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diritti

Persone perbene

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La vignetta di Staino su L’Unità di oggi. E la differenza tra la politica e l’essere umani.

Non siamo nemmeno all’altezza dei nostri morti

img1024-700_dettaglio2_Lampedusa-tragediaLa strage di Lampedusa non sanguina oggi, no. Sanguinerà domani sera, forse, e sicuramente dopodomani quando verrà archiviata tra le morti straniere in patria e riempirà il faldone delle cose da dimenticare subito dopo l’erezione fisica dovuta all’indignazione.

Piangere oggi le vittime di Lampedusa è un diritto di chi ha il giusto sentore delle sevizie dei CIE, di chi non scambia lo schiavismo per libera prostituzione, di chi giudica un morto perché è morto e non dove è nato o, ad esempio, di chi ha il mirabolante coraggio di inserire tra le cifre del femminicidio quelle ragazzine puttanelle che rimangono ammazzate ai bordi delle strade tra i profilattici usati e il bidone incendiato per scaldarsi.

Piangiamo lacrime italiane per gli italiani, lacrime non comunitarie per gli extracomunitari e lacrime da pasto per i profughi: diversifichiamo il dolore con una pratica del lutto che, nemmeno lei, riesce a non essere federalista e democratica.

Mio nonno si chiamava Gregorio, Gregorio Cavalli, detto Gigeto per quell’abitudine veneta di smitizzare per diluire la fatica di vivere, e si era trasferito in America per lavorare prima al canale di Panama e poi aprire un bar americano come si vedono i bar americani nei film americani. Quando è tornato a Carpanè (Carpanè Valstagna) per tutti era “l’americano” e si è comprato anche una bella casa: con nonna e poi mio padre e i suoi fratelli. Quando era tornato a casa mio nonno Gigeto aveva perso un braccio. Nei racconti epici del bar giù a Carpanè si raccontava di Greogorio Cavalli l’Americano che aveva lasciato un braccio sotto la ruota di un carro. Lì, in America, probabilmente, avevano scritto che “un italiano ha perso un braccio sul lavoro” e tutti a dire che guarda questi italiani che lavorano come muli, disposti a tutto per un tozzo di pane, e forse chissà che giri loschi aveva l’italiano e magari vuoi che sia stata una vendetta. Una cosa così.

Oggi a Lampedusa sono morti centinaia di nonni Gigeto che non hanno nemmeno avuto l’occasione di essere epici nel proprio bar dopo essere stati servi in terra straniera. Oggi a Lampedusa sono morti di adrenalina, vomito, placenta e sangue dei morti che muoiono tutto il giorno e solo oggi faranno un po’ più di rumore perché hanno superato i chili di cadaveri ammessi per la normalità del lutto quotidiano.

Le discussioni politiche sono state strumentali alle persone piccolissime che gareggiano in propaganda. Le morti invece no, le morti, mannaggia dio, sono sempre altissime nonostante i colori e le provenienze. E noi sempre immaturi vivi davanti ai morti. Adolescenti di fronte ad ogni sentimento che sia più del tifo o dell’odio.

L’Italia ingiusta e seconda in classifica per disuguaglianza

L’Italia è tra i paesi che registrano le maggiori disuguaglianze nella distribuzione dei redditi, seconda solo al Regno Unito nell’Unione europea e con livelli di disparità superiori alla media dei paesi Ocse. Non solo: nel nostro paese la favola di Cenerentola si avvera con sempre minore frequenza, nel senso che le coppie tendono maggiormente a formarsi tra percettori di reddito dello stesso livello; inoltre, gli estremi si allontanano, ovvero i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. E la ricchezza si sposta sempre più nei portafogli della popolazione più anziana, a scapito delle giovani generazioni.

Sono queste le tendenze di fondo per l’Italia, che emergono dallo studio “Gini-Growing inequality impact” commissionato dalla Ue, nell’ambito del VII Programma quadro, a un pool di gruppi di ricerca di diverse università europee: un progetto, finanziato con oltre due milioni di euro e sviluppato per circa tre anni, i cui risultati saranno pubblicati in due volumi entro dicembre.
La disparità nella distribuizione dei redditi è stata misurata con l’indice di Gini: si tratta di un indice di concentrazione il cui valore può variare tra zero e uno. Valori bassi indicano una distribuzione abbastanza omogenea, valori alti una distribuzione più disuguale, con il valore 1 che corrisponderebbe alla concentrazione di tutto il reddito del paese su una sola persona.
Dallo studio emerge che, alla fine della prima decade degli anni Duemila, l’Italia ha un indice di Gini pari a 0,34: ovvero, due individui presi a caso nella popolazione italiana hanno mediamente, tra di loro, una distanza di reddito disponibile pari al 34% del reddito medio nazionale.

Lo scrive qui Il Sole 24 Ore.

L’uguaglianza come primo punto dell’agenda: diritti, lavoro, giovani, anziani, sanità e tutti i cardini della democrazia passano da qui. E poi mi dicono che non c’è bisogno di sinistra.

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Contare le donne

Conosciamo la loro storia cancellata, la raccontano i giornali solo quando è finita; le storie dei lividi sulla pelle e nel cuore ci sono sconosciute, spesso non riusciamo nemmeno ad intuirle negli occhi di chi ci sta accanto, eppure sono la maggioranza:  sono un abnorme 93% dei casi. Non è paura né condiscendenza, quella sostiene un silenzio così pesante. E’ sfiducia. Sfiducia nei mezzi di uno Stato che si sfalda, di uno stato sociale presentato come costo, pegola, palla al piede, nemico del deficit pubblico. Non c’è emancipazione possibile senza strutture di accoglienza per madri e figli, senza programmi specifici per l’occupazione delle donne, perchè libertà e dignità significa lavoro, che in questo Paese è un’altra vittima.

I sostenibili equilibri possibili tra costi, diritti, numeri e donne nel pezzo di Monica Bedana.

Augurare le vertigini

PippiBelezzaRara (alias Valentina Stella) oggi si permette di volare altissima negli auguri per la piccola figlia:

Perché essere donna ha una profondità che dà le vertigini.

E te le auguro tutte, queste vertigini.
Ti auguro di amare il tuo essere donna senza mai cadere nei cliché dell’esserlo. Di saltellare di stereotipo in stereotipo avendo l’intelligenza di non rimanerne prigioniera. Di passare dai tacchi alle converse e dal rosa al blu con lo stesso sorriso con cui ora ti dichiari innamorata del “fuchias”.
Ti auguro di essere folle e libera come Pippi, coraggiosa come Merida (che tu chiami Meringa), simpatica come Peppa ma anche romantica come Cenerentola.
Ti auguro di amare come una donna sa amare, e di lottare come solo una donna sa lottare: con intelligenza, forza e passione.
Ti auguro di piangere senza mai aver paura di far vedere le tue lacrime, e spero che a piangere con te, di gioia, di allegria o di tristezza ci saranno amici che non avranno il timore di mostrarsi fragili.
Ti auguro di essere “sempre contro, finché ti lasciano la voce”.
Ti auguro di avere la parità, ma so che sarà una strada lunga e tortuosa, e allora ti auguro di avere l’energia e la voglia di lottare ancora. Per te e per le donne che vivono lontano da qua, e che non osano nemmeno sperare di avere gli stessi diritti di un uomo.
Ti auguro di vivere in un mondo in cui le donne non dovranno subire tutte le violenze che subiscono oggi, ma soprattutto ti auguro di abitare in una comunità in cui gli uomini non lasceranno le donne ballare da sole, e scenderanno anche loro in strada per dire stop agli abusi.
Ti auguro di amare le differenze, di esplorare ciò che sentirai più lontano da te, e di adorare il metterti nei panni degli altri.
Ti auguro di sentirti libera di essere qualsiasi cosa vorrai. E mi auguro di essere in grado di aiutarti a farlo.

Tanti auguri, piccola donna meravigliosa.

La gente, me incluso, non è sempre buona o sempre cattiva.

blanco“Smettila di fare il mariconcito! Vuoi che ti iscriva a danza classica? E’ questo che vuoi? Cos’hai di sbagliato? Vai a giocare fuori come un bambino normale!”. Io invece mi precipito in camera. Strappo piangendo un foglio dal mio quaderno per i temi e scrivo: Io, Ricardo De Jesus Blanco, giuro di non rifare mai e poi mai quello che ho fatto oggi, altrimenti saranno guai. Dio mi è testimone. Lo firmo e metto la data. Lo chiudo in una busta e lo metto sotto il materasso.

Trentadue, forse trentatre anni dopo, mi viene in mente che non ero neanche riuscito a scrivere che cosa avevo fatto quel giorno, per paura che mia nonna potesse leggerlo e scoprirmi, e che scriverlo significasse una confessione. Una paura che mi sono portato addosso fino ai trent’anni, attraverso il mio primo e il mio secondo libro di poesie, senza mai osare di uscire allo scoperto sulle pagine bianche. Le poesie d’amore che ho avuto il coraggio di scrivere sono in seconda persona, in un “tu” neutro, senza genere; e nelle mie dediche ho usato solo iniziali; per M.K., per C.A.B., per C.S.B. Tutti quelli che ho amato, o quasi amato ― Michael, Carlos, Craig ― ridotti a lettere anonime, acronimi di una sessualità che mia nonna, speravo, non avrebbe mai immaginato. Rimanevo chiuso al sicuro nel mio armadio letterario.

Anche se dopo sono arrivato a pensare che quello in cui mi stavo nascondendo era più un armadio culturale. Dal momento che non potevo neanche iniziare a godermi il fatto di scrivere sulla mia identità sessuale, concentrai invece il mio lavoro sull’identità culturale e sulla negoziazione che vivevo come Cubano americano. Non che questo non fosse sinceramente importante per me (e continua ad esserlo). Ma in parte era il fatto di vivere all’ombra delle violenze di mia nonna che mi impediva di approfondire e di identificarmi con gli scrittori gay, molto meno dello scrivere sulla mia sessualità o sulle violenze di mia nonna. Semplicemente non ero uno di loro, ma ovviamente lo ero.

Ho ventisei anni quando visito Cuba per la prima volta. Stiamo pranzando dalla tía Mima quando apprendo che suo figlio Gilberto si è dato fuoco a otto anni ed è morto. Sento un’immediata vicinanza con questo bambino che non ho mai conosciuto. In un flash, mi ricordo quello che volevo dire/che sentivo quando scrivevo “o saranno guai”: quella disperata sensazione di voler metter fine alla mia vita anche io; quella tristezza profonda, radicata, che è stata la mia infanzia. Una tristezza che mi sono portato addosso da allora, secondo un altro psichiatra che mi ha diagnosticato una distimia, una forma lieve ma persistente di depressione.

A quarantuno anni ho realizzato che sono stato triste tutta la vita e che ho sempre scritto usando quel punto di vista psicologico. La malinconia che vedo negli altri, nel mondo mi ispira, e lo fanno i modi che troviamo per sopravvivere. Io lotto per catturare la tristezza e per trasformarla, grazie al linguaggio, in qualcosa di significativo, di bello. Anche se, per gran parte della mia carriera di scrittore, non ho mai scritto in modo cosciente per o sulla comunità gay, sento che per le mie tematiche sono sempre stato, senza esserne cosciente, uno scrittore gay: cercando di tirar fuori dai limoni una spremuta, dal fango dei castelli, dal dolore la bellezza.

Sarei diventato un poeta senza le violenze di mia nonna? Probabilmente sì, ma non lo stesso tipo di poeta, e, credo, non avrei prodotto nemmeno lo stesso tipo di opere. Ma nonostante questo, alla fine la sua ultima eredità era stata quella di instillare in me, senza volerlo, la comprensione della complessità dei comportamenti e delle emozioni umane. Avrei potuto tranquillamente concludere dicendo che mia nonna era una brutta stronza malefica, e finirla lì. Ma invece, attraverso di lei, ho capito che ci sono pochi dogmi quando parliamo delle relazioni tra le persone. La gente, me incluso, non è sempre buona o sempre cattiva.

Richard Blanco da leggere, oggi, su HP.

Sto diventando intollerante all'(in)sanità pubblica

Io non sopporto più quest’aria rarefatta che nasconde la torba di un Governo che vorrebbe inculcarci la propria strada come unica possibilità da percorrere.
Non sopporto più questo ripetere che non c’è alternativa per narcotizzare l’elaborazione del pensiero politico, la fantasia, la politica e la speranza. Non sopporto più questo perbenismo conformista che dovrebbe spingerci a tacere che un Premier in un Paese che spende quello che spende in armamenti, corporazioni, prostituzioni finanziarie, lecchinaggi clericali e soldi pubblici per pagare i vizi, in un Paese in questo stato (minuscolo), Mario Monti si permetta di discutere di servizio sanitario nazionale come un privilegio per cui dovremmo ringraziare a testa bassa e mani giunte.
Io non sopporto più di ascoltare la retorica del privato (nei settori che la Costituzione prevedeva e vedeva pubblici) che eccelle nei ruoli che sono dello Stato quando, anche in Lombardia, è stato piuttosto interprete dell’egoismo, del disprezzo sociale e della distorsione di una mission che non può essere consonante nell’etica e insieme nei bilanci.
Io non accetto (ed è un minaccioso consiglio anche per i candidati delle primarie lombarde) che ci si ingegni per trovare “ciò che di buono è stato fatto” nella melma che si può annusare facendo un salto al presidio dei lavoratori appena fuori dal San Raffaele, dalle famiglie sanguinanti dei pazienti del Santa Rita o dagli “esuberi” che pagano la protervia e la bassezza umana della Fondazione Maugeri.
Io non tollero che non si levi una voce collettiva dignitosamente furiosa contro Monti e alcuni suoi Ministri che esibiscono priorità scollegate dalla realtà e con ghigno professorale ci illustrano teorie medievali nella visione dei diritti.
Non mi interessa sedermi dalla parte del torto (perché come diceva Brecht i posti erano già tutti occupati dalla parte della ragione) per elemosinare una poltrona o una carezza dalle segreterie.
Perché alla fine anche la liberalizzazione della dignità della persona ci diranno che è l’unica soluzione possibile.

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