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colpevole

Solidale. Colpevole. Morto

La storia è una storia di cui qualcuno ha già parlato ma vale la pena raccontarla ancora perché è perfetta per questo tempo. E allora la raccontiamo ancora.

Egidio aveva ottant’anni quando lo hanno arrestato. Uno pensa che per essere arrestato a ottant’anni e per di più messo in galera, qui da noi, devi avere combinato un bel casino, qualcosa che è esploso da qualche parte, una strage. Alle questioni di soldi non ci pensi, normale, poiché li abbiamo sempre visti i potenti che in galera non ci vanno proprio perché sono anziani. Cosa ha combinato Egidio?

Nel 2012 hanno trovato un uomo dentro un baule legato sul suo furgone. Sbarcava da un traghetto proveniente dalla Grecia. È stato denunciato. Egidio, che di lavoro faceva l’operaio saldatore e in pensione girava il mondo, non ci aveva nemmeno più pensato a quel fatto e aveva cambiato residenza, senza comunicarlo al tribunale. Non è un particolare da poco: qualsiasi furbo sa che per usare i trucchetti giudiziari che evitano il carcere la mancata comunicazione del cambio residenza è un errore grossolano.

Sono arrivati a casa e l’hanno arrestato. Portato in carcere a Parma. Aveva ottant’anni. Era malato di tumore. Il giorno prima della sua morte, il 6 settembre, il magistrato di Sorveglianza ha autorizzato la detenzione domiciliare in ospedale. Un po’ tardi. L’uomo era stato condannato nel 2017 a tre anni e mezzo di carcere dal Tribunale di Ancona.

Racconta il suo avvocato che in carcere spesso doveva «attaccarsi alla macchinetta per respirare». E niente. Morto. Morto per immigrazione clandestina. Uno dei tanti. Ma Egidio, a pensarci, è così dissimile da quelli che ormai non ci fanno più nessun effetto.

Solidale. Colpevole. Morto.

Ma il nostro Paese ora è davvero più sicuro.

Buon venerdì.

L’articolo Solidale. Colpevole. Morto proviene da Left.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2019/10/25/solidale-colpevole-morto/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Riempire il vuoto con un colpevole al giorno

Gli ultimi sono i tecnici della ragioneria dello Stato, colpevoli, a dar retta al leghista Rixi, del ritardo del decreto per la ricostruzione del ponte Morandi, che aspettano tutti da quarantadue giorni ma in compenso ha avuto più annunci della Salerno-Reggio Calabria. Colpa dei tecnici che non trovano i soldi per declinare la propaganda in reale azione di governo.

Ieri (ma anche domani) è colpa dei negri: i negri che stuprano, i negri che spacciano, i negri che devono perdere i diritti se condannati in primo grado. L’ha deciso un condannato in via definitiva (per oltraggio a pubblico ufficiale) e indagato per reati gravissimi a cui ha risposto perculando i magistrati. L’ha deciso lui che giusto qualche giorno fa ha reso omaggio con una bella cenetta al pluricondannato numero uno d’Italia, Silvio Berlusconi, con cui ha deciso le prossime nomine Rai.

È colpa dell’Europa se siamo poveri. È colpa del Pd. È colpa di Renzi. È colpa della Boldrini. È colpa di Macron. È colpa della Ong. È colpa della Bonino. È colpa di Soros. È colpa dei gay. È colpa delle donne che vogliono abortire. È colpa dei giovani rammolliti che non vogliono il servizio militare. È colpa della scuola. È colpa del gender. È colpa delle femministe.

Ma attenzione, non è una pratica di questi ultimi mesi, no: prima era colpa dell’Anpi, colpe dei professoroni, colpa di bandiera rossa, colpa di Bersani, colpa dei sindacati, colpa del telefono a gettoni, colpa delle minoranze, colpa dei partitini, colpa di chi si opponeva al cambiamento, colpa della rete.

E, pensateci, prima ancora: colpa dei giudici, colpa dei comunisti, colpa della Rai, colpa dei pentiti, colpa dei sedicenti antimafiosi, colpa di D’Alema, colpa di Prodi, colpa di De Benedetti, colpa dei terroni.

Decenni passati, ogni giorno, a partorire colpevoli. Ogni giorno un colpevole da buttare in pasto alla folla. Ogni giorno qualcosa o qualcuno o una categoria da additare come causa dello sfacelo. E da decenni, intanto, sfaceli.

Poi ci si stupisce della rabbia che c’è in giro. Hanno impiantato una catena di montaggio di colpevoli pronti all’uso e ci danno lezioni di Nazione (se non addirittura di Patria) e di coesione sociale.

Merito loro.

Buon mercoledì.

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Caso Cucchi: il carabiniere colpevole di avere raccontato ciò che sa

Chissà che ne pensa l’onore dell’Arma, che è una formula buona per qualsiasi occasione, di ciò che sta accadendo a Riccardo Casamassima, appuntato scelto che quando morì Stefano Cucchi prestava servizio nella caserma di Tor Vergata e che ha raccontato nel 2015 in tribunale di avere sentito il maresciallo Roberto Mandolini dire con la mano sulla fronte «È successo un casino ragazzi, hanno massacrato di botte un arrestato» seguito dal comandante Enrico Mastronardi che ha fatto il nome di Cucchi.

In tribunale Casamassima ha riportato anche le parole di Sabatino Mastronardi (figlio di Enrico) che disse: «Guarda non si sono proprio regolati. Non ho mai visto una persona massacrata di botte così». Ha pensato, il carabiniere Casamassima, che tra i doveri della divisa ci fosse anche quello di raccontare ciò che si sa, ancora di più in un processo come quello sulla morte di Stefano Cucchi in cui le responsabilità di pezzi dello Stato, se confermate, risultano gravissime.

Invece ora Casamassima si ritrova a lavorare fianco a fianco al collega che ha denunciato (a proposito di incompatibilità ambientale, appunto) e da quando ha testimoniato continua a subire una serie di procedimenti disciplinari (tra cui ben 10 giorni di consegna) dal tempismo piuttosto curioso. Ai giornalisti Casamassima ha detto di essere “spaventato e abbandonato” e che queste parole provengano da un carabiniere forse dovrebbe aprire qualche riflessione.

Il prossimo 15 maggio l’appuntato scelto sarà chiamato in aula per confermare la sua testimonianza e chissà che per allora l’onore dell’Arma non scelga di stare dalla parte della verità e non ci stupisca tutti con una rinnovata voglia di fare chiarezza. Farebbe bene all’Arma, farebbe bene alla famiglia Cucchi e farebbe bene a noi.

Buon mercoledì.

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La dignità dell’errore. E delle scuse

Filippo Chiarello aveva 38 anni, due bambini piccoli e un intervento da fare alla colecisti in laparoscopia. Nell’ospedale Santa Sofia di Palermo ci è entrato con l’idea di doverne uscire in pochi giorni, pronto ad affrontare una di quelle operazioni che di questi tempi sono routine. E invece è morto. E fino a qui sembrerebbe l’ennesima storia di malasanità pronta a finire sui giornali (locali, perché la sanità è sempre argomento molto poco pop) e ad aprire una sequela giudiziaria tra cartelle cliniche, scarichi di responsabilità e assicurazioni trincerate in difesa.

Invece qui le porte della sala operatoria si sono aperte davanti alla faccia addolorata di un medico che si è dichiarato colpevole di un errore: «Ho spalancato le porte della sala operatoria, ho allargato le braccia e ho detto che era colpa mia. Mi sono sentito morire dentro, sulle facce dei parenti ho visto la disperazione – racconta il medico che ha fatto l’intervento – e mi assumo la responsabilità ma ci tengo a far sapere che non ero distratto, ero concentrato. La verità è che può capitare e i rischi degli interventi in laparoscopia sono dietro l’angolo».

 

(continua su Left)

Pace è l’unica parola che può toglierci dai guai.

Da leggere Igiaba Scego, fino in fondo:

«Ma qui in occidente ogni musulmano è potenzialmente colpevole, ogni musulmano è considerato una quinta colonna pronta a radicalizzarsi. Il fatto non solo mi offende, ma mi riempie anche di stupore. Sono meravigliata di quanto poco si conosca il mondo islamico in Italia. L’islam è una religione che conta più di un miliardo di fedeli. Abbraccia continenti, paesi, usanze diverse. Ci sono anche approcci alla religione diversi. Ci sono laici, ortodossi, praticanti rigorosi, praticanti tiepidi e ci sono persino atei di cultura islamica. È un mondo variegato che parla molte lingue, che vive molti mondi. Andrebbe coniugato al plurale.

Il mondo islamico non esiste. È un’astrazione. Esistono più mondi islamici che condividono pratiche e rituali comuni, ma che sul resto possono avere forti divergenze di opinioni e di metodi. E poi, essendo una religione senza clero, per forza di cose non può avere una voce sola. Non c’è un papa musulmano o un patriarca musulmano. L’organizzazione e il rapporto con il Supremo non è mediato. Inoltre, bisogna ricordare che i musulmani (o più correttamente, le persone di cultura musulmana) sono le prime vittime di questi attentati terroristici. È chiaro che la maggior parte della gente, di qualsiasi credo, è contro la violenza. A maggior ragione chi proviene da paesi islamici dove questa furia brutale può colpire zii, nipoti, fratelli, sposi, figli.

Not in my name, lo abbiamo gridato e scritto molte volte. Ci siamo distanziati. Lo abbiamo urlato fino a sgolarci. Lo abbiamo fatto dopo il massacro nella redazione di Charlie Hebdo, dopo la strage al Bataclan di Parigi o quella nell’università di Garissa in Kenya. Lo facciamo a ogni attentato a Baghdad, a Damasco, a Istanbul, a Mogadiscio. E naturalmente abbiamo fatto sentire la nostra voce dopo Dhaka. Ma ora dobbiamo entrare tutti – musulmani, cristiani, ebrei, atei, induisti, buddisti, tutti – in un’altra fase. Dobbiamo chiedere ai nostri governi di schierarsi contro le ambiguità del tempo presente.

Il nodo è geopolitico, non religioso. Un nodo aggrovigliato che va dalla Siria al Libano, dall’Arabia Saudita allo Yemen, passando per l’Iraq e l’Iran fino ad arrivare in Bangladesh e in India. Un nodo fatto di vendite di armi, traffici illeciti, interessi economici, finanziamenti poco chiari. E se proprio dobbiamo schierarci, allora facciamolo tutti per la pace. Serve pace nel mondo, pace in Siria, in Somalia, in Afghanistan e non solo. Serve un nuovo impegno per la pace, una parola che per troppo tempo non abbiamo usato, anzi che abbiamo snobbato come utopica. Serve un nuovo movimento pacifista. Servono politiche per la pace. Serve la parola pace coniugata in tutti i suoi aspetti.

Pace è l’unica parola che può toglierci dai guai. L’unica che può farci uscire da questa cappa di sospetto e di paura.»

(fonte)