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diritti umani

Lo schiaffo della Lega al popolo bielorusso: si astiene su Lukashenko per non scontentare Putin

Tanto tuonò che finalmente piovve. Il Parlamento Europeo “non riconosce il risultato delle elezioni presidenziali tenute in Bielorussia il 9 agosto” perché portate avanti “in palese violazione degli standard riconosciuti a livello internazionale” e non riconoscerà Lukashenko presidente “una volta che il suo mandato corrente sarà giunto al termine”, cioè dopo il 5 novembre. È il testo della risoluzione che è stata votata ieri con 574 sì, 37 no e 82 astensioni. La protesta bielorussa, del resto, continua a essere viva e forte in tutto il Paese e la presa di posizione dell’Europa finalmente indica una netta scelta di campo che ci si aspettava da giorni.

Ursula von Der Leyen ha detto nettamente che “i cittadini devono essere liberi di decidere il futuro da soli. Non sono pedine sulla scacchiera di qualcun altro”, rinforzano le richieste di chi chiede delle liberi elezioni che si svolgano in maniera democratica. In Bielorussa continua a essere detenuta Maria Kolesnikova, che aveva strappato il proprio passaporto per evitare di essere deportata in Ucraina. Del resto il senso dell’Europa è tutto qui (quando funziona): ciò che accade agli altri ci deve interessare, la difesa dei diritti degli altri è un nostro dovere.

Spicca, al solito, la vigliaccheria dell’astensione della Lega di Matteo Salvini, che per non scontentare il suo amico Putin invece ha deciso di non decidere, come spesso gli accade quando c’è da difendere qualche prepotente del mondo. Ed è il solito Salvini che mostra un’irrefrenabile affetto per i tiranni, per l’amore dei “pieni poteri” che non sempre vengono esercitati secondo le regole. Lo fa con Orban (in numerosi occasioni la Lega in Europa si è schierata in difesa del dittatore ungherese) e continua con Lukashenko. Ed è un segnale politico che deve essere preso terribilmente sul serio perché dimostra un certo modo di intendere il potere che non è di destra o di sinistra (il partito di Giorgia Meloni ha votato compatta per la risoluzione) e perché ancora una volta rinsalda l’asse delle personalità peggiori del mondo.

In tutto questo, ovviamente, non è nemmeno stata data una giustificazione politica dalla Lega. Silenzio e petto in fuori. E se è vero che un politico si giudica dalle sue frequentazioni allora il quadro è chiaro, chiarissimo e sconfortante. L’aggressione per politica, per qualcuno, continua a essere una modalità di governo. E tutto questo è assolutamente inaccettabile.

Leggi anche: 1. “Torturato da forze russe pro-Lukashenko in un campo di concentramento”: la denuncia di un attivista bielorusso a TPI / 2. Bielorussia, la dissidente Tarasevich a TPI: “Lukashenko usa il Covid per violare i diritti umani. Vuole annetterci alla Russia” / 3. Quei ragazzi che (grazie a Internet) possono svegliare la Bielorussia dalla dittatura dopo 30 anni

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Morti di fame

L’avvocata Ebru Timtik, prima di lei i musicisti del Grup Yorum. Morti per le conseguenze della loro protesta in difesa della giustizia. Accade nella Turchia di Erdogan, graziato dal silenzio dell’Europa

È una storia che gocciola sangue anche se non c’è sangue in giro perché qui i morti muoiono per consunzione. Giovedì sera a Istanbul è morta Ebru Timtik, avvocata che da 238 giorni era in sciopero della fame nelle prigioni turche per chiedere un processo equo per sé e per 17 colleghi che erano accusati di legami con il Fronte rivoluzionario della liberazione popolare (Dhkp/C), un gruppo di estrema sinistra considerato formazione terroristica dal governo.

Timtik aveva 42 anni e si occupava di diritti umani da sempre, era stata condannata nel 2019 a 13 anni e sei mesi di carcere, il suo accusatore è stato ritenuto non credibile, lei contestava l’iter giudiziario che l’aveva portata alla condanna. In Turchia Erdogan da anni, graziato dal silenzio dell’Europa, utilizza l’accusa di terrorismo per fare piazza puliti degli oppositori ritenuti scomodi al governo. Timtik faceva parte dell’associazione contemporanea degli avvocati, specializzata nella difesa di casi politicamente scomodi, “se l’era andata a cercare”, come commenterebbe qualche pavido nostrano che insegna e ci vorrebbe insegnare che per non avere problemi conviene sempre farsi “i fatti suoi”. Ebru Timtik aveva difeso anche la famiglia di Berkin Elvan, un adolescente vittima delle ferite riportate durante le proteste antigovernative a Gezi Park nel 2013.

Un mese fa il tribunale di Istanbul aveva negato la richiesta di scarcerazione di Ebru Timtik dichiarando che era “in salute” e perfino la Corte Costituzionale aveva negato, qualche settimana fa, la scarcerazione. Con Timtik in sciopero della fame c’era anche il suo collega Aytaç Ünsal, anche lui incarcerato, che con un filo di voce dal letto di ospedale ha detto di essere ancora più convinto di quello che sta facendo e della sua lotta, che vorrebbe che la battaglia di giustizia continui, anche lui è in pericolo di vita. Sono 18 gli avvocati condannati per un totale di 159 anni, un mese e 30 giorni di reclusione: tra le accuse nei loro confronti c’è anche quella di avere parlato con i loro clienti. Accusati di avere fatto il proprio lavoro. I testimoni del processo erano tutti anonimi e in carcere, evidentemente ricattabili. A maggio tre musicisti membri del gruppo Grup Yorum, anche loro accusati di terrorismo, si sono lasciati morire d’inedia per protestare contro Erdogan.

È una notizia enorme, enorme per l’altezza del pensiero di chi muore per degli ideali ancora nel 2020, qui vicino a noi, in un Paese con cui tutta Europa briga fingendo di non vedere, ed è enorme perché è una lezione di difesa della giustizia anche di fronte alla legge. Morti di fame per difendere i propri diritti, sembra una storia che arriva dal secolo scorso. Durante il funerale di Ebru Timtik sono stati sparati lacrimogeni contro i giovani che vi partecipavano.

Accade qui, vicino a noi. Lo sentite questo fragoroso silenzio?

Buon lunedì.

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“A Beirut, come a Damasco, è morta la speranza”: parla lo scrittore siriano Shady Hamadi

Shady Hamadi è uno scrittore di origine siriana e da sempre è un attento osservatore del Medio Oriente. Esilio dalla Siria. Una lotta contro lindifferenza”, edito da Add Editore è il suo ultimo libro.

Lesplosione a Beirut ha acceso le voci di solidarietà falsi cortesi degli esponenti politici con strafalcioni come quello di Manlio Di Stefano. Che sensazione ti provoca la superficialità della politica italiana sul Medio Oriente?
Mi provoca delusione perché l’Italia ha, geograficamente e storicamente, un ruolo di primo piano nei rapporti con il Medio Oriente. Geograficamente perché siamo la porta verso l’Europa; storicamente a causa della presenza araba, durata secoli, nel sud Italia. Gli sbagli eclatanti, come quello di Di Stefano, stanno diventando una prassi (a destra e a sinistra) che non solleva neanche più l’indignazione. Ricordo gli elogi di Renzi al suo “amico”Al Sisi, poco prima della morte di Regeni. O, ancora prima, nel 2011 Franco Frattini che elogiava la Siria per la sua stabilità durante l’ondata delle primavere arabe. Il risultato è davanti a tutti noi.

Come valuti la politica estera del governo italiano?
Sclerotica perché c’è incoerenza nelle azioni della Farnesina a causa della nostra instabilità politica. Prendiamo l’Egitto. Con Renzi, prima dell’uccisione di Regeni, i rapporti erano idilliaci. Ucciso il ricercatore, abbiamo virato completamente. Salvo poi rimandare l’ambasciatore al Cairo. Oggi che cosa rimane del nostro approccio verso l’Egitto, la questione della tutela dei diritti umani? Nulla, a parte la vicenda di Patrick Zaki che non cade nel dimenticatoio grazie all’attenzione di alcuni movimenti di sinistra e Amnesty.

Come valuti lattenzione della politica occidentale sul Medio Oriente?
Dovevamo accompagnare i paesi arabi verso una transizione, sostenendo quel corpo sociale che si chiama società civile ma non lo abbiamo fatto. Preferiamo ancora oggi sostenere militari che con la forza riportano lo status quo antecedente. Guardiamo alla Libia. Parte della comunità internazionale sostiene Haftar; altri Sarraj. All’interno dell’Unione Europea ci sono Stati che, seguendo il proprio interesse nazionale, sostengono gruppi differenti.

Cosa bisognerebbe avere il coraggio di dire/fare?
Abbiamo sbagliato. L’ammissione di colpa dovrebbe arrivare da chi si è seduto in parlamento in Italia come nella Ue. Hanno sbagliato nel guardare al Medio Oriente con i soliti preconcetti: se non c’è un dittatore c’è il fondamentalismo. Come se questi arabi non fossero capaci di emanciparsi da questi due mali, creando una terza via che li conduca verso la democrazia. Il male assoluto, secondo questa vulgata alla Magdi Allam, sarebbe l’Islam. Semplicisticamente sarebbe la religione a bloccare ogni trasformazione.

Da scrittore, con la tua storia, come valuti questo momento internazionale?
É una restaurazione. A Beirut come a Damasco manca la speranza. Sto parlando proprio del sentimento. Sperare di cambiare, di migliorare vita… la gioventù vive nel pessimismo. Questo stato di cose ha prodotto un aumento vertiginoso dei suicidi. Decine di giovani si tolgono la vita esausti non solo di vivere nella miseria ma di non vedere mai un cambiamento. Di chi è la responsabilità di queste morti?

Che ne pensi del rifinanziamento italiano alla Libia?
Abbiamo Salvini che grida contro gli sbarchi. Vuole che si fermino ma lui ed altri hanno firmato per il rifinanziamento della guardia costiera libica da più parti accusata di gestire il traffico di migranti con le mafie locali. Diamo soldi ai trafficanti. Ho idea che chi grida alla chiusura dei porti voglia il contrario. I migranti servono come merce di scambio elettorale, in barba alla sofferenza di quei nei lager.

In Italia haisentito” razzismo?
Personalmente no. Mi definisco da sempre sirio-brianzolo anche se ultimamente mi sento solo brianzolo. Penso che gli italiani non siano razzisti. Credo esista molta ignoranza. Molti politici la sfruttano perché viviamo in una epoca di slogan e non di discorsi culturali. Vede, oggi non vogliamo prenderci la briga di capire perché un nigeriano scappa da Lagos o un siriano da Aleppo. Vogliamo tutto subito, anche le spiegazioni. Il politico improvvisato che ormai dilaga nei talk show e nelle aule un tempo frequentate da Berlinguer, regala slogan. È un ignorante, che non sa che i libici abitano in Libia e che Pinochet non era il dittatore del Venezuela. Non è umile. Infatti non chiede scusa. Dobbiamo ripartire dalla cultura.

Leggi anche: 1. Libano: devastante esplosione al porto di Beirut. Le impressionanti immagini della deflagrazione / 2. Libano, ferito un militare italiano in un’esplosione al porto di Beirut / 3. Libano, esplosione al porto di Beirut: incidente o attentato? Tutte le ipotesi

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Tante promesse per nulla

Niente, gli è andata male anche questa: Salvini ci teneva così tanto a fare il martire per il suo processo che avrebbe dovuto cominciare il prossimo 4 luglio, quello che lo vede imputato per sequestro di persona per il cosiddetto “caso Gregoretti” quando 131 migranti rimasero per quattro giorni su una nave militare italiana prima dello sbarco ad Augusta il 31 luglio del 2019. Ci teneva moltissimo Salvini perché avrebbe potuto mettere in scena la trama del povero perseguitato che viene messo all’angolo dalla magistratura cercando un legame (che non c’è) con la vicenda delle orrende intercettazioni del magistrato Palamara. E invece niente. «C’è mezza Italia ferma però mi è arrivata una convocazione a Catania per il 4 luglio», aveva dichiarato il leader leghista e invece il presidente dell’ufficio del giudice dell’udienza preliminare Nunzio Sarpietro è stato costretto al rinvio: «I nostri ruoli sono stati travolti dallo stop per l’emergenza coronavirus, ci sono migliaia di processi rinviati che hanno precedenza e ho dovuto spostare l’inizio del processo che vede imputato il senatore Salvini ad ottobre», spiega. E anche sui dubbi di un processo ingiusto Sarpietro tranquillizza l’ex ministro: «Stia tranquillo il senatore Salvini, avrà un processo equo, giusto e imparziale come tutti i cittadini. Né io né nessun giudice che si è occupato di questo fascicolo abbiamo nulla a che spartire con Palamara. E sono d’accordo con lui: quelle intercettazioni tra magistrati sono una vergogna».

Tutto fermo, quindi e niente scontro giudiziario come quelli che piacciono così tanto al centrodestra eppure l’ombra di Salvini, al di là delle vicende processuali, continua a pesare su questo governo e a essere un macigno per questo centro sinistra che si ritrova alleato con gli stessi alleati che furono di Salvini, con lo stesso presidente del Consiglio che celebrò proprio i decreti sicurezza e con un’aria stagnante per quello che riguarda il futuro prossimo sul tema. “Discontinuità”, avevano promesso proprio all’inizio del Conte bis. In molti si ricordano che le due leggi estremamente restrittive sull’immigrazione furono ampiamente contestate da buona parte del Partito democratico, in molti si ricordano le promesse che furono fatte e poi ripetute e in molti si ricordano che furono proprio i maggiorenti democratici a dirci di stare tranquilli che sarebbe cambiato tutto e che si sarebbe cancellato presto quell’abominio. Niente di niente. I decreti sicurezza sono lì e dopo otto mesi non sono stati cambiati. Non sono nemmeno state apportate le modifiche che addirittura il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, aveva chiesto in una sua comunicazione ufficiale. E se è vero che il numero di persone che cercano di attraversare il Mediterraneo è diminuito in questi primi mesi dell’anno è altresì vero che dopo la pandemia sicuramente ci si ritroverà di fronte allo stesso identico problema, con le stesse identiche strumentalizzazioni di Salvini (e della ringalluzzita Meloni) e ancora una volta si assisterà al cortocircuito del governo che tiene insieme quelli che andavano a visitare le barche tenute alla deriva di Salvini e quegli stessi che con Salvini definivano «taxi del mare» le navi delle Ong. Sono diverse le proposte di modifica depositate nei mesi: la riduzione delle multe che i decreti prevedono per le navi Ong impegnate nei salvataggi in mare (su cui anche Mattarella aveva avuto da ridire), il ripristino di alcune forme di protezione internazionale per rendere più facile la regolarizzazione delle persone sbarcate nonché maggiori investimenti nel sistema di accoglienza diffusa, quella che ha sempre funzionato meglio coinvolgendo piccoli gruppi in piccole strutture sparse sul territorio italiano. Niente di niente. Rimane solo qualche parola delle poche interviste rilasciate dalla ministra dell’Interno Lamorgese, l’ultima all’inizio di questa settimana, che ha più volte ripetuto di non essere favorevole allo stravolgimento delle leggi. A posto così. Figuratevi, tra l’altro, se in un contesto del genere si possa anche solo lontanamente parlare di ius soli o di ius culturae che erano altri capisaldi di una certa sinistra progressista che urlava ad alto volume contro Salvini e che ora si è inabissata in un penoso silenzio.

Ma è rimasto tutto fermo? No, no, è andata addirittura peggio di così: all’inizio di aprile il governo ha stabilito che i porti italiani non possono più essere definiti “porti sicuri” per le persone soccorse in mare e di nazionalità diversa da quella italiana, di fatto impedendo l’accesso delle navi delle Ong, riuscendo nel capolavoro di fare ciò che nemmeno Salvini era riuscito a fare con tutte le carte a posto. Nonostante la sanatoria approvata dal Consiglio dei ministri per rimpinzare di braccia i campi dell’ortofrutticolo e per garantire l’ingrasso della grande distribuzione il governo non ha nemmeno trovato il tempo di rivedere la legge Bossi-Fini del 2002 che di fatto rende impossibile trovare lavoro regolare per qualsiasi straniero extra comunitario. A metà dello scorso aprile dodici persone sono morte per sete e per annegamento (mentre altre cinquantuno sono state riportate nei lager libici) e anche l’indignazione per i morti sembra ormai essersi rarefatta. Il giornalista Francesco Cundari il 18 aprile ha colto perfettamente il punto: «Il governo ha abbandonato anche quel minimo di ipocrisia che ancora consentiva di accreditare una qualche differenza, almeno di principio, tra le parole d’ordine di Matteo Salvini e la linea della nuova maggioranza in tema di immigrazione, sicurezza e diritti umani», ha scritto per Linkiesta. Ed è proprio così: ormai la sinistra non finge nemmeno più di essere sinistra e spera solo che non si sollevi troppa polemica. Tutto si trascina in un desolante silenzio spezzato solo dalle inascoltate parole di qualche associazione umanitaria e dalla interrogazione parlamentare di Rossella Muroni sui respingimenti illegali, di cui leggerete nell’inchiesta di Leonardo Filippi che apre questo numero. Mentre in Parlamento ci si inginocchia in memoria di George Floyd qui ci si dimentica di quelli che senza ginocchio si riempiono i polmoni d’acqua per i criminali accordi che l’Italia continua a sostenere con la Libia e ci si dimentica di quelli che muoiono nelle baracche di qualche borgo di fortuna per schiavi.

Poi, in tutto questo, vedrete che arriverà il tempo in cui Salvini tornerà a fare il Salvini e tutti si mostreranno stupiti, ci diranno che vogliono fare tutto e che vogliono farlo presto e intanto sarà troppo tardi, intanto la gente muore, intanto gli elettori si allontanano e si ricomincia di nuovo daccapo.

L’editoriale è tratto da Left in edicola dal 19 giugno

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Cecilia Strada a TPI: “Vendere armi all’Egitto vuol dire sostenere torture e uccisioni come quella di Regeni”

Cecilia Strada a TPI: “Vendere armi all’Egitto vuol dire sostenere torture e uccisioni come quella di Regeni”

Cecilia Strada è una filantropa e saggista italiana, ex presidente di Emergency e figlia dei fondatori Teresa Sarti Strada e Gino Strada. La guerra la conosce perché l’ha vissuta da sempre in prima persona. L’abbiamo intervistata per TPI.
Cecilia Strada, alla fine l’Italia ha deciso di vendere armi all’Egitto. Come la vede?
Molto molto molto molto male. Sposo in toto la richiesta di Amnesty e di Rete Disarmo che chiedono almeno che se ne parli in parlamento. È una cosa contraria agli interessi dei cittadini italiani, qui si tratta di essere furbi non semplicemente disarmisti. C’è la legge 185/90 che dice che non si vendono armi a chi ha interessi contrari all’Italia e questo è il caso dell’Egitto, poiché in Libia non sostengono la stessa parte in causa: è una cosa poco furba oltre che poco etica. Vendere armi significa sostenere quello che l’Egitto sta facendo al suo interno (torture, ragazzi scomparsi, ammazzati, studenti come Regeni e Zaky). La legge dice che non potresti vendergli armi salvo diversa delibera del Consiglio dei ministri sentite le Camere, quantomeno che se ne parli in parlamento, è la legge, non è un sogno da pacifista. Gli interessi dell’Italia sono maggiori degli interessi delle fabbriche d’armi.

Di Maio ha definito l’Egitto un “partner imprescindibile”…
Partner imprescindibile su cosa? E poi bisogna decidere quali sono gli standard, chiediamo ai nostri partner il rispetto dei diritti umani? C’è un ragazzo italiano morto, le autorità hanno ostacolato le indagini, ridurre tutto al fattore economico è miope, non si fa l’interesse del proprio Paese.
Il pacifismo è sparito dall’agenda politica?
Il pacifismo non occupa spazio se non quando viene usato per dare del sognatore a qualcun altro. Il pacifismo è la non violenza, è riflettere sul modo in cui stiamo insieme, cercare il modo di evitare i conflitti, immaginare delle società alternative. Questo non c’è mai stato ed è un peccato. Sono comunque soldi, si dice, servono per l’economia italiana, ma se si investe nel civile il ritorno è maggiore rispetto al militare: se l’obbiettivo è creare posti di lavoro allora si investano fondi nel civile, come nelle energie alternative, l’investimento dà più posti di lavoro dell’industria bellica.

Intanto rimane in piedi la questione libica e continuano gli sbarchi…
Il Covid faceva paura e non c’era bisogno di inventarsi il nemico, Ong o migrante. Però gli sbarchi sono continuati, in numeri piccoli – poco più di 3mila persone da gennaio a oggi – ma ci sono stati, come anche le segnalazioni di naufragi difficilissimi da verificare perché non ci sono navi in mare che possano testimoniare, ci sono diversi casi di omissione di soccorso e almeno una strage a Pasquetta di una nave lasciata alla deriva con 12 persone morte dopo 5 giorni che chiedevano aiuto. Altri casi di cui non si saprà niente. Ora Mediterranea è tornata in mare, Sea Watch è ripartita poche ore prima con imponenti misure di sicurezza.
L’immigrazione tornerà a essere tema di scontro politico?
Dipende da quanto i politici sentiranno il bisogno di strumentalizzare facendo politica sulla pelle della gente. Io sto ancora aspettando la discontinuità promessa da questo governo, io ero in mezzo al mare sulla Mare Jonio di Mediterranea quando si insediò questo governo. I decreti sicurezza sono ancora lì. Non permetteremmo mai che dei bambini bianchi rimanessero su una nave dopo essere stati torturati, violentati e tenuti prigionieri. Discontinuità vuol dire stracciare gli accordi con la Libia: c’è una gravissima violazione dei diritti fondamentali dell’uomo, delle leggi, della Costituzione. I lager andrebbero evacuati e il sistema smantellato e bisognerebbe aprire canali d’accesso sicuri e legali sconfiggere il traffico di uomini. Tra l’altro non va bene che il soccorso in mare non venga fatto dagli Stati ma dalle Ong, non è normale.

Però in Parlamento alcuni si sono inginocchiati
Su questo ci penso da qualche giorno. I nostri parlamentari sanno chi è George Floyd, benissimo. Ma cosa sanno di Soumayla Sacko? Cosa sanno delle vittime del razzismo qui? Le vittime del nostro razzismo sistemico qualcuno le conosce? Possiamo interessarci a questo? Se sentiamo questo problema sollevato negli Usa allora dobbiamo guardarci intorno: i neri sono quelli nel Mediterraneo e quelli schiavi delle mafie nei campi a disposizione della grande distribuzione. Altrimenti inginocchiarsi servirà a poco.

Leggi anche: 1. L’Egitto acquista 2 navi militari italiane e tappa la bocca all’Italia sul caso Regeni /2. Regeni, Di Maio risponde alle accuse: “La vendita delle armi all’Egitto non è conclusa” /3. Patrick Zaky, gli affari con l’Egitto possono diventare un’arma per l’Italia

4. “Il problema degli Usa sono 400 anni di schiavitù, ma qui in Italia non siamo messi meglio”: parla Igiaba Scego /5. Torino, aggredita a 15 anni sul bus perché nera: “Il razzismo c’è anche in Italia”

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L’Onu denuncia violazioni dei diritti umani in Crimea

(di Marco Perduca, fonte)

Dopo un acceso dibattito che ha portato a un numero record si astensioni, la commissione diritti umani dell’Assemblea generale dell’Onu ha adottato una risoluzione che condanna la “occupazione temporanea” della Crimea da parte della Federazione russa accusandola di molteplici violazioni dei diritti umani nella regione.

Il testo, la cui adozione definitiva avverrà a dicembre, denuncia gli abusi e le discriminazioni “contro i residenti della temporaneamente occupata Crimea, compresi i gruppi di tatari”, un gruppo etnico di origine turchica che abita da secoli la penisola. Seppur in maniera diplomatica l’Onu ha quindi condannato l’annessione della Crimea e tutto ciò che ne è seguito.

Nel silenzio immobile della comunità internazionale, e con risibili motivazioni di difesa delle popolazioni russofone in Ucraina, nel marzo del 2014 la Russia si annetté la Crimea dopo che una serie di manifestazioni popolari cacciarono il presidente filo-russo Viktor Yanukovich. Tanto sui sommovimenti di piazza quanto sull’invasione russa della penisola ucraina, ci son state vendute le più varie e dietrologiche leggende a favore e contro, ma da allora non si è tornati indietro.

Poco dopo ultimata l’occupazione della Crimea Mosca formalizzò l’annessione con un referendum farsa che ottenne una maggioranza schiacciante di voti a favore. Negli stessi giorni in cui la marina russa solcava le acque del Mar Nero, nell’Ucraina orientale iniziava una vera e propria guerra di secessione – ancora in corso – che vede la Russia direttamente e indirettamente coinvolta nel tentativo di destabilizzare ampie regioni dell’Ucraina con l’utilizzo di mercenari (anche stranieri).

L’annessione della Crimea da parte di Mosca ha portato all’adozione di sofferte sanzioni internazionali, ma ha anche messo in evidenza quale sia il potere di attrazione che un regime anti-liberale come quello di Putin possa esercitare nei confronti di paesi democratici dove si ritiene che la “legge e l’ordine” siano da preferire allo Stato di Diritto. A più riprese gli europei si son spaccati sull’atteggiamento da tenere nei confronti di Mosca e non pochi movimenti politici europei hanno condonato la reazione russa, a volte anche con motivazioni anti-naziste!

Il progetto di risoluzione presentato al Palazzo di Vetro dall’Ucraina è stato approvato con 73 voti
a favore, 23 contrari e 76 astensioni. Gli europei col Regno Unito e gli Stati Uniti sono tra i paesi che hanno votato a favore della risoluzione mentre Russia, Armenia, Bielorussia, Venezuela, Siria, Iran e la Cina son tra quelli che si sono opposti. Gli astenuti fanno principalmente capo al gruppo dei cosiddetti non-allineati.

Il testo esorta la Russia a porre fine immediata a “detenzioni arbitrarie, tortura e altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti, e di revocare tutte le leggi discriminatorie”. Inoltre s’invita Mosca a liberare gli ucraini che son detenuti illegalmente, e di consentire agli enti culturali e religiose per riaprire e a revocare la decisione del 29 settembre scorso della Corte Suprema che ha dichiarato la Mejlis dei tartari di Crimea (l’istituzione di auto-governo locale) un’organizzazione estremista.

Pur senza difficoltà con Kiev, negli ultimi 20 anni la minoranza tatara era riuscita a dotarsi delle istituzioni democratiche che hanno consentito a quella comunità di proteggere e promuovere la cultura e tradizione che la caratterizza nonché la possibilità di professare la propria religione. I tatari sono stati uno dei gruppi etnici che in Russia hanno subito angherie per secoli con deportazioni di massa verso l’Uzbekistan durante gli anni di Stalin. Da due anni son tornati a vivere l’incubo del passato.

Il “deterioramento” dei diritti umani in Crimea dall’inizio della annessione illegale della Federazione Russa è stato ampiamente documentato dall’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani che ha dettagliato “arresti, maltrattamenti, torture e intimidazioni perpetrate contro gli oppositori politici e le minoranze, così come la negazione dei diritti umani fondamentali a coloro che non accettano l’imposizione forzata di legislazione e lingua, oltre che della cittadinanza, russa nella penisola.”

Nel 2015, il parlamento ucraino ha adottato una risoluzione che riconosceva la competenza della Corte Penale Internazionale sui fatti accaduti durante le manifestazioni di piazza per portare Yanukovich davanti a un giudice terzo per i crimini commessi nella repressione delle proteste del febbraio 2014.

Il 16 novembre scorso, capita la malaparata alle Nazioni unite, il presidente russo Vladimir Putin ha annunciato che Mosca ritirerà la firma dallo Statuto di Roma della CPI, che comunque non aveva mai ratificato, anche perché il procutatore dell’Aia nel frattempo aveva aperto un dossier sul conflitto ucraino e, pare, sugli attacchi aerei russi in Siria.

La risoluzione dell’Assemblea generale non ha potere vincolante né prevede il rafforzamento di sanzioni internazionali ma rappresenta un documento di chiara denuncia politica nei confronti di un regime, quello russo, che viene lasciato agire senza censura o critica ferma e che sistematicamente si presenta al mondo come la vittima di un complotto internazionale – vedi le recenti rimostranze di Mosca a seguito dell’annuncio dell’invio di contingenti Nato a rafforzare la presenza militare nei paesi baltici.

All’inizio dell’anno, nel bel mezzo della guerra all’Isis, un documento del Pentagono affermava che per gli Usa, e quindi il mondo Occidentale, la maggiore minaccia fosse la Russia e non il terrorismo islamico; con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca i toni nei confronti di Mosca saranno sicuramente meno belligeranti, ciò non toglie che il problema dell’impunità della azioni militari russe fuori dai propri confini e del silenziamento violento del dissenso interno restano una ferita aperta, e sanguinante, nei confronti dello Stato di Diritto.

L’Assemblea generale è stata chiara nelle sue denunce, ma adesso cosa succederà?

Turchia: chiesto l’ergastolo per la scrittrice Asli Erdogan

Tra 15 giorni sapremo se la scrittrice turca Asli Erdogan (non è parente del presidente) sarà condannata all’ergastolo insieme alla linguista Necmiye Alpay e ad altri sette giornalisti ed editori del quotidiano filo curdo Ozgur Gundem, considerato da Ankara la voce della propaganda del partito curdo dei lavoratori (Pkk). In carcere dal 20 agosto Asli è accusata di far parte del Pkk, e di avere utilizzato il quotidiano a fini sovversivi, pubblicando immagini e interviste ai terroristi, ponendo in essere propaganda a favore del terrorismo curdo con l’obiettivo di minare l’integrità e l’ordine economico, giuridico e sociale del Paese.

La scrittrice, in passato, ha lavorato come fisica al Cern ed è tornata in Turchia nel 1996 per dedicarsi ai suoi libri e al giornalismo. Dopo l’arresto aveva fatto giungere notizie terribili sulla sua detenzione.

“Mi trattano in un modo che lascerà danni permanenti sul mio corpo – si legge nella lettera pubblicata sul Daily Cumhuriyet -. Il mio pancreas e il mio sistema digestivo non funzionano come dovrebbero ma non mi viene data la medicina di cui ho bisogno. Sono diabetica e necessito di una nutrizione speciale, eppure qui posso mangiare solo yogurth. Soffro di asma e non mi viene concessa l’ora d’aria”.

In solidarietà con la scrittrice alla fine di settembre alcune librerie italiane hanno aderito all’iniziativa “Scrittura libera”, patrocinata dall’Associazione librai italiani, per leggere brani tratti dal suo solo libro tradotto in italiano due anni fa da Keller: Il mandarino meraviglioso.

Il 19 ottobre, al primo giorno della Fiera di Francoforte, il direttore degli Editori e dell’Associazione dei Librai tedeschi, Heinrich Riethmüller, aveva letto una lettera di Asli Erdogan, che gli era stata recapitata.

“Dietro pietre, cemento e filo spinato – come da un pozzo – vi chiamo: qui, nel mio paese, si lascia avvilire la coscienza con un’inimmaginabile brutalità. Si cerca di uccidere la verità, la coscienza viene calpestata con una brutalità incredibile” si leggeva nel testo.

Secondo l’ultima stima dell’osservatorio indipendente P24, sono 144 i giornalisti al momento in prigione in Turchia. Almeno 168 media sono poi stati chiusi dopo il tentato putsch. Tra questi, il quotidiano filo-curdo Ozgur Gundem.

(fonte)

«Siamo tutti Mouhcine!»

«Siamo tutti Mouhcine!», gridano i manifestanti scesi in piazza, da ben quattro giorni, in quasi tutte le città del Marocco per protestare contro la morte ingiusta di Mouhcine Fikri, il pescatore rimasto ucciso venerdì durante un sequestro da parte della polizia.

Alcuni attivisti per i diritti umani, intervistati dalla Bbc, hanno dichiarato che si tratta «della più grande manifestazione dal periodo delle primavere arabe» e non è difficile crederlo.
Migliaia di persone per strada da Casablanca a Rabat, negozianti e pescatori in sciopero da venerdì, migliaia le condivisioni su Twitter. Il tutto, sotto lo sguardo preoccupato di re Mohammed VI. Che si occuperà personalmente della vicenda, considerato che il Marocco, nella persona del premier designato Abedelilah Benkirane, sta ancora tentando faticosamente di mettere insieme un governo.

Mouhcine Fikri aveva trentuno anni e lavorava come venditore ambulante di pesce nella città settentrionale di Hoceima. Venerdì, la polizia gli ha confiscato diverse tonnellate di pesce spada, la cui pesca è proibita in questo periodo. In pochi minuti si è consumata la tragedia: Mouhcine e altri venditori si sono avventati sul camion dell’immondizia in cui la polizia aveva gettato il pesce. Poco dopo, la pressa per lo smaltimento dei rifiuti è stata attivata, e mentre gli altri sono riusciti a sottrarsi alla morsa meccanica, Mouhcine è rimasto schiacciato a morte. La folla riunita intorno al camion si è scagliata contro i poliziotti, chiamandoli «assassini» e ritenuti responsabili volontari dello stritolamento del pescatore.

Da quel momento la protesta è esplosa, contagiando e mobilitando l’intero Paese. Il governo di Rabat sta cercando di correre ai ripari promettendo un inchiesta che appuri i fatti, e contenere così le proteste. Soprattutto, in vista dell’apertura a Marrakesh, della Cop22, la conferenza internazionale sul clima sotto egida Onu che si svolgerà tra il 7 e il 18 novembre nella città marocchina.

Ma in piazza e sulla stampa la rabbia monta: «Il Marocco è in stato di Choc. La morte atroce di un pescivendolo indigna il Rif e tutti i marocchini», scrive il quotidiano Akhbar Alyoum mentre un altro giornale, Al-Ahdath, titola tutta pagina: «Chi ha massacrato Mouchine?».

Ne scrive Viola Brancatella per Left qui.

Insieme alla Serbia e alla Grecia

Sul fronte situazione penitenziaria e sovraffollamento l’Italia si contende l’ultimo posto in Europa con Serbia e Grecia. Lo ha riferito dall’europarlamentare Juan Fernando Lopez Aguilar capo delegazione della Commissione Libertà civili in visita al carcere di Poggioreale a Napoli. Aguilar, sottolineando che il sovraffollamento è un problema ”strutturale” di tutti i Paesi Ue, ha evidenziato la ”drammatica” situazione italiana sia per il sovraffollamento che per la ”mancata attenzione ai diritti legati alle leggi”.

L’incivile graduatoria è nel commento riportato dall’Ansa.

A proposito di 8 marzo: per l’Europa l’Italia sulla legge 194 viola i diritti delle donne

Si parla di legge 194 e di una notizia che dovrebbe circolare infinitamente di più. La riporta il sito VOX, l’Osservatorio Italiano sui Diritti:

Lo dice un’importante sentenza del Comitato Europeo dei Diritti Sociali del Consiglio d’Europa, che ha ufficialmente riconosciuto che l’Italia viola i diritti delle donne che -alle condizioni prescritte dalla legge 194/1978 – intendono interrompere la gravidanza, a causa dell’elevato e crescente numero di medici obiettori di coscienza. Si tratta di un’importante vittoria, che arriva proprio oggi, data simbolica per la storia delle donne. Una vittoria, che porta anche la firma di Vox.

L’associazione non governativa che ha presentato il ricorso contro l’Italia, International Planned Parenthood Federation European Network, è stata assistita da Marilisa D’Amico, co- fondatrice di Vox e da Benedetta Liberali, tra le voci di Vox.

La legge 194/1978 prevede che, indipendentemente dalla dichiarazione di obiezione di coscienza dei medici, ogni singolo ospedale debba poter garantire sempre il diritto all’interruzione di gravidanza delle donne. Oggi purtroppo, a causa dell’elevato numero di medici obiettori, alcune strutture si trovano a non avere all’interno del proprio organico medici che possano garantire l’effettiva e corretta applicazione della legge. Il riconoscimento di violazione da parte dell’Europa mira a garantire la piena applicazione di una legge dello Stato, la 194, che la Corte costituzionale ha definito irrinunciabile.

La sintesi del reclamo la trovate qui.