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disperazione

Non ci si scusa per il dolore che si prova

Mi hanno colpito le parole di Valeria Kadija Collina, madre di Youssef, uno degli attentatori di Londra. Mi ha colpito, moltissimo, quella loro casa a Castaello si Serravalle, paese di provincia dell’entroterra bolognese: fiori curati ai lati del vialetto in giardino.

“Mio figlio me lo ha portato via l’ignoranza e la cattiva informazione. Il cattivo Islam e il terrorismo sono questo. Ignoranza e cattiva informazione”, dice nella sua intervista a Repubblica Valeria: ha fatto una cosa “atroce”, che “non può e non deve essere giustificata”. E ha provocato un dolore talmente grande “che chiedere perdono ai familiari delle vittime sembra quasi banale”.

Racconta di come, da madre, ha perso contatto con il proprio figlio: Quando mi parlava della Siria e del fatto che voleva trasferirsi in quel Paese, non lo diceva certo perché volesse andare a combattere per l’Isis, ma perché sosteneva che in quella parte del mondo si poteva praticare l’Islam puro e perché voleva mettere su famiglia. Lo diceva sorridendo e io sorridendo gli divevo che era fuori di testa e che io non lo avrei seguito mai perché stavo bene dove sono”. Poi il cambiamento: “La radicalizzazione secondo me è avvenuta in Marocco attraverso internet e poi a Londra, frequentando gente che lo ha deviato facendogli credere cose sbagliate. Suo padre è un moderato, sua sorella non ha abbracciato la nostra fede, nessuno nella nostra famiglia è vicino in alcun modo con quel mondo fatto di stupidi radicalismi”.

E sembra, ad ascoltarla, una storia così simile alle tante che ci capita di leggere quando ci sono madri che si arrendono alla disperazione di non essere riuscite a salvare i proprio figli dalla droga, dal malaffare o dalle mafie: ha lo stesso dolore , lo stesso colore e la stessa naturale (seppur ferocissima) tragica fine.

Così, di colpo, il terrorismo assume anche una dimensione nuova e così lontana dalla retorica degli analisti di prima mano e cola una disperazione folle e pericolosa come tutte le disperazioni.

Buon giovedì.

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La dignità dell’errore. E delle scuse

Filippo Chiarello aveva 38 anni, due bambini piccoli e un intervento da fare alla colecisti in laparoscopia. Nell’ospedale Santa Sofia di Palermo ci è entrato con l’idea di doverne uscire in pochi giorni, pronto ad affrontare una di quelle operazioni che di questi tempi sono routine. E invece è morto. E fino a qui sembrerebbe l’ennesima storia di malasanità pronta a finire sui giornali (locali, perché la sanità è sempre argomento molto poco pop) e ad aprire una sequela giudiziaria tra cartelle cliniche, scarichi di responsabilità e assicurazioni trincerate in difesa.

Invece qui le porte della sala operatoria si sono aperte davanti alla faccia addolorata di un medico che si è dichiarato colpevole di un errore: «Ho spalancato le porte della sala operatoria, ho allargato le braccia e ho detto che era colpa mia. Mi sono sentito morire dentro, sulle facce dei parenti ho visto la disperazione – racconta il medico che ha fatto l’intervento – e mi assumo la responsabilità ma ci tengo a far sapere che non ero distratto, ero concentrato. La verità è che può capitare e i rischi degli interventi in laparoscopia sono dietro l’angolo».

 

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In ginocchio in mezzo alle macerie

Che si creda o no l’immagine dei cittadini di Norcia inginocchiati sulle macerie nella piazza cittadina è la moderna versione della Pietà di Buonarroti. È il cadere sulle ginocchia perché si spezzano le gambe sotto il peso degli eventi, la disperanza che diventa cemento nelle vene e la paura di alzare lo sguardo più lontano del luogo calpestato. Il terremoto di ieri non è terremoto misurabile per vittime e danni, non solo: il terremoto di ieri è il colpo di vento che ci abbatte appena rialzati, uno sgambetto che appare mostruosamente chirurgico e cronico oppure più banalmente l’insopportabile perseveranza del dolore quando perdura.

Quando questo Paese si ritrova ad affrontare dolori così grandi riesce sempre a spremere una compostezza commovente e l’aria intorno, appena si posa lo sbriciolio delle macerie, si fa greve ma comunitaria e responsabile.

Mi chiedevo ieri sera guardano le immagini e ascoltando i commenti e le voci se davvero serva sempre un lutto per riuscire a scalare pareti dell’umanità che poi inevitabilmente tornano ad essere disabitate e sbeffeggiate. Mi chiedo, e non ho la risposta, perché ormai la convergenza solidale avvenga solo quando si ha paura di morire o si ha contezza di esserne scampati per poco. Cosa diluisce la responsabilità poi cammin facendo? Domando, esclusi i Salvini e i complottisti, perché non si riescano a innescare questi stessi sensi corrispondenti sulle ingiustizie provocate dall’uomo, dalle persone sulle persone, senza bisogno di falde e smottamenti.

Forse conviene tenersele in tasca, come memorandum, le macerie prima di ricostruire.

Buon lunedì.

(il mio buongiorno per Left è qui)