Vai al contenuto

Consip

Quello che ha da dire Marco Lillo sul caso Consip (e sul presunto “golpe”)

E vale la pena leggerlo. Almeno per mettere in fila i fatti.

 

di Marco Lillo

Per smontare il teorema del ‘complotto’ contro Matteo Renzi costruito dal Noe dei Carabinieri con la complicità del pm Henry John Woodcock e del Fatto è molto utile una semplice cronologia.
Quando il capitano Gianpaolo Scafarto, ai primi di settembre del 2016, avrebbe fatto alla pm di Modena Lucia Musti la confidenza generica su un’indagine non meglio precisata (“Scoppierà un casino, arriviamo a Renzi”) erano già accaduti alcuni fatti. In particolare un signore toscano amico di Tiziano Renzi di nome Carlo Russo era già entrato più volte nell’ufficio di Alfredo Romeo per parlare degli appalti che interessavano all’imprenditore. Non solo in Consip ma anche in Grandi Stazioni e in Inps. Stando alle informative di Gianpaolo Scafarto di quel periodo erano già accaduti questi eventi: il 3 agosto Romeo aveva chiesto a Russo di incontrare il padre del premier di allora perché aveva problemi con il suo amico amministratore di Consip, Luigi Marroni, per una serie di appalti del valore di centinaia di milioni di euro. Russo aveva proposto allora di fare una bisteccata a casa di Tiziano Renzi con lo stesso Marroni. Il 31 agosto Romeo era tornato alla carica e Russo aveva riferito così la risposta di Tiziano: “gli ho detto che … dobbiamo fare sto passaggio con Marroni! M’ha detto dice: ‘Fammi finire sto casino prossima settimana ci mettiamo’”.
Quando Scafarto avrebbe fatto la sua profezia, Romeo aveva già proposto a Russo il famoso ‘accordo quadro’ che poi sarà precisato meglio il 14 settembre nel famoso foglio che – secondo l’interpretazione dei Carabinieri – reca l’offerta di 30 mila euro al mese per Tiziano Renzi in cambio di un incontro al mese con Luca Lotti e con Luigi Marroni per propriziare un occhio di riguardo su Romeo da parte della Consip guidata da Marroni.
La confidenza di Scafarto (‘scoppierà un casino arriviamo a Renzi’) quindi non è la prova del movente delle sue macchinazioni contro Tiziano e Matteo ma un annuncio abbastanza prevedibile (e certamente scorretto se vero) sulla base di indizi già raccolti.
Prima però ricordiamo come è nata la teoria che piace tanto ai grandi giornali, alla politica e ai membri del Consiglio Superiore della Magistratura vicini a Renzi.
Il teorema (ben descritto ieri in un pezzo di Carlo Bonini su Repubblica) vuole connettere due fatti che non c’entrano nulla: lo scoop del Fatto del luglio 2015 sulla telefonata di Matteo Renzi con il generale Michele Adinolfi e lo scoop del Fatto del 2016-2017 sul caso Consip. Ebbene il teorema è delineato nel libro del segretario del Pd Avanti.
Renzi ricorda così il nostro scoop della telefonata tra lui e il generale della GdF Adinolfi, nella quale i due sparlavano di Enrico Letta, intercettata nel 2014 e pubblicata dal Fatto il 10 luglio 2015. “È la prima volta – scrive Renzi – in cui faccio la conoscenza del Noe, Nucleo operativo ecologico dell’Arma dei carabinieri, che su incarico di un pm di Napoli, il dottor Woodcock, mi intercetta. Apprenderò dell’intercettazione mentre sono presidente del Consiglio, grazie a uno scoop del Fatto Quotidiano firmato da un giornalista che si chiama Marco Lillo. Segnatevi mentalmente questo passaggio: Procura di Napoli, un certo procuratore, il Noe dei carabinieri, il Fatto Quotidiano, un certo giornalista. Siamo nel 2014, non nel 2017, sia chiaro. Che poi i protagonisti siano gli stessi anche tre anni dopo è ovviamente una coincidenza, sono cose che capitano”.
L’insinuazione che Il Fatto abbia ottenuto le notizie per i due scoop nel 2015 e nel 2016-7 sempre grazie al Noe e al pm Woodcock è falsa e diffamatoria ma trova subito una grancassa nelle istituzioni.
Il libro esce il 12 luglio e sembra il canovaccio delle domande poste al pm Lucia Musti di Modena appena cinque giorni dopo dal presidente della prima commissione del Csm. L’avvocato Giuseppe Fanfani, ex sindaco Pd di Arezzo, amico di Maria Elena Boschi e già legale del padre, ascolta con i suoi colleghi del Csm il procuratore di Modena nell’ambito del procedimento contro Henry John Woodcock finalizzato a capire se il pm di Napoli che ha osato intercettare il padre del leader Pd debba essere trasferito per incompatibilità.
La pm Lucia Musti ha ricevuto per competenza nell’aprile del 2015 le carte del fascicolo Cpl Concordia, istruito da Woodcock, nel quale era contenuta l’intercettazione di Matteo Renzi con il generale Adinolfi. La telefonata è divenuta pubblica nel luglio 2017 perché non era più segreta e Il Fatto – come la Procura di Napoli ha ricostruito già nel 2016 – l’ha avuta da fonti non investigative in modo pienamente lecito. E non era più segreta per una svista non del pm Woodcock ma degli uffici dei pm dell’antimafia che l’avevano ricevuta per competenza di materia da Woodcock proprio come la dottoressa Musti l’aveva avuta a Modena.
I pm di Napoli nel 2015-2016 indagarano i carabinieri del Noe che avevano aiutato il personale di segreteria, oberato di lavoro, a effettuare la scansione delle pagine senza avvedersi che l’informativa depositata non era quella omissata ma la versione precedente, che non conteneva gli omissis. Così quelle due pagine così delicate con i giudizi sprezzanti di Renzi su Letta sono finite nel computer della Procura accessibile a tutti gli avvocati del procedimento. Tre avvocati (almeno) ne vennero in possesso e così Il Fatto ha potuto acquisire tutte le carte pubbliche del fascicolo, compresa quella che doveva restare segreta. Questo tragitto è stato accertato con certezza dai pm e dai loro periti informatici grazie anche alle perquisizioni ai danni dei giornalisti del Fatto e in particolare al sequestro e all’analisi del computer del collega Vincenzo Iurillo che ha firmato quello scoop con chi scrive questo articolo.
I carabinieri del Noe furono indagati e interrogati ma i pm Alfonso D’Avino e Giuseppe Borrelli ne chiesero l’archiviazione a febbraio 2016 perché “E’ da escludersi che la scansione integrale della informativa del 15.10.2014 sia stata intenzionalmente effettuata dai militari al fine di renderla ostensibile attraverso il suo inserimento al TIAP (il sistema informatico della Procura, ndr)”; 2) “la pubblicazione degli atti era avvenuta ad opera del cancelliere (incolpecole anche lui, ndr) addetto alla segreteria del pm dell’antimafia Cesare Sirignano”.
L’audizione della dottoressa Musti al Csm doveva essere diretta ad appurare le responsabilità dei magistrati in quella fuga di notizie. Woodcock in questo caso non aveva alcuna responsabilità ma il pm Musti ne approfitta per fare due dichiarazioni contro la polizia giudiziaria preferita dal pm napoletano: i carabinieri del Noe.
La prima riguarda il fascicolo Cpl Concordia del 2015 e l’allora vicecomandante del Noe dei Carabinieri Sergio De Caprio, alias Ultimo.
Questa è la ‘la seconda versione’ del verbale pubblicata dal quotidiano Repubblica (diversa da quella del giorno precedente) riguardo all’incontro Ultimo-Musti per le carte dell’indagine Cpl Concordia del 2015: “Il presidente Fanfani chiede: «Chi glielo disse?». Musti: «Il colonnello De Caprio mi disse: “Lei ha una bomba in mano, se vuole la può fare esplodere”». Fanfani: «Ma in riferimento a cosa?». Lei: «Ma cosa ne so? Cioè, io non lo so perché erano degli agitati. Io dovevo lavorare su Cpl Concordia, punto, su quest’episodio di corruzione. Dissi ai miei, “prima ci liberiamo di questo fascicolo meglio è”».
Musti quindi sta dicendo al Csm che Ultimo quando consegnò il fascicolo Cpl Concordia a Modena disse che era una bomba. Il fascicolo non era centrato su Renzi ma sulla coop emiliana e conteneva intercettazioni del 2014 riguardanti: 1) i rapporti tra Massimo D’alema e la Cpl Concordia; 2) la Fondazione Icsa fondata da Marco Minniti ma lasciata dall’ex sottosegretario nel 2013; 3) intercettazioni su altri personaggi del Pd tra cui anche Matteo Renzi ma non solo lui.
Dal testo del secondo (e probabilmente vero) verbale pubblicato da Repubblica ieri si evince chiaramente che il pm Lucia Musti non dice e nemmeno insinua mai che ‘la bomba’ a cui faceva riferimento Ultimo fosse l’intercettazione di Renzi con Adinolfi.
La seconda cosa che dice il pm Lucia Musti al Csm riguarda il fascicolo che nel 2016 vedeva il solito Noe, sempre sotto la direzione del pm Woodcock, impegnato sul versante Consip. Così sempre Repubblica (sempre nella seconda versione del verbale ieri) riferisce la versione del pm Lucia Musti su un suo incontro con il capitano Scafarto ai primi di settembre del 2016: «Lui mi ha parlato del caso Consip, un modo di fare secondo me poco serio, perché un capitano, un maresciallo, un generale sono vincolati al segreto col loro pm, non devi dire a me che cosa stai facendo con un altro. Quindi, quando lui faceva lo sbruffone dicendo che sarebbe “scoppiato un casino”, io dentro di me ho detto “per l’amor di Dio”. Una persona seria non viene a dire certe cose, quell’ufficiale non è una persona seria». Fanfani vuole dettagli: «De Caprio ha detto “Ha una bomba in mano”, mentre Scafarto “succederà un casino”?». Musti risponde: «Scoppierà un casino, arriviamo a Renzi».
E’ evidente dalla lettura di questa versione del verbale l’inesattezza di quanto pubblicato il giorno prima. Lucia Musti non ha mai dichiarato che Ultimo e Scafarto le dissero: ‘Dottoressa, lei, se vuole, ha una bomba in mano. Lei può far esplodere la bomba. Scoppierà un casino. Arriviamo a Renzi’.
Una cosa è la bomba Cpl Concordia di cui parla Ultimo senza alcun riferimento a Renzi e alla sua conversazione con Adinolfi poi pubblicata dal Fatto.
Altra cosa è quel generico “scoppierà un casino arriviamo a Renzi” che sarebbe stato detto nel settembre 2016 dal capitano Scafarto quando aveva già in mano indizi pesanti su Tiziano Renzi.
La scorretta rappresentazione della realtà fatta dai grandi quotidiani insinua che la bomba di cui parlava Ultimo a Lucia Musti nel 2015 fosse l’intercettazione Adinolfi-Renzi. Non basta. la grande stampa e il Pd al seguito forzano anche il senso della frase di Scafarto per insinuare un intento complottistico del Noe contro Renzi nel 2016.
Scrive sul punto Il Corriere della Sera di venerdì “Il fatto che l’ex capitano del Noe abbia detto a Musti, quattro mesi prima di consegnare l’informativa e anche prima che fosse registrata la famosa frase «Renzi l’ultima volta che l’ho incontrato» falsamente attribuita a Romeo («assume straordinario valore e consente di inchiodare alle sue responsabilità il Renzi Tiziano», scrisse Scafarto nel rapporto), potrebbe far immaginare che l’obiettivo dei carabinieri fosse proprio il padre dell’ex premier. Come se fosse un possibile movente della successiva manipolazione dell’intercettazione. E chi volesse ipotizzare che quello fosse lo scopo dei falsi contestati a Scafarto (…) ora avrebbe un motivo in più per sostenerlo”.
La rappresentazione di un colloquio in cui Scafarto parla con Musti prima di avere nelle mani gli indizi e le registrazioni che inguaieranno Tiziano Renzi ha permesso al Pd Michele Anzaldi di presentare un’interrogazione al Governo e ha fatto parlare di ‘fatti di gravità inaudita’ all’ex segretario Pd Dario Franceschini e di “complotto” al capogruppo Pd Luigi Zanda. Grazie a questo modo di fare informazione non è apparsa ridicola la visita di Matteo Renzi a Rignano così raccontata in un pezzo dal titolo “Consip, Renzi subito a Rignano dal padre. Con lui il faccia a faccia della pace”.
Il pezzo è uscito il 14 settembre, proprio nel primo anniversario del giorno del famoso pizzino. Il 14 settembre 2016 infatti Alfredo Romeo scrisse su un foglietto ritrovato il giorno dopo nella spazzatura dal Noe e interpretato come un’offerta nero su bianco al ‘compare di Tiziano Renzi, Carlo Russo, di 30 mila euro al mese, destinati a ‘T.’ che secondo la tesi accusatoria sarebbe Tiziano Renzi.
Al di là delle conseguenze politiche della strumentalizzazione delle frasi della pm Musti, c’è una conseguenza giudiziaria di non poco conto. Alla Procura di Roma sono state trasmesse dal Csm le dichiarazioni della pm di Modena perché i pm Paolo Ielo e Mario Palazzi valutino se inserirle nel fascicolo contro Woodcock. Non solo. Lunedì prossimo la solita prima commissione del Csm presieduta dal solito Giuseppe Fanfani convocherà i due pm di Napoli, Giuseppe Borrelli e Alfonso D’avino, che si sono occupati del’indagine sulla pubblicazione da parte del Fatto dell’intercettazione Renzi-Adinolfi.
In pratica il presidente della commissione del Csm convoca i procuratori aggiunti di Napoli e trasmette carte alla Procura di Roma perché finalmente si indaghi a fondo nella direzione del collegamento tra i due scoop del Fatto, proprio la direzione auspicata dal leader Matteo Renzi nel suo libro.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

Ops, dice la Pm di Modena sul caso Consip che le “vengono attribuite frasi mai dette”

Forse prima di gridare al “golpe” converrebbe aspettare. Forse. Ecco l’articolo del Fatto Quotidiano:

 

Due nuovi fascicoli aperti per rivelazione di segreto d’ufficio. Sono quelli aperti dalla procura di Roma in relazione alle fughe di notizie che hanno riguardato il contenuto di audizioni sul caso Consip avvenute davanti al Consiglio superiore della magistratura. I due fascicoli fanno riferimento a due distinti episodi di notizie coperte da segreto apparse sui quotidiani e sono al momento contro ignoti.

Appena venerdì scorso il Corriere della Sera e Repubblica avevano pubblicato il contenuto dell’audizione del procuratore di Modena, Lucia Musti, davanti alla prima commissione Csm. Il magistrato ha riferito che l’allora capitano dei carabinieri Gianpaolo Scafartol’ufficiale del Noe indagato per falso e rivelazione del segreto, le disse: “Dottoressa lei se vuole ha una bomba in mano. Lei può far esplodere la bomba, scoppierà un casino. Arriviamo a Renzi“. Il colloquio avvenne all’inizio di settembre 2016 poco meno di quattro mesi prima del deposito delle informative in cui Scafarto, secondo l’ipotesi degli inquirenti, avrebbe inserito false informazioni come quella in cui la frase “l’ultima volta che ho incontrato Renzi” (Tiziano, cioè il padre dell’ex premier) viene attribuita all’imprenditore Alfredo Romeo (arrestato per corruzione e tornato libero ad agosto, ndr), mentre invece era dell’ex parlamentare Italo Bocchino, e riferita al figlio Matteo.

A tre giorni dalla pubblicazioni di quelle frasi, però, il pm Musti fa marcia indietro. E contattata dall’agenzia Ansa – che l’aveva già sentita venerdì scorso per un commento, ottenendo in cambio un no comment  – smentisce il contenuto di quell’audizione a Palazzo dei Marescialli. “Rilevo che mi vengono attribuite alcune affermazioni, anche virgolettate, che io non ho fatto ovvero che, per come riportate, non rendono in modo fedele quanto da me riferito al Csm in audizione non pubblica, conseguente a convocazione”, ha detto il magistrato aggiungendo: “Sono a disposizione del procuratore della Repubblica di Roma”. Una strana smentita quella di Musti, sopratutto perché arriva con almeno 72 ore di ritardo.

Nel frattempo, tra l’altro, proprio sulla base delle dichiarazioni accreditate a Musti, anche la procura militare ha cominciato a seguire la vicenda Consip. Allo stato, secondo quanto si è appreso, si tratta solo di un monitoraggio delle fonti aperte – in primis proprio le notizie pubblicate dai media – finalizzato a a verificare se sussistono ipotesi di reato di competenza della procura militare. Nella sua audizione – sempre secondo quanto riportato sulla stampa – Musti ha tirato in ballo anche il colonnello Sergio De Caprio, il capitano Ultimo noto soprattutto per l’arresto di Totò Riina, all’epoca comandante del Noe. Anche De Caprio avrebbe usato la stessa terminologia di Scafarto: “Lei ha una bomba in mano, se vuole la può fare esplodere”. Al Consiglio superiore della magistratura Musti ha dichiarato di aver pensato che quei carabinieri erano degli “esagitati”. Affermazioni smentite da Ultimo.  “Non ho mai parlato di Matteo Renzi né con la dottoressa Musti né con altri”, ha detto il militare venerdì scorso. Tre giorni dopo ecco la strana smentita del magistrato di Modena.

 

Consip: ci pensa il cda a fare quello che non è riuscito a fare Renzi

“Hanno deciso di farmi fuori. Io che in questa vicenda sono l’unico non indagato”. Luigi Marroni l’aveva capito venerdì, alla presentazione della mozione Pd che chiedeva l’azzeramento dei vertici Consip, ma forse non pensava che la questione si sarebbe risolta automaticamente nel giro di 24 ore. Si sono dimessi i consiglieri del Tesoro nel consiglio di amministrazione: il presidente Luigi Ferrara e la consigliera Marialaura Ferrigno. Di conseguenza, essendo formato da tre componenti (l’altro è appunto l’ad) decade l’intero board della società controllata dal Mef al centro dello scandalo che vede indagato, tra gli altri, il ministro dello Sport Luca Lotti. Marroni, accerchiato dai partiti e annientato dai colleghi, resta in carica con il solo compito di convocare, entro otto giorni, l’assemblea dei soci che dovrà nominare il nuovo cda. E’ dunque questa la “soluzione” al caso Consip, al centro di un fitto lavorio nelle ultime ore mentre per martedì era stata messa in calendario al Senato la discussione sulle mozioni, compresa quella del Pd che avrebbe chiesto l’azzeramento dei vertici.

La decisione dei due consiglieri, di fatto, si rivela un provvidenziale favore al Pd che si è trovato a rincorrere l’opposizione nella richiesta di rimuovere i vertici “in tempi celeri” e che a questo punto potrà evitare l’imbarazzante prova dell’aula. Il gruppo dem a Palazzo Madama ha firmato venerdì una mozione-fotocopia di quella presentata a marzo dai senatori di Idea Augello e Quagliariello cui sono arrivate ben 73 sottoscrizioni provenienti praticamente da tutti i gruppi parlamentari: Forza Italia, Lega, M5s, Gal, Ala, Alternativa Popolare, gruppo per le Autonomie, gruppo Misto. Mancava giusto il Partito Democratico che, per evitare la trappola della mozione, aveva depositato la propria al fine di neutralizzare quelle altrui. Ma la maggioranza risicata al Senato non escludeva affato il rischio di andare allo scontro parlamentare e di finire sotto, con conseguenti, prevedibili, polemiche.

Così a togliere le castagne dal fuoco al segretario del Pd Matteo Renzi– il cui padre Tiziano è indagato dallo scorso febbraio – ci hanno pensato gli altri due consiglieri chiamandosi fuori: con l’addio di due membri su tre decade l’intero consiglio di amministrazione e l’oggetto del contendere. Le dimissioni non cancellano ovviamente lo scontro politico cresciuto intorno alla società dopo l’emergere dell’inchiesta sulle pressioni intorno al maxi-appalto da 2,7 miliardi per il Facility management, vale a dire la gestione e la manutenzione, degli immobili pubblici.

In questa inchiesta Marroni è stato sentito più volte come testimone, diventando il “grande accusatore” del ministro dello Sport Luca Lotti sulla rivelazione del segreto d’ufficio. Lotti, indagato insieme al generale dei Carabinieri Emanuele Saltalamacchia, ha sempre respinto ogni addebito. Ad aggravare l’intreccio è intervenuto poi il caso-Scafarto, il vicecomandante del Noe che ha seguito l’inchiesta della Procura di Napoli ed è ora indagato per depistaggio con l’accusa di falsi nell’informativa sui presunti incontri tra l’imprenditore napoletano Alfredo Romeo e Tiziano Renzi.

(fonte)

A posto così

  1.  La Boschi no, non ha querelato De Bortoli. No.
  2. Ghizzoni (Unicredit) non ha intenzione di dire se la Boschi davvero gli ha chiesto di intervenire in favore di Banca Etruria perché, dice lui, non può permettersi di mettere “a rischio la tenuta del governo”. Indovinate la risposta.
  3. Sono illegali le intercettazioni pubblicate di Matteo Renzi con il padre. Vero. Verissimo. Ma nell’inchiesta Consip si parla di politici al governo che avvisano dirigenti pubblici del fatto di essere intercettato. E quei dirigenti bonificano i propri uffici per tutelarsi. Segnarselo bene. E decidere, nel caso, la gravità dove sta.
  4. Leggete i giornali e saprete esattamente chi è contro la legge elettorale di qualcun altro. Vi sfido a capire quali siano le soluzioni proposte. “Essere contro Renzi” non è un gran programma di governo. No.
  5. Pisapia dice di voler andare contro Renzi ma di essere contro il renzismo. Renzi dice di non volersi alleare con Pisapia. Escono decine di editoriali che chiedono a Pisapia di federare. Renzi lo snobba. Lui insiste. Trovate il filo logico. Chiamatemi, nel caso.
  6. Salvini non vuole andare con Berlusconi. Berlusconi non vuole andare con la Lega. E poi finiranno insieme. Come negli ultimi vent’anni. Ci scommetto una pizza.
  7. Il “gigantesco scandalo” sulle ONG è finito in una bolla di sapone a forma di scoreggia. Eppure non ne parla nessuno. Tipo il watergate finito nel water.
  8. Tutti quelli che vogliono la “sinistra unita” poi scrivono dappertutto che “la sinistra non c’è più”. Così vincono in entrambi i casi. E vorrebbero essere analisti politici.
  9. Tutti i tifosi di Putin sono silenziosissimi. Putin gli è esploso in faccia ma loro usano la solita tattica: esultare per gli eventi a favore e fingere che non esistano quelli contrari. Le chiamano fake news ma in realtà è solo vigliaccheria.
  10. Ormai tutti cercano opinionisti con cui essere totalmente d’accordo su tutto. La complessità è come la Corte Costituzionale: un inutile orpello che non riesce a stare al passo dei tempi dei social, dove un rutto fa incetta di like.
  11. Gli intellettuali? Quelli che si indignano come ci indigneremmo noi. Gli vogliamo bene perché ci evitano la fatica di pensare e di scrivere e al massimo ci costano un “mi piace”. Opinioni senza apparato digerenti. Defatiganti. A posto così.
  12. Buon venerdì.

(continua su Left)

A che punto siamo con l’inchiesta Consip (e perche il padre di Renzi aveva paura di essere arrestato)

ANDREA ORLANDO: “CONTRO I MAGISTRATI, RENZI SI CERCHI UN ALTRO MINISTRO”

Estratto dell’intervista di Fabrizio D’Esposito per il “Fatto quotidiano”

[…] Renzi, meglio, qualche renziano pretendeva un’ attenzione maggiore (sul caso Consip).

Precisiamo: qualche renziano. Io non ho girato la testa dall’ altra parte, ho scritto al procuratore generale per eventuali anomalie nell’ attività della polizia giudiziaria: non ho azionato l’ attività ispettiva perché non emergevano profili disciplinari. Tutto questo, come sempre, l’ ho fatto senza alcun carattere intimidatorio. Se i renziani che mi hanno criticato pensavano che utilizzassi i poteri ispettivi come una clava contro l’ autonomia della magistratura hanno sbagliato persona.

I VERBALI DEL SINDACO DI RIGNANO: «”TEMO CHE MI ARRESTINO” MI CONFESSÒ BABBO RENZI»

Giacomo Amadori per “la Verità”

Anche se Matteo Renzi nei giorni scorsi, scortato dalla fanfara entusiastica dei giornali, sembrava aver già assolto suo padre Tiziano Renzi dalle accuse di traffico di influenze illecite nella vicenda Consip, gli inquirenti romani stanno preparando il secondo round. In particolare nella prossima fase i pm della Capitale potranno far conto sulle perquisizioni e sugli interrogatori svolti a marzo, prima che scoppiasse il caso dei presunti falsi del capitano del Noe, Gianpaolo Scafarto, che hanno fatto calare il sipario mediatico sull’ inchiesta.

Infatti, a quanto risulta alla Verità, qualche buona cartuccia contro Renzi senior è rimasta in tasca ai magistrati. In particolare viene considerata rilevante la testimonianza del sindaco di Rignano sull’ Arno, Daniele Lorenzini, ritenuto sino a quelle dichiarazioni un renziano di oro zecchino. Così renziano da difendere babbo Tiziano in ogni occasione. Ma non al punto da mentire davanti ai pm, mettendo a rischio la propria fedina penale. Venerdì 3 marzo è stato sentito in due tornate dal pm di Roma, Mario Palazzi, e da quello di Napoli, Henry John Woodcock.

Nell’ occasione ha confermato quanto già svelato dalla Verità il 6 novembre scorso sulle fughe di notizie, ma vi ha aggiunto un particolare clamoroso. Ha detto che nell’ autunno scorso «Tiziano Renzi aveva paura di essere arrestato». Il verbale è stato compilato da Palazzi e riletto a Daniele Lorenzini dallo stesso pm.

Renzi senior aveva convocato Lorenzini nel suo ufficio e lo aveva reso partecipe della sua preoccupazione per un’ inchiesta napoletana «riguardante una persona che avrò visto una volta». Il personaggio in questione era Alfredo Romeo, poi arrestato per corruzione lo scorso 1 marzo su richiesta della procura di Roma. Lorenzini ha riassunto così con la Verità il passaggio cruciale del suo verbale: «Mi parlò della Procura di Napoli senza fare il nome del pm Woodcock e mi disse con tono angosciato “mi stanno controllando” o qualcosa di simile, tanto che mi fece lasciare il telefonino in ufficio. Ci recammo a parlare nel piazzale esterno, quello che si affaccia sul fiume». Per Lorenzini quel giorno l’ amico «era preoccupatissimo». Insomma l’ inchiesta, che ora per tutti i giornali è una semplice bolla di sapone, tra settembre e ottobre scorso aveva agitato a tal punto babbo Renzi da fargli temere le manette.

Per un inquirente contattato dalla Verità questo non è un dettaglio trascurabile, visto che tradirebbe la coscienza non proprio pulita dell’ indagato. «Tiziano Renzi aveva paura che, se la notizia dell’ inchiesta fosse uscita prima del referendum, il figlio avrebbe perso la consultazione», ha aggiunto Lorenzini con i magistrati. A mettere ansia al babbo dell’ ex primo ministro erano anche le continue fughe di notizie a suo favore effettuate da investigatori infedeli. La prima sarebbe avvenuta a settembre, quando l’ apprendista faccendiere Carlo Russo, inquisito nell’ inchiesta insieme con Renzi senior, rinviò con Romeo «l’ accordo quadro» che avrebbe dovuto garantire a babbo Tiziano 30.000 euro al mese e 5.000 bimestrali allo stesso Russo per il loro lavoro di lobbing nei confronti dell’ amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni.

Il 7 dicembre l’ ex autista del camper di Matteo Renzi alle primarie, Roberto «Billy» Bargilli, telefona a Russo e gli dice con tono d’ intesa: «Scusami ti telefonavo per conto di babbo mi ha detto di dirti di non chiamarlo e di non mandargli messaggi». Nell’ audio (anche se Bargilli in una conferenza stampa aveva dichiarato trattarsi di un sms) il tono di Billy è amichevole e Russo dà l’ idea di intendere al volo il senso del messaggio, annuisce e attacca. Fughe di notizie gravi quasi quanto i reati contestati che avrebbero chiaramente potuto portare a un arresto per inquinamento probatorio.

Per questo probabilmente Tiziano già a ottobre aveva esternato all’ amico e medico personale Lorenzini le sue palpitazioni. Oggi il sindaco è stato espulso dalla cerchia ristretta degli amici del Giglio magico per presunto alto tradimento, dopo che, secondo babbo Renzi, era diventato «il problema». Ma le soprese potrebbero non essere finite. Infatti nei prossimi giorni il capitano dei carabinieri del Noe, Gianpaolo Scafarto, accusato di falso dalla Procura di Roma, consegnerà la sua memoria difensiva che potrebbe ribaltare alcune sentenze già scritte dai giornali, garantisti con babbo Renzi, ma colpevolisti nei confronti del militare «nemico» della famiglia dell’ ex presidente del Consiglio.

Infatti, a quanto risulta alla Verità, l’ ufficiale spiegherà in modo circostanziato come siano stati possibili i due errori inseriti nell’ informativa finale del 9 gennaio scorso, quella in cui veniva attribuita a Romeo una frase del suo consulente, Italo Bocchino, e la presunta pista farlocca dei servizi segreti. Proprio sul ruolo degli 007 nelle possibili fughe di notizie, l’ investigatore del Noe sarebbe pronto a fare nuove rivelazioni.

Intanto Tiziano Renzi e Carlo Russo continuano a impegnarsi in politica. Quest’ ultimo è interessato alle primarie del Pd e sebbene abbia smesso di scrivere su Facebook, ha inserito tra gli eventi da non perdere proprio la consultazione del 30 aprile e il confronto tv tra Matteo e i suoi contendenti. I gruppi di cui fa parte non lasciano dubbi su chi gli faccia battere il cuore: si va da «In cammino con Matteo Renzi» al «Popolo del Sì», da «Primarie sempre e comunque» a «Informazione libera con Renzi e il Pd» a quelli intitolati a «Matteo presidente» in tutte le sue declinazioni.

Unico nemico, i grillini: «Contro Movimento 5 stelle lotta democratica» è uno dei gruppi selezionati. Anche Tiziano è indaffarato ad allestire la campagna elettorale contro l’ ex amico Lorenzini per la poltrona di sindaco di Rignano. In paese sono attesi i comizi del ministro Maurizio Martina e dello stesso Matteo Renzi. Ma se Tiziano è concentrato sulla sua vendetta, i magistrati continuano a indagare, nonostante l’ indifferenza dei media, su di lui, sui suoi vecchi collaboratori e su alcune aziende con cui è stato in affari. Nessun giornalista ha ritenuto interessante che babbo Renzi nel 2014 abbia provato a cedere l’ azienda di famiglia a una società il cui socio occulto era in quel momento un suo coindagato per bancarotta fraudolenta.

Non ha suscitato curiosità neppure l’ inchiesta della Procura di Cuneo su un’ altra bancarotta e su una presunta truffa ai danni dell’ Inps contestate, tra gli altri, a due stretti collaboratori di Tiziano Renzi, Mirko Provenzano ed Erika Conterno, soci e compagni di vita. La Eventi 6 della famiglia Renzi, attraverso le società della coppia, la Direkta Srl (per il cui crac procede la Procura piemontese) e la Kopy 3, veicolò ricchi prestiti a una società in dissesto finanziario, «operazione fatta risultare – scrivono i pm – come “affitto azienda” dalla Web & press edizioni Srl di Firenze», l’ azienda che aveva incamerato finanziamenti per le campagne elettorali di Matteo Renzi, compreso quello di Luigi Lusi, il tesoriere della Margherita condannato a 7 anni per appropriazione indebita.

Nell’ inchiesta piemontese è coinvolta pure Miriam Mammoliti, storica organizzatrice della Leopolda renziana: la donna è sospettata per lo «sbianchettamento» dei bilanci della Direkta e della Kopy 3. Ebbene, nei giorni scorsi un sottufficiale del nucleo operativo del fruppo Firenze 2 della Guardia di finanza ha chiesto al curatore fallimentare cuneese Alberto Peluttiero le carte sugli scambi commerciali tra Direkta e Kopy 3 (le società di Provenzano e Conterno).

Che cosa c’ entrano queste due aziende piemontesi con Firenze? Forse la richiesta è legata agli affari intercorsi con la Eventi 6? Scambi così interessanti che nel procedimento della Procura di Cuneo i pm hanno depositato anche le intercettazioni tra Conterno e i genitori di Matteo Renzi, Tiziano e Laura. L’ ennesima notizia che sugli altri giornali non ha avuto nemmeno l’ onore di una breve in cronaca.

Sempre su Lotti: cosa dicono i suoi ex compagni di partito

“Quello che è indiscutibile è che Lotti non può restare al suo posto come se nulla fosse”. Su questo punto c’è accordo assoluto nel gruppo del Movimento democratici e progressisti, fondato dai fuoriusciti dal Pd. Il coro, tra senatori e deputati, è unanime: “Nessuno può pensare di cavarsela con qualche frase di circostanza, come si sta tentando di fare in queste ore, né ricorrendo a insulti nei confronti di chi chiede chiarezza su una vicenda che è abbastanza inquietante”. La vicenda è quella legata all’inchiesta Consip, nell’ambito della quale a Luca Lotti si contestano i reati di rilevazione di segreto e favoreggiamento. “Ma la questione qui non è giudiziaria, noi restiamo garantisti” assicurano i parlamentari Mdp. Del resto l’attuale ministro dello Sport non è solo un indagato eccellente: è anche il più fedele dei renziani, il braccio destro che l’ex presidente del Consiglio ha voluto dapprima con sé a Palazzo Chigi come sottosegretario e poi ha imposto all’interno della squadra di governo di Paolo Gentiloni. E la tentazione di colpire politicamente uno dei pilastri del giglio magico è innegabilmente forte per chi ha addirittura abbandonato il Pd a causa dell’incompatibilità con i metodi del Rottamatore.

Non è a rischio la stabilità del governo, anche perché Forza Italia ha già annunciato il proprio voto contrario alla mozione di sfiducia del M5s e i verdiniani saranno sicuramente un’altra truppa di supporto. Resta tuttavia il pericolo è di un primo cortocircuito tra Pd e i vecchi compagni di Mdp: “Questa è un richiesta che qualifica chi la fa – dice Matteo Orfini all’HuffingtonPost – Non mi stupisce che a farlo siano i clown dell’M5S. Sono quelli che cambiano il loro statuto per evitare l’obbligo di dimissioni della Raggi di fronte a una valanga di indagini e di avvisi di garanzia e poi si scoprono manettari sugli avversari politici”.

Il senatore Felice Casson ci tiene a precisare: “Non è che non sappiamo cosa rappresenti Lotti. Ma queste considerazioni vengono in secondo piano”. E aggiunge: “Noi stiamo al merito delle notizie che stanno uscendo: riteniamo doveroso che il ministro faccia un gesto politico significativo e che lo faccia subito”. Farlo subito, dunque. Cioè prima che si arrivi a dover votare la mozione di sfiducia nei confronti del ministro dello Sport presentata, sia alla Camera sia al Senato, dal Movimento Cinque Stelle e che i grillini hanno chiesto di calendarizzare immediatamente. Una votazione che rischierebbe di mettere in difficoltà alcuni esponenti dei nuovi gruppi parlamentari di Mdp, restii a compiere un gesto dichiaratamente ostile nei confronti dell’esecutivo Gentiloni. Ragiona la senatrice Lucrezia Ricchiuti: “Se mi si chiede di giudicare la gravità dei fatti che stanno emergendo, è chiaro che non potrei che pretendere un atto di responsabilità da parte di Lotti”. Però? “Però ci sono considerazioni politiche più generali: abbiamo affermato di voler sostenere Gentiloni, in una fase così delicata per il Paese. Aprire una crisi di governo senza avere neppure una legge elettorale valida sarebbe da irresponsabili”. “Retropensieri che non mi appartengono”, taglia corto, invece, Claudio Fava, compagno di partito della Ricchiuti a Montecitorio: “Io la mozione di sfiducia dei Cinquestelle la voterei, semplicemente”. Insomma, la questione è delicata: appoggiare o non appoggiare i pentastellati nella richiesta di dimissioni, rischiando di fare uno sgambetto a Gentiloni? “Decideremo al momento opportuno riunendo i gruppi”, prende tempo Alfredo D’Attorre.

Ma in realtà delle conversazioni informali, nei corridoi di Palazzo Madama, ci sono già state tra i senatori di Mdp. “Ne abbiamo parlato a lungo. Vogliamo arrivare ad una posizione condivisa da parte di tutto il gruppo – racconta Casson – ma che al contempo rispetti le sensibilità dei singoli”. E il problema della fedeltà a Gentiloni? “Non chiedetene conto a me. Io a questo governo non l’ho mai votata la fiducia”, scherza, per poi aggiungere: “Mi rendo conto però che per altri è meno facile decidere”.

Ecco spiegato, allora, perché Bersani e compagni provano a giocare d’anticipo, risolvendo la questione prima di doversi pronunciare in Aula sulla mozione di sfiducia. E dunque, intravedendo peraltro la possibilità di indebolire Renzi nella sua corsa per il Congresso, pretendono sin d’ora un sostanziale ridimensionamento del ruolo di Lotti. Sposano quindi la linea dettata da Gianni Cuperlo, al contempo determinato e sibillino nell’invocare un chiarimento da parte dell’ex premier e nel chiedere a Lotti “un passo di lato” ma “non le dimissioni”. E qui sta il problema: in cosa dovrebbe consistere, effettivamente, questo “passo di lato”? “Vedremo”, risponde Casson, convinto che “prima bisognerà leggere nel dettaglio il contenuto della mozione dei Cinque Stelle”. Trovare la sintesi non è facile. Per ora ci si sente dire che “Lotti non può restare al suo posto”, ma al contempo che “non è detto che si debba dimettere”. Posizione non esattamente cristallina.

Poi a fare chiarezza arriva Arturo Scotto, ex capogruppo di Sel alla Camera e leader dei transfughi di Sinistra Italiana confluiti in Mdp. “Ciò che è realistico pretendere nell’immediato, e che io ho proposto, è che a Lotti vengano ritirate le deleghe al Cipe e all’editoria”. Deleghe che il giovane ministro di Samminiatello aveva già quando era sottosegretario a Palazzo Chigi con Renzi, e che ha mantenuto – provocando non pochi malumori anche tra i suoi colleghi di governo – dopo l’insediamento di Gentiloni a Palazzo Chigi. Un azzoppamento ma non una defenestrazione, dunque? Scotto consiglia di essere più sottili, nel giudizio: “Dover rinunciare alle deleghe, sostanzialmente, significherebbe per lui non essere un vero e proprio ministro. O quantomeno non governare. Se poi dovesse decidere di dimettersi del tutto, ben venga”.

(fonte)

Lotti dice basta. Ma esattamente, basta a cosa?

Il ministro Luca Lotti (diventato ministro per il merito di essere amico d’infanzia di Renzi) perde la pazienza come suo solito lanciando una dura invettiva attraverso il suo profilo facebook.

«Se non fosse una cosa seria, ci sarebbe da ridere. Oggi – scrive Luca Lotti – il Movimento 5 Stelle ha presentato nei miei confronti la mozione di sfiducia. Si parla di tangenti, di arresti, di appalti. Tutte cose dalle quali sono totalmente estraneo.
Per essere ancora più chiaro: non mi occupo e non mi sono mai occupato di gare Consip, non conosco e non ho mai conosciuto il dottor Romeo.
La verità è che due mesi fa mi hanno interrogato su una presunta rivelazione di segreto d’ufficio. Si tratta di un reato che si ripete tutti i giorni in alcune redazioni ma che io non ho mai commesso. Lo ripeto con forza e sfido chiunque oggi dica il contrario ad attendere la conclusione di questa vicenda così paradossale.»

In questi anni abbiamo assistito alle reazioni più disparate e scomposte di fronte alle indagini della magistratura e talvolta anche alle giuste dichiarazioni di innocenza poi corroborate dalle sentenze. Resta da capire però perché (e in base a quale criterio) Lotti dovrebbe pretendere che non si parli di un’inchiesta che, se confermata, risulterebbe essere forse una delle più “alte” e gravi della Seconda Repubblica.

 

(continua su Left)