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diffamazione

La condanna a Grillo vista dal paese dei cialtroni e degli avvoltoi

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Senza cadere nel gioco del “tutti ladri” perché “nessuno sia ladro” mi chiedo (e non trovo una risposta) se davvero sia da un’affermazione fatta da Grillo, come mille altre, contro una lobby di pensiero che si debba ripartire per mettere argine ad una classe politica che trova nell’iperbole detta un male minore rispetto alle spericolatezze etiche delle malefatte. Mi chiedo se qualcuno di noi abbia mai pensato di denunciare una delle milioni di bugie che ci vengono propinate quotidianamente, mi chiedo se davvero qualche magistrato non abbia mai intravisto un’apologia di reato nelle parole di una Santanchè qualsiasi, tanto per citarne una?

Ben venga la condanna per un linguaggio molesto di cui avremmo bisogno di liberarci per davvero ma allora ci dovrebbero essere decine di dirigenti politici condannati subito domani per “associazione politicante di bene pubblico per interesse privato”. Un reato così, una cosa da “inettitudine al governo” o un reato di cialtroneria o un rinvio a giudizio per atteggiamento avvoltoio. Perché altrimenti se ne colpisce uno senza sapere che sarà il santo e il martire della prossima incazzatura.

Ed è patetico un Paese che trasforma un comico in un Pertini o Mandela mentre gli altri con il sangue che gli gocciola in tasca ridono fuori scena.

Ne ho scritto qui.

‘Giornalismo d’inchiesta’: un po’ di chiarezza

Sono molti gli amici e colleghi che incorrono in denunce per diffamazione usate come avvertimenti morbidi per produrre un abbassamento generale di toni. Il giornalismo d’inchiesta cammina spesso sul crinale della calunnia contestata come prima reazione di chi si sente colpito in malafede e spesso in malafede incorre in un eccesso di difesa per proteggere un’impunità dall’informazione. La “sentenza Gabanelli” che ha sancito l’assoluzione della giornalista di Report ha chiarito molti punti importanti per la professione e più in generale sui confini giuridici della curiosità. Commentandola scrive l’avvocato Sabrina Peron:

La Corte di Cassazione, sezione penale, con la sentenza 27/2/2013 n. 9337, ha confermato l’assoluzione della giornalista Gabanelli, per un’inchiesta trasmessa dal programma Report sulle sofisticazioni dell’olio d’oliva. Secondo la Cassazione il risvolto del diritto all’espressione del pensiero del giornalista costituito al diritto della collettività ad essere informate non solo sulle notizie di cronaca ma anche sui temi sociali di particolare rilievo attinenti alla liberta, alla sicurezza, alla salute e agli altri diritti di interesse generale, sia operativo in concreto. Operativo evidentemente, alla condizione che, il sospetto e la denuncia siano esternati sulla base di elementi obiettivi e rilevanti. Difatti, nel giornalismo d’inchiesta il sospetto che non sia meramente congetturale o peggio ancora calunniatorio, deve mantenere il proprio carattere propulsivo e induttivo di approfondimenti, essendo autonomo e, di per sé, ontologicamente distinto dalla nozione di attribuzione di un fatto non vero.

E, come sottolinea la Peron, anche le sentenze passate tengono il punto:

Le inchieste giornalistiche consistono nel resoconto di attività di scavo, di ricerca ed indagine effettuate allo scopo di portare alla luce «verità nascoste», tramite il collegamento critico e ragionato di fatti, notizie e commenti (cfr. sull’argomento: AMADORE, L’inchiesta, in AA.VV, La professione del giornalista, CDG, Roma 2009, 113). Il giornalismo di inchiesta, è espressione più alta e nobile dell’attività di informazione; con tale tipologia di giornalismo, infatti, maggiormente si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche meritevoli, per il rilievo pubblico delle stesse (Cass. 2010/13269).

Le inchieste si distinguono, a seconda della tipologia, in investigative e conoscitive. Le prime ricercano della verità attraverso la ricostruzione di «vicende oscure le cui responsabilità rappresentano un mistero per la pubblica opinione» (Papuzzi Professione giornalista, Donzelli, 1998, 68). Quelle conoscitive, invece, informano «sulla società e la cultura del tempo in cui viviamo», non riguardano «avvenimenti precisi e specifici, come l’inchiesta di tipo investigativo», indagando invece i «fenomeni che segnano una società (Papuzzi Professione giornalista, cit.).

Al giornalismo di inchiesta, quale species del lavoro giornalistico, deve essere riconosciuta ampia tutela ordinamentale, tale da comportare in relazione ai limiti regolatori, dell’attività di informazione, qualegenus, già individuati dalla giurisprudenza di legittimità, una meno rigorosa e comunque diversa applicazione dell’attendibilità della fonte, fermi restando i limiti dell’interesse pubblico alla notizia e del linguaggio continente, ispirato ad una correttezza formale; è, infatti, evidente che nel giornalismo di inchiesta, viene meno l’esigenza di valutare l’attendibilità e la veridicità della provenienza della notizia, dovendosi ispirare il giornalista, nell’“attingere” direttamente l’informazione, principalmente ai criteri etici e deontologici della sua attività professionale, quali tra l’altro menzionati nell’ordinamento ex lege n. 69/1963 e nella Carta dei doveri (con particolare riferimento alla Premessa). Ne consegue che detta modalità di fare informazione non comporta violazione dell’onore e del prestigio di. soggetti giuridici, con relativo discredito sociale, qualora ricorrano: l’aggettivo interesse a rendere consapevole l’opinione pubblica di fatti ed avvenimenti socialmente rilevanti; l’uso di un linguaggio non offensivo e la non violazione di correttezza professionale. Inoltre, il giornalismo di inchiesta è da ritenersi legittimamente esercitato ove, oltre a rispettare la persona e la sua dignità, non ne leda la riservatezza per quanto in generale statuito dalle regole deontologiche in tema di trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica (Cass. 2010/13269).

E’ noto che giurisprudenza consolidata ritiene che il diritto di informazione possa esercitarsi anche qualora ne derivi una lesione dell’altrui reputazione, prestigio o decoro, a condizione che si tratti di un argomento di pubblico interesse (c.d. pertinenza), che siano rispettati i limiti dell’obiettività e della correttezza della forma espressiva (c.d. continenza) e che l’informazione sia sostanzialmente veritiera; quest’ultimo in uno con il conseguente dovere di esaminare, verificare e controllare – in termini di adeguata serietà professionale – la consistenza della relativa fonte di informazione (ex multis Cass. 5081/2010).

L’art. 21 Cost. – analogamente all’art. 10 CEDU – non protegge unicamente le idee favorevoli o inoffensive o indifferenti, nei confronti delle quali non si pone alcuna esigenza di tutela, essendo al contrario principalmente rivolto a garantire la libertà proprio delle opinioni che urtano, scuotono o inquietano (Cass. 25138/2007).

Sulla base di tale principio, la recente sentenza della Corte di cassazione che qui si pubblica, ribadisce che il «giornalismo di denuncia è tutelato dal principio costituzionale in materia di diritto alla libera manifestazione del pensiero, quando indichi motivatamente e argomentatamente un sospetto di illeciti, con il suggerimento di una direzione di indagine agli organi inquirenti o una denuncia di situazioni oscure che richiedono interventi normativi per poter essere chiarite».

Dunque – salvo il caso in cui il sospetto sia obiettivamente del tutto assurdo, e sempreché sussista anche il requisito del’interesse pubblico all’oggetto dell’indagine giornalistica – l’operato dell’autore del servizio è destinato a ricevere una tutela primaria rispetto a colui su cui il sospetto è destinata eventualmente a ricadere.

Come da tempo enunciato dalla giurisprudenza, l’interesse pubblico «è qualcosa di profondo e di serio, rivolto come esso è a permettere al lettore di rendersi conto delle situazioni di vita narrate al solo fine più generale della possibilità concreta d’insegnamento per la collettività e di miglioramento della convivenza, onde la pretesa coincidenza tra interesse sociale ed esigenze del pubblico può anche mancare» (App. Roma, 16.01.1991, FI, 1992, I, 942).

In particolare il «risvolto del diritto all’espressione del pensiero del giornalista costituito al diritto della collettività ad essere informate non solo sulle notizie di cronaca ma anche sui temi sociali di particolare rilievo attinenti alla liberta, alla sicurezza, alla salute e agli altri diritti di interesse generale, sia operativo in concreto. Operativo evidentemente, alla condizione che, il sospetto e la denuncia siano esternati sulla base di elementi obiettivi e rilevanti. Difatti, nel giornalismo d’inchiesta il sospetto che non sia meramente congetturale o peggio ancora calunniatorio, deve mantenere il proprio carattere propulsivo e induttivo di approfondimenti, essendo autonomo e, di per sé, ontologicamente distinto dalla nozione di attribuzione di un fatto non vero».

Per questo la sentenza vale la pena leggerla e conservarla (se volete da qui: Cass 9337 2013 giornalismo inchiesta)

Nessuno è LIBERO di diffamare

2013-01-31-liberoMa c’è un limite che nessuna strategia può travalicare, al di là dei casi specifici, che valgono per chiunque, a destra come a sinistra, e a cui bisogna comunque concedere la possibilità di chiarire e spiegare. Quel limite è rappresentato dalla verità. Una notizia pubblicata in prima come in ultima pagina deve contenere un minimo di verità, anche una briciola, un pizzico, avere quantomeno un fondamento concreto. È la base del giornalismo. Ma, ripeto, c’è giornalismo e giornalismo. Giulio Cavalli si è trovato in mezzo alle frecce sudice di un giornalismo mistificatore e moralmente infimo. Il consigliere di Sel, l’uomo che ha sfidato la ‘ndrangheta a Milano e in Lombardia, una mattina di gennaio (il 31) ha trovato la sua foto in prima pagina, messo in mezzo a quelli che il quotidiano di Belpietro definisce “gli impresentabili”, ossia i consiglieri indagati per il caso delle spese folli in Regione.

Una riflessione di Massimiliano Perna. Da leggere.

Siamo tutti Sallusti?

Prima di rispondere sarebbe il caso di leggere Chiara Lalli e il suo articolo per Il Mucchio:

Perché qui la questione non è essere contrari all’aborto (opinione) ma avere raccontato il falso, avere descritto la ragazzina come vittima di crudeli carnefici e i genitori in combutta con il giudice per costringerla ad abortire, anzi per stapparle il figlio dai visceri. Sulla diffamazione si potrebbe discutere a lungo: vogliamo considerarlo reato senza vittima, siamo pronti a prenderci tutte le conseguenze? Siamo sicuri che non ci sia una vittima e come potremmo difenderci se qualcuno scrive su un giornale che siamo dei serial killer? Che pensare dell’incitazione all’odio razziale o dell’omofobia? In Italia il primo è reato come crimine d’odio, sulla seconda siamo terribilmente evasivi. Si potrebbe – e dovrebbe – discutere sul tipo di pena e sull’inopportunità del punire l’intemperanza del linguaggio, anche se le critiche si basano su fatti veri. Il carcere non può che apparire spropositato e insensato – ma anche giocare a fare i martiri dopo avere rifiutato qualsiasi rimedio lo è. Prima di decidere cosa pensare è consigliabile leggere almeno Sallusti secondo me di Federica Sgaggio, 23 settembre 2012 eLibertà di diffamazione di Michael Braun, 27 settembre 2012, Internazionale. Così siamo pronti per l’ultima puntata, cioè il cosiddetto SalvaSallusti. È lo stesso Sallusti a commentare il 13 novembre sul suo profilo “Mi sento meno solo. Con la legge approvata dal Senato a San Vittore finiremo in tanti”.