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Cortocircuito

Tante promesse per nulla

Niente, gli è andata male anche questa: Salvini ci teneva così tanto a fare il martire per il suo processo che avrebbe dovuto cominciare il prossimo 4 luglio, quello che lo vede imputato per sequestro di persona per il cosiddetto “caso Gregoretti” quando 131 migranti rimasero per quattro giorni su una nave militare italiana prima dello sbarco ad Augusta il 31 luglio del 2019. Ci teneva moltissimo Salvini perché avrebbe potuto mettere in scena la trama del povero perseguitato che viene messo all’angolo dalla magistratura cercando un legame (che non c’è) con la vicenda delle orrende intercettazioni del magistrato Palamara. E invece niente. «C’è mezza Italia ferma però mi è arrivata una convocazione a Catania per il 4 luglio», aveva dichiarato il leader leghista e invece il presidente dell’ufficio del giudice dell’udienza preliminare Nunzio Sarpietro è stato costretto al rinvio: «I nostri ruoli sono stati travolti dallo stop per l’emergenza coronavirus, ci sono migliaia di processi rinviati che hanno precedenza e ho dovuto spostare l’inizio del processo che vede imputato il senatore Salvini ad ottobre», spiega. E anche sui dubbi di un processo ingiusto Sarpietro tranquillizza l’ex ministro: «Stia tranquillo il senatore Salvini, avrà un processo equo, giusto e imparziale come tutti i cittadini. Né io né nessun giudice che si è occupato di questo fascicolo abbiamo nulla a che spartire con Palamara. E sono d’accordo con lui: quelle intercettazioni tra magistrati sono una vergogna».

Tutto fermo, quindi e niente scontro giudiziario come quelli che piacciono così tanto al centrodestra eppure l’ombra di Salvini, al di là delle vicende processuali, continua a pesare su questo governo e a essere un macigno per questo centro sinistra che si ritrova alleato con gli stessi alleati che furono di Salvini, con lo stesso presidente del Consiglio che celebrò proprio i decreti sicurezza e con un’aria stagnante per quello che riguarda il futuro prossimo sul tema. “Discontinuità”, avevano promesso proprio all’inizio del Conte bis. In molti si ricordano che le due leggi estremamente restrittive sull’immigrazione furono ampiamente contestate da buona parte del Partito democratico, in molti si ricordano le promesse che furono fatte e poi ripetute e in molti si ricordano che furono proprio i maggiorenti democratici a dirci di stare tranquilli che sarebbe cambiato tutto e che si sarebbe cancellato presto quell’abominio. Niente di niente. I decreti sicurezza sono lì e dopo otto mesi non sono stati cambiati. Non sono nemmeno state apportate le modifiche che addirittura il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, aveva chiesto in una sua comunicazione ufficiale. E se è vero che il numero di persone che cercano di attraversare il Mediterraneo è diminuito in questi primi mesi dell’anno è altresì vero che dopo la pandemia sicuramente ci si ritroverà di fronte allo stesso identico problema, con le stesse identiche strumentalizzazioni di Salvini (e della ringalluzzita Meloni) e ancora una volta si assisterà al cortocircuito del governo che tiene insieme quelli che andavano a visitare le barche tenute alla deriva di Salvini e quegli stessi che con Salvini definivano «taxi del mare» le navi delle Ong. Sono diverse le proposte di modifica depositate nei mesi: la riduzione delle multe che i decreti prevedono per le navi Ong impegnate nei salvataggi in mare (su cui anche Mattarella aveva avuto da ridire), il ripristino di alcune forme di protezione internazionale per rendere più facile la regolarizzazione delle persone sbarcate nonché maggiori investimenti nel sistema di accoglienza diffusa, quella che ha sempre funzionato meglio coinvolgendo piccoli gruppi in piccole strutture sparse sul territorio italiano. Niente di niente. Rimane solo qualche parola delle poche interviste rilasciate dalla ministra dell’Interno Lamorgese, l’ultima all’inizio di questa settimana, che ha più volte ripetuto di non essere favorevole allo stravolgimento delle leggi. A posto così. Figuratevi, tra l’altro, se in un contesto del genere si possa anche solo lontanamente parlare di ius soli o di ius culturae che erano altri capisaldi di una certa sinistra progressista che urlava ad alto volume contro Salvini e che ora si è inabissata in un penoso silenzio.

Ma è rimasto tutto fermo? No, no, è andata addirittura peggio di così: all’inizio di aprile il governo ha stabilito che i porti italiani non possono più essere definiti “porti sicuri” per le persone soccorse in mare e di nazionalità diversa da quella italiana, di fatto impedendo l’accesso delle navi delle Ong, riuscendo nel capolavoro di fare ciò che nemmeno Salvini era riuscito a fare con tutte le carte a posto. Nonostante la sanatoria approvata dal Consiglio dei ministri per rimpinzare di braccia i campi dell’ortofrutticolo e per garantire l’ingrasso della grande distribuzione il governo non ha nemmeno trovato il tempo di rivedere la legge Bossi-Fini del 2002 che di fatto rende impossibile trovare lavoro regolare per qualsiasi straniero extra comunitario. A metà dello scorso aprile dodici persone sono morte per sete e per annegamento (mentre altre cinquantuno sono state riportate nei lager libici) e anche l’indignazione per i morti sembra ormai essersi rarefatta. Il giornalista Francesco Cundari il 18 aprile ha colto perfettamente il punto: «Il governo ha abbandonato anche quel minimo di ipocrisia che ancora consentiva di accreditare una qualche differenza, almeno di principio, tra le parole d’ordine di Matteo Salvini e la linea della nuova maggioranza in tema di immigrazione, sicurezza e diritti umani», ha scritto per Linkiesta. Ed è proprio così: ormai la sinistra non finge nemmeno più di essere sinistra e spera solo che non si sollevi troppa polemica. Tutto si trascina in un desolante silenzio spezzato solo dalle inascoltate parole di qualche associazione umanitaria e dalla interrogazione parlamentare di Rossella Muroni sui respingimenti illegali, di cui leggerete nell’inchiesta di Leonardo Filippi che apre questo numero. Mentre in Parlamento ci si inginocchia in memoria di George Floyd qui ci si dimentica di quelli che senza ginocchio si riempiono i polmoni d’acqua per i criminali accordi che l’Italia continua a sostenere con la Libia e ci si dimentica di quelli che muoiono nelle baracche di qualche borgo di fortuna per schiavi.

Poi, in tutto questo, vedrete che arriverà il tempo in cui Salvini tornerà a fare il Salvini e tutti si mostreranno stupiti, ci diranno che vogliono fare tutto e che vogliono farlo presto e intanto sarà troppo tardi, intanto la gente muore, intanto gli elettori si allontanano e si ricomincia di nuovo daccapo.

L’editoriale è tratto da Left in edicola dal 19 giugno

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Mafia a Brescello: dove gli studenti hanno fatto la rivoluzione

Ho avuto il privilegio di conoscere Elia, uno dei ragazzi di Cortocircuito, e partecipare a qualche evento con lui. E me lo ricordo bene il suo viso con il sorriso di chi sa di fare le cose giuste e si rende conto di poter essere portatore di cambiamento. Per questo vale la pena leggersi l’articolo di Claudio Del Frate per il Corriere della Sera. E farne un esempio. Eccolo qui:

 

Tutto cominciò con un gruppo di studenti liceali che giravano armati di videocamera ponendo domande tanto candide quanto impertinenti: «Scusi, lei lo sa che Tizio è ritenuto vicino a famiglie della ‘ndrangheta?». E’ andata a finire che pochi giorni fa una sentenza del Consiglio di Stato ha confermato lo scioglimento del Comune di Brescello, in provincia di Reggio Emilia, per infiltrazioni mafiose. E i giudici, nelle loro motivazioni, danno atto che a scoperchiare il pentolone del malaffare era stata anche la videoinchiesta confezionata da quegli studenti animati da passione civile e curiosità. Il loro lavoro è finito infatti prima agli atti della maxi inchiesta «Aemilia», sul business dei clan calabresi tra Reggio, Modena e Bologna e ora nel fascicolo che ha sciolto il comune di Brescello e tolto la fascia tricolore al sindaco Marcello Coffrini, del Pd.

 

Tutti i favori alle famiglie

 

Brescello, noto al mondo per essere il borgo dove Guareschi ambientò le vicende di Peppone e don Camillo, si sarebbe risparmiato il triste primato di essere il primo comune dell’Emilia a essere esautorato per via dei condizionamenti subiti dalla malavita organizzata. Le carte esaminate dal Consiglio di Stato fanno riferimento a una dozzina di elementi che hanno condotto alla sentenza: varianti al prg richieste da ditte a cui non era stata chiesta l’informativa antimafia, l’assunzione di personaggi «legati a vario titolo a esponenti» delle cosche, l’affidamento di appalti a ditte poi raggiunte da interdittive antimafia, minacce a politici locali, sussidi sociali concessi a «soggetti controindicati». Ma al primo posto (almeno in ordine cronologico) figurano «le dichiarazioni e il comportamento del sindaco in occasione di una intervista alla tv web». Quest’ultima altro non è che un lungo colloquio concesso ai giovani dell’associazione antimafia «Cortociruito» composta da liceali e universitari di Reggio Emilia.

 

Un’onda che arriva fino in Germania

 

Elia Minari, 22 anni, oggi studente di giurisprudenza a Bologna, è stato uno degli autori di quel documentario amatoriale e all’inizio pubblicato (era l’agosto del 2014) senza troppe pretese su Youtube. «All’inizio siamo stati bersaglio di insulti, denigrazione, persino di una manifestazione di piazza ma oggi le cose sono cambiate – commenta Elia facendo un bilancio della sua esperienza -. Allora c’era chi sottovalutava o negava la presenza della ‘ndrangheta nella zona di Reggio Emilia, oggi nessuno la può negare. Ci sono le sentenze che parlano». Elia ha appena pubblicato un libro («Guardare la mafia negli occhi», Rizzoli) viene invitato nei Comuni, nelle università, persino in Germania e in altri paesi esteri a raccontare la sua parabola e a spiegare come sia pericoloso rimuovere il problema, specie nei luoghi dove la presenza mafiosa appare sfumata.

 

«Mafia? Non rispondo»

 

Ma cosa aveva detto davanti alla videocamere il sindaco di Brescello tanto da suscitare un simile vespaio? Che secondo lui Franco Grande Aracri, personaggio al centro dell’inchiesta «Aemilia» era una persona educata e per bene, di basso profilo e che contaminazioni mafiose in quel territorio non erano percepibili. Le inchieste hanno poi raccontato tutta un’altra storia, il cui filo è ripreso ora dalla sentenza del Consiglio di Stato. Che valorizza il lavoro di Elia e di «Cortocircuito». «L’atteggiamento di chiusura e sospetto – scrivono i giudici – non viene affermato sic et simpliciter ma si richiama alla reazione avuta da alcuni cittadini intervistati nel corso del servizio giornalistico i quali – solo a sentire nominare la parola mafia o il nome del condannato per reati di mafia residente in paese, hanno dichiarato di non voler rispondere».

 

Il boss? «Molto composto ed educato»

 

Si entra poi nel vivo delle frasi rilasciate dal sindaco ai ragazzi.«Sul punto – ecco un altro passaggio del verdetto – non è in alcun modo credibile che il primo cittadino vissuto e cresciuto a Brescello non fosse informato sulle vicende giudiziarie di Grande Aracri trattandosi di persona più che nota nel contesto locale. Le dichiarazioni del sindaco e in particolare le definizioni della persona come soggetto “sempre molto composto, educato, sempre vissuto a basso livello” sono da considerarsi senz’altro gravi e dimostrano scarsa sensibilità riguardo alla presenza della criminalità organizzata sul territorio comunale». Ma in più egli «nega consapevolmente tale fenomeno come dimostrano le risposte da lui date alla domanda se la criminalità organizzata costituisse un problema reale nel comune di Brescello».