai, e la disperazione ha preso il cuore di mi­lioni di cittadini, e io questo posso scriverlo onestamente perché la di­sperazione ancora non mi ha vinto.

(21 giugno 1975)

Glocali per superare la Lega

A differenza del localismo di stampo leghista questa attenzione alle identità locali è aperta allo scambio, anzi vuole mettersi in relazione con tutte le altre: della città, del Paese, dell’Europa, del mondo. Si definisce non solo attraverso la storia e la memoria (il “come eravamo”) ma attraverso le trasformazioni sociali di cui è il risultato, perché in ogni momento l’identità di un luogo, di una comunità, di un popolo è provvisoria e dinamica. Ed è inclusiva: pretende riconoscimento reciproco, rispetto e dignità per ogni membro della comunità, e considera gli immigrati nuovi cittadini che concorrono alla nostra vita sociale e alla nostra ricchezza materiale e culturale. Fa piacere leggere cose così.

Smascherare i partiti

Il nostro obiettivo è abolire la “porcata” (così definita dallo stesso ideatore della legge, il ministro Calderoli): l’aspetto più odioso di questa legge è il suo togliere ai cittadini la possibilità di scegliere i propri rappresentanti. Ma è da rigettare anche quel premio di maggioranza, che così com’è appare una vera e propria truffa, e che senza una soglia minima è tra l’altro ai limiti di costituzionalità. Arianna Ciccone e gli amici di Valigia Blu sono chiari: rivolgerci ai partiti, tutti, e prima di tutto certificare le loro intenzioni di cambiare questa legge (sarebbe già un primo passo, e in questo senso il PD ha dato chiare indicazioni). Il passo più importante sarà chiedere ai partiti, qualora fossimo costretti a votare con la legge porcata, di coinvolgere i cittadini nella composizione delle liste elettorali. Fare scegliere agli iscritti attraverso primarie a tutti i livelli. E io sono molto curioso. Non perdeteli di vista.

[Comunicato stampa] Bloccata la data del 23 aprile a Lodi dello spettacolo “Diluvio Universale” di De’ Giorgi, ecco perchè:

GIANPIERO FIORANI BLOCCA LA RAPPRESENTAZIONE A LODI DI UNO SPETTACOLO TEATRALE SULLA VICENDA ANTONVENETA/BANCA POPOLARE E DIFFIDA L’ATTORE GIULIO CAVALLI, ORGANIZZATORE DELLA SERATA

Lodi, 15 aprile 2009 – La decisione dell’attore e regista Giulio Cavalli di organizzare a Lodi la rappresentazione dello spettacolo teatrale “Previsioni meteo: diluvio universale – the rise and fall of Gianpy” di Eugenio de’ Giorgi, scatena le ire di Gianpiero Fiorani, che tramite i suoi legali diffida Giulio Cavalli dal dare corso alla rappresentazione e successivamente, non avendo ottenuto quanto richiesto, comunica di vedersi “costretto ad agire per ottenere il risarcimento degli ingentissimi danni che derivano dalla denunciata situazione di illiceità”.

Lo spettacolo, che era atteso a Lodi per il 23 aprile, è tratto dal libro Capitalismo di rapina di Paolo Biondani, Mario Gerevini e Vittorio Malaguti, (ed. Chiarelettere 2007) e ripercorre le tappe della scalata Antonveneta, la storia quotidiana fatta di corruzioni, manovre losche e intercettazioni imbarazzanti dei furbetti del quartierino.

Fiorani stesso, tramite legali, fa sapere che “è francamente sconcertante che, essendo in corso il processo relativo all’accertamento dei fatti si possa ritenere civile e legittimo rappresentare quanto accaduto in modo distorto, danneggiando così non solo persone a tutt’oggi innocenti, ma soprattutto il lavoro delle istituzioni”. In seguito alla lettera di diffida di Fiorani a rappresentare lo spettacolo, è stata ritirata la disponibilità della location lodigiana prevista per la messa in scena, mossa che ha riconosciuto implicitamente a Fiorani il potere non solo di sopprimere uno spettacolo teatrale, ma anche di minare le forme dell’informazione stessa.

Un atto spiacevole quello di Fiorani nei confronti di Giulio Cavalli, che rappresenta un gesto di intimidazione per impedire che i cittadini lodigiani possano liberamente assistere ad uno spettacolo che si propone, attraverso materiali documentari, solo di fare informazione. Atto gravissimo e paradossale, considerato che lo stesso spettacolo è già stato rappresentato su Milano nel gennaio del 2009. A questo proposito scrive l’avvocato Pietro Gabriele Roveda, legale di Giulio Cavalli: “lo spettacolo “Diluvio Universale” è stato in scena a Milano presso il Teatro Olmetto dallo scorso 12 gennaio 2009 e non risulta che l’Autorità Giudiziaria sia intervenuta ad inibirne la rappresentazione. In merito alla possibilità che la messa in scena possa turbare il corretto svolgimento dell’attività processuale in corso, la decisione spetta unicamente all’Autorità Giudiziaria procedente, a cui il dr. Fiorani può indirizzare le proprie doglianze. Sommessamente rilevo che, per quanto si apprende dalla stampa, il dr. Fiorani è coinvolto in processi – in corso – anche presso il tribunale di Milano, che non ha ritenuto di bloccare le rappresentazioni in quella città. Per quanto attiene al merito dello spettacolo il dr. Fiorani potrà rivolgersi direttamente all’autore, pure se lo stesso spettacolo è la trasposizione fedele del libro “Capitalismo di rapina” (Biondani – Gerevini – Malagutti; ed Chiarelettere 2007), e riguarda quindi fatti già pubblicati.”

Ha dichiarato l’attore Giulio Cavalli:  “La vicenda esonda dal merito di questo spettacolo nello specifico: qui si tratta di dover ribadire il diritto di rappresentare con il mezzo teatrale una vicenda nel cuore stesso della città in cui è nata. Il diritto di opinione (sia essa sulle colonne di un giornale o su di un palcoscenico) non è un rebus da giocarsi tra me e il dr. Fiorani ma molto più banalmente un diritto sancito dall’articolo 21 della Costituzione; proprio per questo lo rivendico con forza e convinzione. Lo stesso diritto che eserciteranno i cittadini spettatori nell’applaudire o criticare la rappresentazione. Nonostante il mio “religioso” attaccamento al teatro come forma di opinione mi sorprende che una semplice rappresentazione possa addirittura diventare  d’intralcio per le istituzioni. Le prenotazioni ricevute, il sostegno dimostratomi e soprattutto il neonato comitato organizzatore formato da diverse associazioni del territorio che gestiranno con noi la realizzazione della serata, dimostrano l’esigenza che lo spettacolo di De’ Giorgi sia visto e giudicato anche a Lodi. Sono comunque pronto a bloccare la realizzazione dello spettacolo nel caso in cui l’Autorità Giudiziaria (e non certo il dr. Fiorani) dovesse ritenerlo opportuno.”

L’organizzazione dello spettacolo (curata da Associazione culturale Adelante!, Associazione culturale Bottega dei Mestieri Teatrali – Teatro Nebiolo, Associazione culturale Casa del Popolo, Centro Documentazione Teatro Civile, Circoscrizione locale dei soci di Banca Etica della provincia di Lodi, Laboratorio per la Città, Legambiente Lodi, Punto Informativo Finanza Etica, Rete Lilliput-Nodo di Lodi) comunicherà nei prossimi giorni la nuova data e il luogo (per cui è stata fatta richiesta al Comune di Lodi).

Ufficio Stampa Giulio Cavalli
Alessandra Depaoli
3477519671 aledepaoli78@gmail.com

Plenilunio d’acqua. Favola acquatica in atto unico.

E la canzone dell’acqua
è una cosa eterna.
È la linfa profonda
che fa maturare i campi.
È sangue di poeti
che lasciano smarrire
le loro anime nei sentieri
della natura.
Che armonia spande
sgorgando dalla roccia!
Si abbandona agli uomini
con le sue dolci cadenze.
Il mattino è chiaro.
I focolari fumano
e i fiumi sono braccia
che alzano la nebbia.
Ascoltate i romances
dell’acqua tra i pioppi.
Sono uccelli senz’ala
sperduti nell’erba!
Gli alberi che cantano
si spezzano e seccano.
E diventano pianure
le montagne serene.
Ma la canzone dell’acqua
è una cosa eterna.
(F.G. Lorca)

C’è una favola, una favola leggera sull’acqua che si intitola semplice “plenilunio d’acqua” e che la ritroveranno solo chissà fra quanti anni magari dentro una bottiglia di plastica tutta accartocciata. Perche fra chissà quanti anni qualcuno, magari qualcuno di molto importante, farà due conti in piazza un pomeriggio che ci saranno quasi tutti, e si riuscirà a dirlo forte che quella bottiglia accartocciata, che finisce accartocciata come tutte le bottiglie accartocciate negli angoli accartocciati del mondo, ecco lì in piazza (ma sara fra chissà quanti anni) si sentirà dire che quella bottiglia accartocciata e il camioncino che l’ha portata fin lì costano una fatica cento volte per l’acqua che c’è dentro. E allora la favola conviene cominciare a raccontarla adesso, mentre portiamo bottiglie accartocciabili di qua e di là senza preoccupazioni su e giù per il mondo, mentre usiamo per lavarci i denti gli stessi secchi d’acqua che in qualche angolo accartocciato e assetato del mondo basterebbero a tutta una famiglia per tutto un giorno, mentre ci occupiamo che il balcone sia in pendenza giusta per imbucare bene e presto la pioggia dentro i tombini. Perché poi magari succede come per tutto che l’acqua diventa una preoccupazione e la favola si avvera, e quando sono preoccupati si sa che la gente la prima cosa che smette di fare è ascoltare le favole:
C’era una volta uno stagno, uno stagno pulito, areato, con un bel sole di giorno e un’arietta fresca che lo accarezzava la sera, e dentro un’acqua così chiara e così fresca che ti viene sete anche solo a raccontarla. Nello stagno ci abitavano quattro famiglie di rane e ogni tanto di passaggio ci veniva per le vacanze un fenicottero e delle zanzare. La giornata era la tipica giornata come succede in tutti gli stagni del giorno: al mattino a sciacquarsi bene tra le zampe e sotto al gargarozzo nell’angolo a destra dove le mamme insaponavano i più piccoli, a mezzogiorno tutti insieme a cucinare in umido nell’angolo a sinistra che stava sotto l’ombra comoda degli alberi sull’argine, al pomeriggio ci si rincorre sulle foglie che galleggiano in tutto quello spazio in mezzo e poi la sera ognuno tornava a casa con i fratelli e i genitori nella propria casa di canneto. E le case di canneto erano così larghe e lunghe che ci avrebbero dormito in ognuna quasi cento rane sdraiate per il lungo. Un giorno una rana che voleva diventare sindaco convocò una riunione e prese un megafono di erba
–    Cari cittadini! (disse con la voce erbosa e megafona che rimbalzava sull’acqua) noi stiamo bene qui nel nostro stagno che tutti ci invidiano, questo lo so bene, ma io voglio farvi un regalo ancora più grande per stare più comodi e poterci stendere per il lungo nelle nostre case non cento ma quasi mille rane stese per il lungo. Ieri una zanzara mi ha parlato dei suoi viaggi sopra all’umido nel suo giro di mezzo mondo! C’è non lontano da qui, al massimo a mille salti da qui, uno stagno molto più grande del nostro, con un’acqua fresca che è azzurra come è azzurro l’angolo della bocca delll’airone. E gli orli di quest’acqua sono fatti di schiuma. Lì potremmo avere tanto spazio che ognuno di noi avrebbe un giardino fuori dalla porta grande come questo stagno! Venderemo il nostro stagno e ci compreremo una mare!
–    Evviva!
Gridavano tutti, tutti tranne il vecchio Ranonnno, che a lui questa storia proprio non lo convinceva. Il vecchio Ranonno ne aveva già viste di storie che partivano con il sogno di un lago e finivano nel buco del lavandino.
Il giorno dopo arrivò un contadino con un cappello rotondo di paglia sulla testa. La rana che voleva diventare sindaco gli aveva venduto l’angolo basso per piantarci del riso da risotto. E ci martellò nell’angolo una recinzione di un ferro mezzo verde ma tutto arrugginito cha faceva lì vicino un’acqua che sapeva di ferro come gli sciroppi per la tosse.
–    Non preoccupatevi! Disse alle quattro famigli la rana che voleva diventare sindaco e comprarsi un pezzo di mare – basterà stringerci un po’ durante la colazione!
Poi il giorno successivo arrivò un tubo. Sì proprio un tubo, di quelli arancioni e di plastica che a guardarlo con occhi da rana sembrava una galleria arancione ma senza la montagna sopra. La rana che voleva diventare sindaco e comprarsi un pezzo di mare aveva venduto l’angolo a destra dove le mamme insaponavano i piccoli ad una fabbrica che stava poco lontano e cominciò a sputare fuori dalla galleria a forma di tubo un’acquetta tutta solida che faceva una macchia bianca e tutta gommosa. E le rane a nuotarci vicino avevano un mal di pancia peggio di un’indigestione di cachi.
–    Non preoccupatevi! Disse la rana che voleva diventare sindaco e comprarsi un pezzo di mare. – basterà che una famiglia delle quattro si trasferisca un paio di giorni, una settimana al massimo, per racimolare i soldi che ci servono per firmare il contratto e comprarci il mare!
Venne deciso che la famiglia che doveva traslocare era quella del secondo canneto alla foglia numero tre, perché avevano sette figli e occupavano molto spazio. Al mattino quando partirono con tutte quelle valigie e scatoloni tutti legati nello stagno si alzò una nebbiolina leggera di tristezza che non si era mai vista e rimase incastrata tra la macchia gommosa del tubo e la recinzione di mezzo ferro per tutte le settimane dopo. Adesso però c’era un fastidioso problema: l’acqua che sapeva così tanto di acqua ormai piano piano cominciava ad avere un sapore dolciastro, a volte u po’ amarognolo e con una punta di carciofo. Le famiglie decisero che era proprio da ridere stare tutto il giorno in un’acqua che non sapeva di acqua, che rimbalzava come la gomma e arrugginiva come il ferro.
–    Non preoccupatevi! Disse la rana che voleva diventare sindaco e comprarsi un pezzo di mare. – traslocheremo per qualche giorno, al massimo una settimana, la famiglia del canneto all’ombra e chiederemo al fenicottero di portarci dell’acqua a forma di acqua e al sapore di acqua dallo stagno vicino, in cambio di una sua piscina personale nell’angolo all’ombra! Per noi ci basterà per qualche giorno, una settimana al massimo, smettere di giocare alla rincorsa sulle foglie e aspettare di comprarci il nostro mare!
E così fu fatto. Altre valigie e scatoloni per la famiglia della famiglia del canneto all’ombra, fazzoletti bianchi alla stazione per i saluti con il fenicottero felice che portava acqua e avvitava il trampolini nella sua piscina recintata. E la nebbia incastrata della malinconia che sapeva di gomma e ferro si faceva sempre più densa. Così dopo una settimana le due famiglie che erano rimaste, e la rana che voleva diventare sindaco e comprarsi un pezzo di mare e Ranonno vivevano un po’ più stretti e inciampevoli nello stagno che una volta era pulito, areato, con un bel sole di giorno e un’arietta fresca che lo accarezzava la sera, e dentro un’acqua così chiara e così fresca che ti viene sete anche solo a raccontarla. Ma erano anche speranzosi che da lì a poco avrebbero abitato in un pezzo di mare tutto per loro. Solo il Ranonnno non era speranzoso, perché ne aveva già viste tante di storie che dovevano essere un lago e invece finivano nel buco del lavandino.
Finchè un lunedì mattina la rana che voleva diventare sindaco non disse che ormai si era vicini alla meta. Disse che mancava poco per definire il contratto del pezzo di mare, e con gli occhi che brillavano raccontò che il martedì sarebbe arrivata la balena che aveva comprato un bel pezzo di stagno per passarci le vacanze. Perché si sa che le balene hanno la testa tanto grossa che dentro ogni tanto rimbalzano delle idee che sono proprio strane.
–    Una balena? Ma non ci staremo mai! Dissero le due famiglie rimaste. Ma come faremo? Dovremo ammucchiare tutti i nostri mobili e le nostre cose in angolo come i sacchi della spazzatura?
Questa storia della balena proprio non li convinceva. La rana che voleva diventare sindaco provò a convincerli, ma non c’era proprio modo di farglielo capire. Le due famiglie fecero i bagagli e salirono sul primo treno.
–    Meglio così! Pensò la rana che voleva diventare sindaco e comprarsi un pezzo di mare. – sarò da solo tra le onde e starò largo come un re!
Anche il Ranonno fu la volta che andò via. prese il suo vecchio bastone e quei quelle quattro camicie che stavano nell’armadio e passò a salutare la rana che voleva diventare sindaco. Tirò fuori un foglio chiuso in quattro con un bollo di ceralacca e si raccomandò di aprirlo solo dopo l’arrivo della balena.
Il martedì la balena arrivò, con le sue sedici valigie e quattro cappelliere, che era ancora mattina presto. La rana che voleva diventare sindaco e comprarsi un pezzo di mare si mise nel suo angolo di stagno che ormai le era rimasto e che era piccolo come un fazzoletto piccolo e puzzolente come una schiuma puzzolente. La balena sistemò bene uno a uno tutti i suoi vestiti (quelli della festa, quelli per il tennis, quelli lavoro e sette vestaglie per la notte), poi indossò un costume giallo nuovo che aveva comprato per l’occasione e si tuffò con un tuffo a bomba nel suo nuovo pezzo di stagno in affitto. La rana che voleva diventare sindaco (che era ormai da sola a guardare la scena) dovette subito ritirare le zampe da quanto la balena le atterrò vicino e in quel momento pensò che è senza senso stare stretti in uno stagno in cui si è soli. Ma pensò al suo pezzo di mare e la tristezza per un secondo passò. Poi la balena si immerse sotto il velo d’acqua dello stagno, fece un respiro profondo e spruzzò con un fischio una torre d’acqua così alta che sembravano tre grattacielo uno in testa all’altro. E lo stagno cominciò veloce a svuotarsi; rimanevano le fogli e quei secchi dei rami secchi. E il grattacielo d’acqua continuava e diventava sempre più alto e il fischio sempre più fischio. E nello stagno oramai cominciava a vedersi il fondo fangoso e le cantine dei granchi e i chiodi del recinto che sapeva di ferro e il buco nero della galleria arancione a forma di tubo. Finchè lo spruzzo si spense, il fischio sfischiò un momento prima di spegnersi e la balena con il costumino nuovo all’asciutto cominciò a strepitare e ad urlare come un bambino inciampato. Poi si sistemò la frangia e continuando a a tutto volume disse alla rana che era stata truffata, che non avrebbe pagato e che anzi se l’avesse presa gliel’avrebbe fatta pagare.
La rana che voleva diventare sindaco e comprarsi un pezzo di mare cominciò a saltare tutta storta e spaventata per scappare dai passi della balena che cominciava ad arrivare e saltò più forte del forte che sapeva tutto il pomeriggio e poi tutta la sera fino al mattino dopo tra gli alberi, le montagne e la neve e il deserto, correva così forte e così tanto che pensava quasi di aver fatto mezzo giro del mondo. Al mattino sola, stanca e senza più nemmeno un fazzoletto a forma di stagno dove stare e senza le sue cose che erano rimaste nell’armadio asciutto trovò un ruscello, un torrentino che veniva da nessuna parte e non andava da nessuna parte. E fu triste a pensare che alla fine il suo mare aveva quella forma di ruscello timido e magro. E fu triste a pensare come si sta soli in un ruscello da soli e com’era triste aver traslocato gli amici.
In tasca aveva solo il foglietto del vecchio Ranonnno, che di tutta questa storia non era mai stato convinto perché ne aveva viste tante finire nel buco del lavandino. La rana che voleva diventare sindaco e comprarsi un pezzo di mare fu felice che almeno qualcosa era riuscita a portarsela via e seduta nel torrente che le arrivava alle ginocchia aprì la ceralacca. Dentro c’era un proverbio degli indiani Sioux Teton d’America e diceva:
Una rana non s’ingozza mai di tutta l’acqua dello stagno in cui vive.

RADIO MAFIOPOLI – Terza puntata: Questa Cosa (Nostra) non è un albergo

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Comunicato sindacale della redazione di Radiomafiopoli: a seguito di recenti informazioni pervenute presso la nostra redazione da Partinico circa le presunta fuitina non protetta di un nipote Fardazza, episodio che va ad aggiungersi ad altri paventati congiungimenti carnali avvenuti negli ultimi giorni, il comitato dei giornalai di Radiomafiopoli chiede con forza a tutti gli amici degli amici e in particolare ai rappresentanti dei sindacati della Cipielle, Cifl, Cosa Nostra, Camorra e gli aiutanti di Babbo Natale di porgere maggiore attenzione al palinsesto delle trasmissioni per un miglior coordinamento. Già in una nostra puntata precedente ci eravamo dedicati al mistero sacro della perpetuazione della specie ed eventuali spargimenti di seme fuori tempo rischiano di minare la nostra credibilità. Raccomandiamo quindi ai nostri protagonisti di inviarci mezzo fax o posta elettronica i programmi futuri evitando possibilmente segni di difficile interpretazione sui muri. Certi di una vostra risposta e di un’eventuale lettera ai Corinzi continuiamo ad essere disposti ed esposti a quella solita omertà che tiene orgogliosamente alto il nome di Mafiopoli nel mondo. Grazie. Ora proseguiamo con le nostre trasmissioni. Riassunto delle puntate precedenti: Mafiopoli è una ridente cittadine sulle rive del ponte dei sogni. I cittadini sono tutti felici. La mafia non esiste e tutto il resto è noia.
RADIOMAFIOPOLI PUNTATA NUMERO 3: QUESTA COSA (NOSTRA) NON E’ UN ALBERGO
C’è un’aria elettrica oggi a Mafiopoli per la manifestazione annuale delle mogli dei mafiosi mafiopolitani contro il rincaro della benzina e dei latticini, che pesano enormemente sul bilancio della famiglia (quella minuscola e quella maiuscola) per tutto questo via vai dei zampettanti latitanti da una casupola all’altra. Giù a Mafiopoli è pieno di casupole in mezzo ai campi, in mezzo ai campi di tabacco, in campi di finocchietto, in campi di riso, in periferia, in centro, nei montecitori e quando vengono quelle belle piogge monsoniche perfino nei palazzi di giustizia. Sono la particolarità del posto, come i nuraghi in Sardegna, i craponi all’isola di pasqua e gli ingressi dal retro delle banche popolari di lodi in Lombardia. E le donne a casa a soffiare sul focolare domestico s’intristiscono, con la tristezza tipica dell’arancino con il riso scotto, perché i mariti braccati e bracconieri non hanno più orari, casupolano di baracca in baracca, hanno la gotta da ricotta e corteggiano capre. Una vita d’inferno, quella delle mogli del latitante che non è ancora stato eletto in Pirlamento. I mariti escono a comprare le sigarette e tornano tra trent’anni e loro, femmine dolci e sevizievoli, ci tocca da sole controllare la posta (tra bollette, raccomandate, pizzini sputati e teste di cavallo), allevare i figli (con il fondo mutualistico del Mafinps), mandarli a scuola e fare tutte le settimane le prove di punciuta per il saggio di fine anno.  Poi è normale che quando i nostri pendolari tra casupole e riformatori residenziali tornano a casa, si apre un meraviglioso pantagruelico abbraccio delle donne pazienti. Per il prossimo 15 ottobre all’apertura delle gabbie per Michele Ditale, ad esempio,  è stata prenotata una torta di panna e alici a forma di bombola a gas, e il comitato di benvenuto (coordinato dalla Fardazza Eventi SPA) ha noleggiato quattro ballerine nane, quindici clown e l’almanacco del buon mafiopolitano, e i filmini pistoleri e un po’ spinti di quel maialino di Leoluca Barbarella. Ogni volta che un mafiopolitano torna a casa è un’esplosione di gioie e di colori, di sentimenti e di un paio di auto e i fuochi di artificio sfrizzano felici per le vie di Mafiopoli. Per questo tira e molla dell’amicizia e dell’onore. Totò o ‘curtu tornerà anche lui finalmente a casa tra 177 anni finito il castigo e a Corleone gli stanno preparando una festa che se la scriveranno sui calendari: una bella urna tutta diamanti e cannoli della pasticceria Vasa Vasa. Ma il fuoriclasse del vado e torno era stato il portafortuna di Mafiopoli Andrea Otti, l’elfo gobbetto e occhialuto che portava fortuna a tutti. Che gli lisciavi la gobba e improvvisamente tutto andava bene e meglio e ti si apriva una corrente democricchiana in famiglia. Andrea Otti era per mafiopoli quello che Babbo Natale è stato per la Coca Cola, quello che l’uva è per il vino, come l’acqua per la terra: Andrea Otti era la statua della libertà sul lungomare di Mafiopoli. Dove camminava crescevano petali di rosa, dove parlava non c’era mai un testimone, dove passava tutti i picciotti in festa canticchiavano come nel Mago di Oz. Un tripudio. Poi un giorno arrivò la sagra con tutti i santi in colonna e tutti i mafiopolitani sapevano che Andrea Otti con quella sua gobba avrebbe portato una fortuna perenne alla città e a tutti i suoi cittadini con quella sua gobba di fata. Perché Andrea Otti era eterno, ce l’aveva scritto sulla scadenza dell’etichetta pinzata agli occhiali e infatti era indistruttibile come il guscio Meliconi.
Ma un giorno (un giorno triste che era nato subito dopo cattivi auspici dopo che Pippadauro aveva azzeccato un congiuntivo) Andrea Otti girò i tacchi, si svitò la gobba e se ne partì. Senza dire niente. Senza neanche uno di quei suoi bei baci bavosi che dava per sbaglio. Neanche una telefonata agli amici più cari. E a Mafiopoli scese la tristezza più cupa. E tutti soffrivano, anche il suo amico Salvo soffriva come un cane. Che l’avevano dovuto abbattere.
“tornerà, tornerà!” gridava il Principe Chiaccavellico durante l’inaugurazione del nuovo ponte da Messina a Bogotà. “tornerà! Come tutti i mafiopolitani seri e certificati! State tranquilli! È solo un momento di mestruazione, un secondo di prescrizione e poi tornerà bello gobbo e funereo come prima!”
Ma Andrea Otti non tornava, e la città si faceva sempre più trista. Le mamme lo ricordavano raccontando le favole ai figli, e le raccontano così bene la favola di Andrea Otti che ancora adesso c’è chi non ci crede. Le raccontavano loro e tutta la tivù di stato: Mafiopoli 1, 2, 3 e Beghe 4 e Banale 5. Un kolossal di proporzioni proporzionali e con un pizzico di maggioritario, senza la preferenza unica.
Ma Mafiopoli non va mai in prescrizione e le leggi della natura non si spengono: se Andrea Otti non è tornato, forse è perché non è mai andato via. Noi mafiopolitani stàmo, magnàmo enon pagàmo, alla Romana.