L’antimafia felice (e pop)
Questa mattina devo dire di essermi svegliato con il sorriso dopo avere letto il pezzo di Lorenzo Misuraca. Dentro ci sono molti dei concetti sui cui lavoriamo da anni nei teatri, nelle scuole e nelle piazze e soprattutto c’è una maturità della crescita culturale antimafiosa che sarebbe il momento di praticare:
Nella rappresentazione mediatica, il militante antimafia è un eroe solitario che combatte contro un clan, spesso capeggiato da un boss, che possiede una forza di intimidazione e di controllo del territorio soverchiante. Lo schema del racconto popolare si ripete anche nella finzione cinematografica (dal commissario Cattani de La Piovra al commissario Scialoja di Romanzo Criminale) e nella riproposizione rimasticata e semplificata di figure di altra complessità quali Peppino Impastato, Pippo Fava, Giovanni Falcone, Don Pino Puglisi, per citarne alcuni. La figura cristologica dell’eroe solitario che va incontro al martirio, consapevolmente, e che lo accetta come un inevitabile prezzo da pagare per il riscatto del “popolo degli onesti” dal “giogo della mafia”.
Eppure quello non sono io. Quegli eroi non siamo noi. La spinta iniziale a elaborare un immaginario antimafia nuovo, o quantomeno differente, nasce da un istintivo sentimento di estraneità al racconto costantemente riproposto della battaglia culturale e della militanza contro le mafie.
L’associazione antimafie daSud si propone da diversi anni di riformulare il racconto di questa parte di storia del Paese. Un lavoro che si sviluppa lungo due linee programmatiche: la ricostruzione dei pezzi mancanti della memoria collettiva dell’antimafia e la dissoluzione della visione binaria e bidimensionale del conflitto tra valori antimafia e disvalori mafiosi.
Il recupero di memoria, messo in atto soprattutto con inchieste giornalistiche su storie di ‘ndrangheta e anti-‘ndrangheta, o attraverso dossier tematici, è profondamente intrecciato con il tema principale che qui si vuole affrontare: la costruzione di un nuovo immaginario antimafia.[1] Perché sono due tracce che si incrociano e avanzano di pari passo? Per spiegarlo in maniera più piana bisogna partire dal primo stereotipo che volevamo abbattere, quello che ci faceva dire con tanta forza “Quelli non siamo noi”. Si tratta della visione eroica della battaglia antimafia.
Al di là di quanto sia aderente alla realtà delle biografie (spesso il quadro è di tutt’altro tipo), il racconto del soldato che da solo lotta contro l’impero del male produce distorsioni e danni alla stessa lotta antimafia. Solitamente, nel racconto mediatico, l’eroe antimafia è un personaggio solitario, tendente alla depressione, e corrisponde a quello che si potrebbe descrivere come un profilo antisociale. A tal punto che la dimensione politica della sua lotta, anche quando è presente (si pensi ai casi di Peppino Impastato e Giuseppe Valarioti, entrambi militanti comunisti), viene del tutto espunta o rappresentata come un di più all’interno della storia.
Al contrario, i rappresentanti della criminalità organizzata sono descritti come una grande famiglia (certo, violenta e spietata, quando è necessario) dove i legami sono forti e stratificati, dove non mancano le occasioni di convivialità (difficile reperire un film sulla mafia che non contenga una scena ambientata in matrimoni, battesimi o serate al nightclub). L’eroe antimafioso si aggira invece solitario per le strade della città, in preda ai demoni dell’ossessione repressiva nei confronti del boss della storia, assediato dalla paura di essere ucciso da un momento all’altro.
Nella visione dicotomica di cui si diceva prima, scegliere il “pacchetto-immaginario” antimafia significa accettare di diventare estraneo alla propria comunità, rinunciare cioè a quella rete di relazioni e a quel riconoscimento di prossimità che invece spetta a chi sceglie di stare “dall’altra parte della barricata”. È evidente che in un’ottica di sensibilizzazione, soprattutto presso le fasce giovanili, pre e adolescenziali, questo racconto rischia di essere un formidabile boomerang.
La figura di Roberto Saviano – parliamo qui del personaggio pubblico, non della persona – rientra in pieno in quella visione cristologica dell’eroe antimafia. Il suo racconto è probabile che generi molta stima e poca emulazione tra i giovani. Chi farebbe una scelta netta, se quella scelta comportasse la rinuncia ai piaceri della vita e la condanna alla solitudine?
Il racconto binario mafie/antimafie produce così un meccanismo di delega pericoloso. Al tempo dei social network, dell’iper-informazione, sostenere pubblicamente un “eroe antimafia”, firmando una petizione in suo favore, comprando i suoi prodotti culturali, guardando le sue trasmissioni e condividendone su facebook i contenuti, viene assunto come fosse un impegno antimafia in prima persona. Ma in realtà i cambiamenti prodotti tramite il processo di delega all’eroe sono minimi e finiscono con l’indebolire la partecipazione diretta a vertenze reali sul territorio.
Per prima cosa, bisogna raccontare la complessità del contesto in cui si sviluppa la dinamica mafiosa e il suo contrasto. Dicevamo all’inizio: “quelli non siamo noi”. È questa la frase che chissà quanti ragazzi e ragazze hanno pensato di fronte a “lezioni antimafia” frontali, in cui il relatore descrive una realtà dai tratti netti in cui è quasi impossibile riuscire a identificarsi.
Raccontare le zone grigie, i punti di contatto tra legale e illegale, le faglie del sistema, l’assenza dello Stato, le leggi ingiuste che spingono i territori tra le braccia dei clan. Raccontare questo non poteva che produrre in noi e nella nostra comunicazione uno slittamento semantico centrale nel nostro lavoro.
L’ariete per sconfiggere le mafie non era la legalità, concetto pieno di insidie e con una forza centrifuga che conduce inevitabilmente alla visione dicotomica buoni/cattivi, o eroi/antieroi, bensì la giustizia sociale, che porta con sé il valore principale dei diritti che spettano a individui e comunità.
Un’antimafia che mira alla giustizia sociale, che parte dal racconto della complessità, anche dei lati meno rassicuranti e che di questa complessità si fa carico, non può che essere un’antimafia costruita collettivamente, in grado di coinvolgere strati sociali sempre più ampi e vari. Un’antimafia sociale. Un’antimafia che si pone l’obiettivo di raggiungere cerchie sociali e stili di vita che normalmente non provano alcun interesse per la questione, deve fare i conti con un linguaggio pop.
Mentre infatti nell’antimafia tradizionale il concetto di popolare è rilevabile soprattutto come folklore, come rivisitazione inerte di linguaggi che un tempo riuscivano a connettersi col sentire del tempo, e sono diventati strumento di auto-identificazione di una classe colta, per linguaggio pop abbiamo inteso i linguaggi artistici e creativi in grado di comunicare a ampie fette di popolazione, soprattutto giovanile.
Se appunto un certo tipo di immaginario antimafia rimane legato allo stereotipo folk, come la musica cantautoriale, “d’impegno”, il racconto che ci interessa è quello che passa per le culture metropolitane, come il writing, l’hip hop, il fumetto, in grado di agganciare fasce sociali e generazionali altrimenti precluse. Ma perché l’operazione vada a buon fine allo stile deve corrispondere un’adeguata cura della qualità del prodotto culturale.
E qui si arriva ad un altro punto debole dell’immaginario antimafia tradizionale. Così come altre battaglie che partono dal presupposto del miglioramento sociale, della correzione di storture all’interno di una comunità, sovente anche l’antimafia cade nella trappola di pensare che il messaggio sia il medium. In altre parole, che il presupposto alto valore etico della missione di sensibilizzazione, valga per se stesso come una forma di estetica, di qualità essenziale del prodotto.
Ma qualsiasi messaggio che voglia raggiungere utenti inizialmente non interessati, deve avere alcune caratteristiche basiche che nulla hanno a che fare con il suo valore etico. Deve essere “bello”, cioè qualitativamente valido, e deve essere “seducente” per il destinatario, promettergli qualcosa di cui ha bisogno. Al contrario abbiamo assistito e continuiamo ad assistere in parte a un immaginario antimafia sciatto, in molti casi parrocchiale nel tratteggiare il bene e il male, pervaso da una sottile arroganza del messaggio: questo film, questo libro, questo cantante, questo spettacolo, questo dibattito, è un prodotto antimafia, dunque devi farlo tuo, a prescindere dal fatto che sia noioso, banale, esteticamente rozzo.
Questo messaggio non funziona, o meglio: funziona solo con chi è già da questa parte della barricata e fa un consumo dell’immaginario antimafia in forma prevalentemente identitaria e autoconsolatoria. Ma la priorità è la creazione di una massa critica (intendendo con l’aggettivo non solo un livello quantitativo minimo necessario, ma anche la capacità di affrontare in maniera analitica la presenza delle mafie nei territori e i possibili strumenti di lotta), sempre più ampia, attraverso l’utilizzo consapevole di linguaggi creativi e dell’idea puntuale di società che si vuole veicolare.
([1] Cfr. i due volumi di Danilo Chirico e Alessio Magro, Il caso Valarioti, Round Robin, 2010; Dimenticati, Castelvecchi, 2012.)