In un emendamento alla Legge di Bilancio firmato da deputati di Leu e del Pd si chiede l’abolizione dell’Imu e dell’imposta di bollo sui conti correnti e di deposito titoli, per sostituirle con un’aliquota progressiva minima dello 0,2% “sui grandi patrimoni la cui base imponibile è costituita da una ricchezza netta superiore a 500 mila euro”. I primi firmatari sono Nicola Fratoianni, che fa parte della componente di Sinistra Italiana in Leu, e Matteo Orfini, della minoranza Pd. Le opposizioni insorgono ma anche nella maggioranza in molti storcono il naso. Per TPI abbiamo intervistato Nicola Fratoianni.
Onorevole Fratoianni, sulla cosiddetta “patrimoniale” si sono sollevate subito le reazioni. Se le aspettava?
“Reazioni peraltro un po’ scontate. Come ha osservato più di qualcuno ‘patrimoniale’ è parola impronunciabile nella scena politica italiana. Tutto contro ogni ragionevolezza e perfino contro le idee di molti supermiliardari: Forbes nel luglio di quest’anno ha pubblicato la lettera di 83 miliardari che chiedono ai loro Paesi di introdurre tassazioni stabili e significative sulle loro grandi ricchezze. Tutto sulla base di un argomento molto chiaro e molto semplice: noi non possiamo fare chissà cosa ma abbiamo molti soldi e quei soldi possono risolvere molti problemi, non solo le emergenze drammatiche di questa fase della pandemia ma anche le crescenti disuguaglianze che costituiscono un problema non solo per chi le subisce ma anche per chi ha grandi ricchezze”.
Qualcuno dice che fissare un limite di 500mila euro è un azzardo. “Basta avere ereditato una casa in una grande città”, si legge in giro. Come risponde?
“Non è così. Non ne faccio colpa ai cittadini che non conoscono la norma. Primo: riguardo la questione immobiliare che viene usata contro questa norma occorre non confondere il valore commerciale con il valore catastale dell’abitazione. La nostra proposta, come tutte quelle che intervengono sulle questioni patrimoniali, si riferisce al valore catastale, quindi a chi dice che in alcune città il valore al metro quadro supera i 3mila euro basta rispondere spiegando questo punto. Se qualcuno ha una casa con un valore catastale superiore ai 500mila euro è difficile che abbia particolari difficoltà. In ogni caso le nostra proposte sono progressive, partendo dallo 0,2% da 500mila a 1 milione di euro e poi via via crescendo fino ad arrivare al 3% per patrimoni superiori al miliardo di euro. E poi ci si riferisce a persone fisiche, per cui se marito e moglie sono comproprietari di una casa quel valore si divide”.
E il secondo punto?
“Secondo: oltre a introdurre aliquote progressive, facciamo l’operazione di riordino di quella giungla di micro interventi patrimoniali, come l’Imu anche sulla seconda casa e la famosa imposta Monti (lo 0,2% sui depositi finanziari e sui titoli che non era progressivo). Quindi il ceto medio – ammesso che esista ancora – potrebbe perfino risparmiare”.
L’hanno stupita le reazioni all’interno del Partito Democratico, Zingaretti incluso?
“Sono molto contento che diversi parlamentari del PD abbiano appoggiato questa proposta, ma non mi stupisce la reazione complessiva del PD come quella del Movimento 5 Stelle. Questo è un momento in cui c’è una subalternità culturale sul tema delle tasse e dei patrimoni e sulla disuguale distribuzione della ricchezza. Il mantra ripetuto in ogni occasione è che le tasse sono troppe e vanno abbassate ma le tasse non sono troppe in sé: sono troppe su chi le paga e sono poche sulle grandissime ricchezze. Sono distribuite in modo diseguale. Faccio osservare che nei decenni la tassazione sui redditi ha conosciuto una brusca contrazione delle aliquote diminuendo la progressività. Questo significa favorire i redditi altissimi e penalizzare quelli più bassi. Bisogna proteggere i piccoli patrimoni e chi ha acquistato una casa dopo anni di lavoro o chi ha ereditato una casa (non certo a Roma o a Milano) che ha uno scarso valore commerciale e pesa sullo stipendio. Bisogna uscire da questa stagione di subalternità culturale: se uno usa sempre le parole dell’avversario è difficile poi sconfiggere il suo racconto pubblico”.
Nel pieno della pandemia è un buon momento per affrontare questo tema?
“Il momento buono è da molto tempo, oggi ancora di più. La pandemia ha messo in risalto la fragilità di un sistema di organizzare il lavoro, le vite, l’economia e del nostro welfare. Ha disvelato l’imbroglio del primato della privatizzazione nella tutela della salute. E la pandemia, come ogni grande crisi, ha evidenziato l’aumento della disuguaglianza: c’è chi ha visto crescere ancora e significativamente i propri patrimoni e chi si è trovato in difficoltà. Quindi questo è il momento della discontinuità nelle scelte e nel linguaggio per immaginare un mondo diverso da quello a cui siamo abituati, che spesso ci è stato presentato come l’unico mondo possibile”.
Sui giornali e sulle televisione la proposta è diventata “la proposta di Orfini”…
“Va benissimo così. Sono il primo firmatario ma non ho problemi di primogenitura, mi interessa aprire una discussione”.
Chissà quando avremo gli occhi per rivederlo, quel G8 a Genova, quella manifestazione che certa retorica squadrista continua a raccontare come un’orrida sequela di tafferugli (dimenticandone chirurgicamente le responsabilità), raccontando di una città messa a ferro e a fuoco e proiettando un film che non rispetta la realtà. Andrebbe rivisto, quel G8, per raccontare come una grave sospensione della democrazia (parole usate dall’Onu e riprese da importanti organizzazioni internazionali) possa passare sotto traccia ed essere normalizzata negli anni successivi.
Ma, no, questo non vuole essere un pezzo sui picchiatori seriali ben ammaestrati in divisa e nemmeno sulle forze di pubblica sicurezza che fabbricano prove false per giustificare la propria violenza. Dico, ve li ricordate i temi di quel G8? C’erano qualcosa come 300mila persone (che non sono i like su Facebook) che avevano preso i mezzi da tutto il mondo per arrivare a Genova a evidenziare una serie di problemi che per loro sarebbero stati lo scacco matto del futuro del mondo.
A Genova si contestavano il neoliberismo furioso, la concessione di veri e propri paradisi fiscali, la vittoria della finanza sull’economia, l’aumento della disuguaglianza sociale e soprattutto dell’ingiustizia sociale, l’impoverimento irrefrenabile delle classi medie, la sbagliata e ingiusta distribuzione di ricchezze nel mondo, la visione privatistica del mondo al danno del pubblico, il consolidamento delle lobby di potere e delle grandi multinazionali come inquinamento delle decisioni politiche, la redditizia instabilità del mondo mediorientale. Si parlava dell’ambiente prostituito al profitto e delle enormi conseguenze che ci sarebbero state a livello planetario, si parlava dell’aumento della diffusione di xenofobia e di razzismo.
Avevamo ragione noi, a Genova. Aveva ragione quel documento finale del Social Forum di Porto Alegre (lo trovate qui) del 2002 che oggi risuona ancora come agenda assolutamente contemporanea del mondo in cui siamo. Sono passati quasi 20 anni e i mali del mondo sono ancora gli stessi.
Quei temi non sono stati sfondati dai manganelli (a differenza delle teste e dei denti) e dimostrano che, no, non era violenza sistematica per zittire qualche contestazione ma era un pugno di ferro contro un cambiamento di un mondo che non vuole cambiare e che continua a crollare ogni giorno dei medesimi mali. Avevamo ragione noi, a Genova, in piazza, e oggi i grandi del mondo parlano quella stessa lingua. Solo che qualcuno ci ha rimesso qualche osso.
L’aumento del divario tra ricchi e poveri non è un fenomeno inevitabile, ma la conseguenza di scelte politiche il cui scopo era proprio quello: l’analisi dell’economista Joseph Stiglitz
Il mondo è sempre più diseguale ed è ormai evidente che non solo esistono elevati livelli di disuguaglianza nella maggior parte dei paesi, ma che queste disparità sono in aumento. Oggi, esse sono molto più pronunciate di quanto non lo fossero 30 o 40 anni fa. È anche chiaro che non esistono eguali opportunità per tutti: le prospettive di vita dei figli di genitori ricchi e istruiti sono molto migliori di quelle di chi ha genitori poveri e meno istruiti. Negli Stati Uniti, ad esempio, le prospettive di un giovane, pur figlio di una famiglia svantaggiata, che va bene a scuola sono molto meno promettenti di quelle di un figlio di famiglia benestante che, però, trascura lo studio. Fino a qualche tempo fa, gli economisti e gli altri studiosi delle scienze sociali cercavano di giustificare queste disuguaglianze con la teoria della «produttività marginale», secondo cui i redditi degli individui corrispondono al loro contributo dato alla società. Tuttavia, se guardiamo anche solo superficialmente all’evidenza dei fatti, vediamo che nessuno degli individui che hanno dato i maggiori contributi alla nostra società – per esempio, attraverso le invenzioni del laser o del transistor o della scoperta del Dna – sono tra i più ricchi. Viceversa, vediamo che tra i più ricchi vi sono molti che hanno ottenuto il loro denaro grazie allo sfruttamento del loro potere di mercato e delle loro connessioni politiche.
La situazione attuale degli Stati Uniti è un buon esempio per illustrare le questioni fondamentali di cui stiamo parlando. Il reddito medio, al netto dell’inflazione, del 90 per cento meno ricco della popolazione è stato sostanzialmente stagnante negli ultimi 42 anni. Allo stesso tempo, il reddito medio dell’1 per cento più ricco della popolazione è aumentato di 4,3 volte. Questo stesso andamento si è verificato nella maggior parte degli altri paesi, anche se in misura meno accentuata. Francia, Paesi Bassi e Svezia sono tre paesi in cui l’aumento della quota dell’1 per cento più ricco è stato più limitato, laddove la Gran Bretagna ha invece visto un aumento quasi uguale a quello degli Stati Uniti. L’Italia si trova in mezzo.
Il reddito mediano – il valore centrale della distribuzione – negli Stati Uniti è rimasto sostanzialmente stagnante nell’ultimo quarto di secolo. Ancor più impressionante (come si è visto di riflesso nella politica americana) è che il reddito mediano di un lavoratore maschio, con un lavoro a tempo pieno, è allo stesso livello di più di quattro decenni fa. Ed è sempre più difficile per questi lavoratori «nel mezzo» ottenere posti di lavoro a tempo pieno ben remunerati. Ciò è vero anche per l’Europa, come ad esempio in Spagna e in altri Paesi, dove il reddito mediano oggi è inferiore a quello prima dell’inizio della recente crisi economica. Peggiore è poi quanto è successo negli Stati Uniti ai lavoratori con i redditi più bassi, per i quali il salario reale è ancora oggi al livello di sessanta anni fa. Per questi lavoratori, però, va detto, le cose vanno un po’ meglio in Europa, dove il salario minimo è invece più alto di quello di un tempo.
Nella maggior parte dei paesi avanzati, negli ultimi decenni sono avvenuti diversi grandi cambiamenti nella distribuzione del reddito: più reddito afferisce ai più ricchi; più persone sono in povertà; la classe media si è impoverita, vedendo ridurre la sua importanza relativa; il reddito mediano è rimasto stagnante e la quota di individui con un reddito attorno a quel valore è andata diminuendo. La classe media sta sparendo e un numero sempre maggiore di persone finisce nelle «code» della distribuzione.
La distribuzione del reddito viene di solito riassunta con una misura chiamata “coefficiente di Gini”: questa, nella maggior parte dei paesi, è stata costantemente in aumento negli ultimi anni, indicando un aumento della disuguaglianza. È vero che ci sono alcuni paesi che hanno resistito a questa tendenza, come la Francia e la Norvegia mentre altri, soprattutto in America Latina, hanno visto una diminuzione della disuguaglianza.
C’è quindi una lezione importante che si può trarre da tutto questo: le forze economiche in gioco in tutti i paesi avanzati sono simili, ma i risultati sono notevolmente diversi. La spiegazione di tali differenze è che Paesi diversi hanno perseguito politiche diverse. Possiamo quindi dire che la disuguaglianza è stata una scelta. Se i paesi avessero perseguito altre politiche, i risultati sarebbero stati diversi. Quelli che hanno seguito il modello anglo-americano sono finiti con più disparità.
Vi sono, poi, altre dimensioni della disuguaglianza, oltre a quella del reddito. Tuttavia, voglio sottolineare che i paesi che hanno scelto di avere più disuguaglianza non hanno avuto migliori performance economiche complessive. Come ho sottolineato nel mio libro “Il prezzo della disuguaglianza”, una società paga un prezzo elevato per la disuguaglianza, compresa una prestazione economica peggiore.
Il reddito è solo una dimensione della disuguaglianza. Altre dimensioni sono molto importanti, come ad esempio l’accesso alla giustizia, che non è uguale per tutti, o la partecipazione alle decisioni politiche, che non è la stessa per tutti. Tali dimensioni, però, sono difficili da quantificare. Ci sono invece almeno altre due dimensioni che sono facili da misurare. Una è la disuguaglianza nella salute, come risulta dalle differenze nell’aspettativa di vita. La natura stessa porta alcuni individui a vivere più a lungo di altri. Ma se alcuni individui non hanno accesso all’assistenza sanitaria o non riescono ad ottenere un’alimentazione adeguata, allora ci saranno ancora maggiori disparità nella salute. Di grande preoccupazione, ad esempio, è che una delle principali fonti di morbilità sono le “malattie sociali”, come l’alcolismo, la droga e il suicidio.
Una dimensione importantissima è l’uguaglianza nelle opportunità e qui, bisogna dire, i Paesi avanzati si differenziano notevolmente tra loro. La relazione tra uguaglianza nelle opportunità e uguaglianza mostra che i paesi con più disparità di reddito (misurata dal coefficiente Gini) hanno meno mobilità tra le generazioni – il che implica che i figli hanno meno opportunità dei genitori. I paesi con meno opportunità includono Stati Uniti, Regno Unito e Italia; mentre quelli con migliori opportunità sono i paesi scandinavi e il Canada.
Le dinamiche della disuguaglianza possono essere spiegate e non è vero che le disuguaglianze non abbiano spiegazione e che siano un risultato ineluttabile dell’operare delle forze del mercato. I cambiamenti in tali dinamiche possono essere descritti in modo semplice in termini delle forze che determinano la distribuzione del reddito e della ricchezza.
Negli Stati Uniti, ad esempio, il sistema educativo vede una crescente segregazione economica geografica che genera disuguaglianza nelle opportunità educative. Gli studi mostrano anche l’elevata correlazione tra opportunità educative e reddito. La riduzione della progressività del sistema delle imposte sul reddito (anzi, ora è regressivo) aumenta anche la disuguaglianza del reddito e della ricchezza. Una riduzione del tasso di risparmio riduce la disuguaglianza; una riduzione della dimensione familiare (media) aumenta la disuguaglianza. Un aumento della dispersione in una delle variabili rilevanti, inclusi i rendimenti a favore del lavoro o del capitale, aumenta il livello di disuguaglianza. Alcuni studiosi hanno anche sostenuto che il cambiamento tecnologico premia di più il lavoro qualificato, aumentando il rendimento dell’istruzione (più si studia, più si guadagna) e quindi la dispersione dei salari.
Sempre più importanti sono poi le rendite, incluse le rendite monopolistiche derivanti dalla crescente concentrazione in molte industrie. L’indebolimento delle norme anti-trust e i cambiamenti nella tecnologia, nonché i cambiamenti nella struttura dell’economia verso settori che sono naturalmente meno competitivi – pensiamo ai giganti dell’high tech – hanno sicuramente contribuito ad un aumento del “potere di mercato” medio nell’economia e quindi delle rendite monopolistiche.
Altre forze, poi, hanno portato ad un aumento dei redditi più alti: i cambiamenti nelle pratiche della corporate governance di molte società hanno permesso ai dirigenti di tenere per sé quote crescenti del reddito delle società. L’aumento della finanziarizzazione dell’economia, combinata con una governance aziendale più debole e una vera e propria diffusa turpitudine morale, hanno portato ad una situazione in cui molti, nel settore finanziario, sfruttano il resto dell’economia.
Allo stesso modo, l’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori – risultato sia di sindacati più deboli, che di cambiamento del quadro giuridico che della globalizzazione – hanno portato ad una riduzione del reddito dei lavoratori.
Più in generale, le regole del gioco sono state cambiate a vantaggio di quelli in alto e a svantaggio di quelli in basso, aumentando la disuguaglianza. I mercati non esistono in un vuoto astratto. Vanno strutturati, regolati. Negli ultimi 30/40 anni, le regole del gioco sono state riscritte in modi che aumentano la disuguaglianza e contemporaneamente indeboliscono l’economia.
L’effetto di tutto questo è che si è aperto un enorme divario tra la crescita della produttività e la crescita delle remunerazioni del lavoro (portando ad una marcata diminuzione della quota del reddito da lavoro sul reddito nazionale). Prima della metà degli anni ‘70, produttività e remunerazioni si muovevano insieme, e ciò è stato vero per molti Paesi e settori per lunghi periodi di tempo, fino ad essere visto quasi come una “legge” in economia. Poi, improvvisamente, le cose sono cambiate e non per via del cambiamento nella tecnologia o nella qualità della forza lavoro. Ci sono stati cambiamenti rapidi nelle regole del gioco. Questo è ciò che è successo, non altro: le regole del gioco sono cambiate a favore di alcuni e a danno di molti.
Quali rimedi possiamo invocare? Dobbiamo riscrivere le regole dell’economia di mercato, ancora una volta, fare di meglio per ridurre il potere di mercato monopolistico, l’esclusione e la discriminazione; garantendo una minore trasmissione intergenerazionale dei vantaggi acquisiti, inclusa una minore trasmissione intergenerazionale del capitale umano e finanziario, in parte migliorando l’istruzione pubblica, aumentando la tassazione sull’eredità e reintroducendo una progressività maggiore nelle imposte sul reddito.
Non è un caso che abbiamo il sistema che abbiamo, con le regole che ha. Agli “interessi particolari” piace che sia così. Potrei avere esagerato un po’, in passato, quando ho detto che gli Stati Uniti avevano un governo dell’uno per cento, per l’uno per cento e fatto dall’uno per cento, o quando ho suggerito che siamo passati da una democrazia con una-persona-un-voto ad una con un-dollaro-un-voto. Ma è chiaro che alcune delle politiche che sono state perseguite sono state fortemente svantaggiose per l’economia nel suo complesso e hanno creato, allo stesso tempo, più disuguaglianze: ci sono stati solo pochi vincitori e molti vinti.
[Ampi stralci della lecture che l’economista premio Nobel Joseph Stiglitz ha tenuto a Bologna nel corso della Conferenza Internazionale sulle Diseguaglianze (2-4 novembre) promossa dalla Fondazione di ricerca dell’Istituto Cattaneo. Fonte.]