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La chiusura del Cocoricò e la differenza tra realisti e benpensanti

Condivido quanto ha scritto Deborah Dirani:

 Chiudere per 4 mesi il Cocoricò è un po’ come serrare le porte della stalla dopo che i buoi sono andati in gita. Pensare di risolvere, o quanto meno contenere, il problema di quelli che si sfondano di Ketamina o MDMA levandogli una discoteca è davvero come cercare di vincere una guerra armati di piumini da cipria. Eppure questa è l’unica soluzione che è venuta in mente a Roma dopo il clamore mediatico suscitato dalla morte di un ragazzetto che si era calato un pasta.

Come a dire che la colpa è del locale e di chi lo gestisce. Come se i gestori di un locale potessero veramente mettersi di traverso agli spacciatori, ai ragazzini che ti chiedono se vuoi spendere, intendendo se ti vuoi comperare una pillolina della felicità. Come se il problema di quelli che passano i loro week end a smascellare sudandosi l’anima fosse qualcosa di pratico e non di sociologico, o psicologico, se si preferisce.

Come se non esistessero alternative al sabato sera al Cocco, come se non esistessero altri posti in cui ballare con le sinapsi sconnesse e gli occhi pallati. Come se non esistessero i rave, le tribe, e quelli che la vita se la vogliono vivere col cervello a metà.

La realtà è che per i prossimi 16 week end non si venderà una sola pasta di meno a Riccione e in tutto il resto d’Italia, che il provvedimento applicato con urgenza dal Viminale non salverà neanche una vita. Perché la vita quando ti cali una pasta o ti piombi di Ketamina te la giochi sempre ed è solo questione di fortuna, o di consapevolezza, se all’alba del giorno dopo sei ancora qua a veder sorgere il sole.

Il pizzo è in crisi, Cosa Nostra si sposta sulla droga

Mafia: Vincenzo Giudice  © Copyright ANSA
Mafia: Vincenzo Giudice
© Copyright ANSA

I carabinieri del Comando provinciale di Palermo hanno eseguito 39 misure cautelari, disposti dal gip, nei confronti di esponenti del clan mafioso di Pagliarelli, accusati di associazione mafiosa, traffico di droga, estorsione e corruzione. Nel corso dell’indagine sono stati sequestrati centinaia di chili di droga. L’inchiesta, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia guidata dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, ha disarticolato i vertici dei clan di Pagliarelli, Corso Calatafimi e Villaggio Santa Rosalia.

La crisi economica che attanaglia i commercianti palermitani spinge i boss a tornare al traffico degli stupefacenti, business attualmente privilegiato rispetto al racket delle estorsioni che, negli ultimi anni, ha rimpinguato le casse dei clan e sostentato le famiglie dei ‘picciotti’ detenuti. Nel corso dell’inchiesta, coordinata dalla Dda, i carabinieri hanno sequestrato oltre 250 chili di droga. Scoperte, comunque, diverse estorsioni: i commercianti continuano a pagare anche se qualcuno trova il coraggio di denunciare. Un imprenditore, che stava effettuando lavori di ristrutturazione al Policlinico, si sarebbe rivolto agli inquirenti raccontando loro di avere ricevuto una richiesta di pizzo di 500 mila euro. Tra gli altri, in cella, sono finiti i tre nuovi capi del mandamento di Pagliarelli, una sorta di triumvirato che, dopo le decine di arresti degli ultimi anni, tentata di riorganizzare il clan.

La cosca sarebbe stata guidata da un triumvirato composto da Alessandro Alessi, Vincenzo Giudice e Massimiliano Perrone. Questi gli arrestati nell’ambito del blitz dei carabinieri che ha disarticolato il clan a Pagliarelli: Alessandro Alessi, Giuseppe Perrone, Vincenzo Giudice, Michele Armanno, Giovan Battista Barone, Salvatore Sansone, Tommaso Nicolicchia, Andrea Calandra, Giosuè Cadtrofilippo, Giovanni Giardina, Alessandro Anello, Carlo Grasso, Antonino Spinelli, Matteo Di Liberto, Rosario Di Stefano, Aleandro Romano, Stefano Giaconia, Giuseppe Giaconia, Concetta Celano, Giuseppe Castronovo. Ai domiciliari sono finiti Vincenzo Bucchieri, Paolo Castrofilippo, Daniele Giaconia, Giovanni Correnti, Antonino Calvaruso, Gaetano Vivirito, Luigi Parolisi, Carmelo Migliaccio, Salvatore Ciancio, Domenico Nicolicchia, Giuseppe Bruno, Pietro Abbate e Antonino Abbate. Per Mauro Zampardi, Angelo Milazzo, Cosimo Di Fazio, Giovanni Catalano, Giuseppe Di Paola e Francesco Ficarotta e’ stato disposto l’obbligo di dimora.

(fonte)

Stefano Cucchi: cosa è successo nella caserma di Tor Sapienza?

Tor Sapienza è un quartiere periferico di Roma, frenetica zona di gare notturne clandestine e di cocaina nonostante le ripetute rimostranze di alcuni cittadini che hanno segnalato le piazze di spaccio, Piazza Giuseppe Raggio. Alcune fonti parlano di un’ampia indagine antidroga che riguarderebbe anche molti “intoccabili”, stimabili professionisti e insospettabili. La caserma dei carabinieri di Tor Sapienza è uno degli interrogativi da sciogliere obbligatoriamente nella vicenda di Stefano Cucchi:

“Procederemo a una rilettura di tutte le carte dell’inchiesta con riferimento alle posizioni che non sono state oggetto di indagine”: non potendo fare molto di più, in attesa della Cassazione e in virtù del principio giuridico del ne bis in idem (non si giudica una persona due volte per lo stesso reato), il procuratore capo di Roma ha annunciato di voler andare a spulciare gli atti che riguardano persone non toccate dall’inchiesta. In sei giorni 140 persone hanno avuto a che fare con lui. Per esempio i carabinieri. Già la sentenza di primo grado andava in questa direzione: “Non è certamente compito della Corte – prosegue – indicare chi dei numerosi carabinieri che quella notte erano entrati in contatto con Cucchi avesse alzato le mani su di lui”. Proviamo allora a ripercorrere quei terribili giorni. Cominciamo dalla notte dell’arresto.

“Il giorno 16/10/2009 ricevevo una telefonata alle ore 00.00 da personale del Gruppo di Roma che preannunciava l’accompagnamento presso le nostre celle di un detenuto poi identificato con Stefano Cucchi”. A parlare è il carabiniere scelto Gianluca Colicchio, impiegato presso la stazione di Tor Sapienza. Stefano era appena stato fermato all’uscita del Parco degli Acquedotti. Accanto a lui, su un’altra vettura, il suo amico Emanuele Mancini: “A entrambi due carabinieri chiedevano se avevamo droga. Io rispondevo che ero pulito ma non so se Stefano abbia risposto lo stesso. All’esito della perquisizione sulla macchina di Stefano i carabinieri trovavano hashish e altre pillole che loro pensavano fosse stupefacente, mentre invece Stefano gli diceva che erano pillole di ‘rivotril’ e lassativi. Sono a conoscenza che Stefano, che conosco da 11 anni, soffriva di epilessia”.

I due ragazzi vennero condotti nella stazione Appia. Ancora Emanuele: “I carabinieri in borghese mi dicevano che avrei dovuto firmare una dichiarazione che avevo acquistato lo stupefacente da Stefano, pur non essendo vero, in modo tale da uscire pulito da questa storia”. Così fu: Emanuele tornò a casa, Stefano rimase in camera di sicurezza. “Al momento dell’arresto – scrisse il carabiniere Francesco Tedesco – il Cucchi, di corporatura molto magra, camminava bene e non presentava alcun segno particolare sul volto se non delle occhiaie verosimilmente dovute all’eccessiva magrezza”.

Alle 3,20 del 16 ottobre Cucchi venne “tradotto” dalla stazione Appia a quella di Tor Sapienza. “Durante l’accompagnamento – mise a verbale il maresciallo Davide Antonio Speranza – il prevenuto non lamentava nessun malore, né faceva alcuna rimostranza in merito”. E invece poco dopo l’arrivo a Tor Sapienza, fu necessario chiamare il 118. “Trascorsi 20 minuti circa – riferì ancora Colicchio – il Cucchi suonava al campanello di servizio e dichiarava di avere forti dolori al capogiramenti di testatremore e di soffrire di epilessia”.

Stefano però si rifiutò di farsi visitare e si mostrò “poco collaborativo”. Erano le 4,50 del mattino. Alle 9:05, il carabiniere scelto Francesco Di Sano aprì la cella: “Il Cucchi riferiva di avere dei dolori al costato e tremore dovuto al freddo e di non poter camminare”. L’arrivo nelle celle di sicurezza del Tribunale di piazzale Clodio, quando il ragazzo fu preso in consegna dagli agenti penitenziari, avvenne alle 9,30. Il padre Giovanni lo vide per l’udienza di convalida, e lo trovò col viso gonfio, i lividi sotto gli occhi. Nel verbale d’arresto i militari scrissero che Cucchi era “nato in Albania il 24.10.1975, in Italia senza fissa dimora”.

L’assistente capo della penitenziaria Bruno Mastrogiacomo, in servizio presso Regina Coeli, dichiarò ai pm: “Io ho fatto spogliare il Cucchi, ho visto che aveva segni sul viso, sugli zigomi, rossi, tipo livido, e quando gli ho detto di piegarsi lui mi ha detto che non riusciva a fare la flessione perché gli faceva male all’altezza dell’osso sacro. Gli ho chiesto che cosa era successo e il Cucchi mi ha detto che era stato malmenato dai carabinieri quando è stato arrestato”. Un altro poliziotto, Fabio Tomei, mise a verbale che il detenuto Mario Torrenti, “che non è mai stato in cella insieme a Cucchi” riferì alla collaboratrice dell’onorevole Pedica, durante una sua ispezione, che “dovevano indagare sui carabinieri, che Cucchi era stato picchiato a Tor Sapienza”. I pm Barba e Loy hanno ritenuto, però, di non doverlo fare.

(link)

Morire a Roma con sei colpi addosso

Si sono avvicinati in moto e con sei colpi di pistola lo hanno freddato. Un’esecuzione in piena regola quella che è andata in scena a Roma, in via Torresina, quartiere Tor Vergata, poco prima delle 21. La vittima è un giovane di 22 anni, Edoardo Di Ruzza, con precedenti per droga e già arrestato tre anni fa dai Carabinieri per porto abusivo di armi. La prima ricostruzione dei fatti parla di due killer, su una moto, che si sono avvicinati e hanno iniziato a sparare. Indaga la polizia.

A proposito di quello che si scriveva giusto qui.

La Guerra alla droga. E il suo fallimento.

me16Questo è un Paese in cui il coraggio veramente progressista nell’affrontare i problemi arriva sempre con qualche decennio di ritardo: succede per i diritti civili, succede per le leggi finanziarie, succede per la lotta (vera) alla mafia e succede per la questione “droga”. Verrebbe da pensare che sia fondamentale “allarmare” per poi finalmente aprire un dibattito e (nel migliore dei casi) intervenire a livello legislativo. Eppure i numeri del proibizionismo della droga sono numeri che dovrebbero fare riflettere e che dovrebbero essere raccontati almeno per potere formulare un giudizio consapevole e, ci auguriamo tutti, una soluzione al passo con i tempi e con i fallimenti passati. Magari prima del Governo del 2030, verrebbe da dire:

La storia della Guerra alla droga inizia dunque nel giugno 1971, con la scelta di Nixon di impegnarsi in un conflitto più grande, e ancor più difficile e folle, di quello in Vietnam. La droga, dice l’allora presidente in un discorso, è il nemico pubblico numero uno degli Stati Uniti. Nonostante la politica anti-criminalizzazione di Jimmy Carter, che porta, nel 1979, la depenalizzazione in 10 stati, Ronald Reagan torna sui passi di Nixon, e torna con lui la tolleranza zero. Uno dei protagonisti di Breaking the taboo è Robert DuPont, ex responsabile della propaganda anti-droga della Casa Bianca dal 1973 al 1977, sotto i presidenti Nixon e Ford. Oggi, è uno dei principali oppositori alla guerra. Giustifica il suo passato, in parte, così: «Il governo era completamente impreparato all’esplosione del problema della droga. We totally misunderstood cocaine».

Nel 1989 negli Usa il presidente è George H. W. Bush (Senior), e Forbeselegge Pablo Escobar, 40 anni, settimo uomo più ricco del pianeta, con un patrimonio stimato in 25 miliardi di dollari. Escobar trasportava 15 tonnellate di cocaina al giorno nei soli Stati Uniti. Tra i protagonisti del doc c’è anche César Gaviria, presidente della Colombia dal 1990 al 1994, gli anni d’oro del più grande narcotrafficante del mondo. Inizialmente la Colombia era il paese dove si processava la droga, che veniva coltivata in Bolivia e Peru. Quando anche la produzione arrivò a Medellin, nacquero i grandi cartelli. «La gente» spiega Gaviria «aveva paura di Escobar». Forse. Ma fu proprio quando Stati Uniti e Colombia decisero di sfidare il potere del suo cartello che esplose una vera e propria guerra che portò 50.000 morti in due anni. Le immagini, a questo punto del documentario, mostrano piantagioni in fiamme e attacchi chimici su campi coltivati, da parte di aeroplani. La Colombia è l’unico paese al mondo in cui fu utilizzata questa tecnica, chiamata affumicazione aerea, che spesso colpiva e uccideva, però anche raccolti “innocenti” e circostanti. Facile, in queste situazioni, immaginare la spontaneità con cui le popolazioni locali simpatizzassero con i narcos. «Non puoi fare una guerra alla droga» aggiunge Ruth Dreifuss, ex presidente svizzera, «senza fare una guerra al popolo».

Dall’inizio del Plan Colombia nel 1999, l’iniziativa studiata dall’allora presidente sudamericano Pastrana e da Bill Clinton (un altro dei “pentiti”) per fermare la guerriglia colombiana e l’esportazione di cocaina, il numero dei paesi “coltivatori” passò da otto a ventotto. Oggi il traffico di droga mondiale ammonta a 320 miliardi di dollari l’anno, il più grande mercato clandestino del pianeta. Senza leggi a regolare questo traffico, come dice Morgan Freeman, armi e violenza sono i metodi di controllo più efficaci.

Andrade si sposta poi in Brasile, accompagnato da Fernando Cardozo, anche lui, manco a dirlo, ex entusiasta della Guerra alla droga. Le immagini parlano di sparatorie, ragazzi che si nascondono dietro macchine e riprendono il fuoco, pallottole che si sentono ma non si vedono, adulti e bambini che scappano nel panico. Si concludono con il pianto dei superstiti su alcune vittime, sdraiate in una strada e coperte da una plastica gialla trasparente, qualcosa che richiama, insieme, un imballaggio da banco frigo di un supermercato e una “panetta” di droga.

Si passa al Messico, alle spese dell’ex presidente Calderon nella Guerra (un miliardo di dollari solo nel 2008), ai 400.000 omicidi legati alla droga registrati dal 2006 a oggi, un dato che è difficile da quantificare esattamente, di primo acchito. È necessario rifletterci per un attimo, e tentare di stabilire le esatte dimensioni di 400.000 esseri umani (mi ha ricordato l’interminabile elenco di morte di Roberto Bolaño in 2666, o la popolazione dell’intera città di Bologna). E dopo il Messico, il primo piano di Bush Senior, sibillino e minaccioso: «If you do drugs, you will be caught. And when you’re caught, you will be punished. Some think there won’t be room for them in jail. We’ll make room». Realista: la Guerra alla droga è anche e soprattutto domestica. Circa 2 milioni e mezzo sono i detenuti negli Stati Uniti, un numero più alto di quelli cinesi. Erano 330.000 nel 1970. a Baltimora, una delle città più “problematiche” della nazione, su 600.000 persone, nel 2007, ci furono 100.000 arresti. Si è calcolato che la popolazione che fa uso di droga nel mondo (anche saltuariamente) è di 230 milioni di persone; di queste, il 90% non è “problematic”. In Italia (paese europeo leader nel consumo di droghe leggere) il 20,9% della popolazione compresa tra i 15 e i 35 anni fa uso di marijuana; in Olanda è il 9,5%. Siamo il secondo mercato oppiaceo del continente, il terzo per quanto riguarda la cocaina, e il 31% degli arresti del 2011 sono legati alla droga (dati dell’International Narcotics Control Strategy Report, marzo 2012). Intanto, negli Stati Uniti, nel 2009 si registrarono 1,6 milioni di arresti legati alla droga; 1,3 per il solo possesso; 800.000 legati alla sola marijuana.

Si passerebbe, poi, all’Afghanistan, alle esportazioni di eroina che farebbero impallidire Escobar. Si passerebbe all’Olanda, al Portogallo, alla Svizzera, ai vantaggi della depenalizzazione e della legalizzazione (che rimangono, comunque, concetti estremamente diversi). Si passerebbe (si dovrebbe passare) ad altri articoli, altri dati, un’informazione più vasta: uno su tutti, il dato della spesa militare statunitense per la Guerra alla droga. Erano cento milioni di dollari la prima volta, nel 1971, sono quindici miliardi quelli del 2012. E poi c’è una ricorrenza importante, che dà ancora più senso al documentario e alla sua esistenza, gratuita e pubblica: quest’anno sarà l’ottantesimo anniversario dal 1933, l’inizio del proibizionismo americano. Non esattamente un bel ricordo per il mondo.

(da Rivista Studio)

Loro abitano qui

La notizia così nuda e cruda sembra la solita notizia da omicidio. Nemmeno troppo interessante visto che la vittima è albanese e i morti ammazzati se sono albanesi sono meno interessanti, si sa. Poi il luogo dell’omicidio è Casorate Primo, in provincia di Pavia, e capite che il nome non aiuta per aprirci una mitologia.

Però Sali Kutelli (si chiama così l’albanese morto ammazzato) è stato ucciso a colpi di pistola, quella sera del 14 gennaio, mentre camminava nella via principale del paese. Ha cominciato a correre. Correva lui e quelli dietro con la pistola che l’hanno ammazzato come si ammazzano i cani per strada appena scende la sera sull’attenzione, la paura e nel cielo. E un morto ammazzato nella via del centro non è proprio un morto ammazzato da finire nel cassonetto delle storie di cui non occuparsi, forse.

Poi mettici che i due che lo rincorrevano oggi hanno un nome:  Giuseppe Trimboli, 28 anni, e Alessandro Notarangelo, 39 anni, residenti a Casorate Primo. Anche loro. Omicidio in casa loro. Come i cani che pisciano per tenersi il territorio. Le indagini condotte dai carabinieri di Pavia, e coordinate dal sostituto procuratore Paolo Mazza e dal procuratore capo Gustavo Cioppa dicono che si tratta di problemi di droga: gestione dello spaccio nelle zone di Pavia e Milano. E l’albanese con la droga qui in Lombardia quasi te lo aspetti. C’è gente che ci ha costruito una carriera politica, anche.

Eppure Giuseppe Trimboli è proprio della famiglia Trimboli che spicca tra le famiglie che contano in questioni di ‘ndrangheta. La famiglia di Rocco Trimboli, “un irrinunciabile punto di riferimento per le collegate ‘ndrine piemontesi e lombarde”, dicono le carte che hanno portato al suo arresto.

E così albanesi, mafia e droga si mescolano e (finalmente) rendono tutto più difficile per chi si ostina a volere dividere i crimini e i criminali per ostentare controllo e infondere sicurezza. Anche perché la cocaina che vendeva Kutelli (c’è da scommetterci) era per lombardi lombardissimi. E così ci entrano anche gli indigeni: quelli del nord. Quelli che non hanno visto e sentito lo sparo. Quelli che ci abitano vicino, al Trimboli di “quei Trimboli lì che in Calabria fanno i mafiosi”.

E invece il morto ammazzato è qui. Loro abitano qui. Vivono qui. Lavorano qui. E’ una notizia nostra. Per intendersi.

E’ un episodio isolato, aveva detto il sindaco.

 

Formigoni delega Muccioli? Ci ripensi

“Ancora non ci sono atti ufficiali, ma pare confermato che il Presidente Formigoni intenda nominare, in qualità di delegato alle droghe e dipendenze per Regione Lombardia, Andrea Muccioli.

La notizia ci lascia letteralmente sconcertati.

Muccioli e San Patrignano incarnano l’idea di una modalità educativa e di cura assai discutibile, che ha palesemente fallito, investita da ombre pesanti sui metodi e persino da vicende giudiziarie.

Un disastro che è stato anche economico e amministrativo, con una comunità al tracollo, un buco finanziario di svariati milioni e il recente allontanamento del figlio del suo fondatore.

Che ora verrebbe chiamato da Formigoni a occuparsi di droga proprio mentre la Regione, come ha denunciato alcuni giorni fa il Coordinamento enti accreditati e autorizzati Lombardia, riduce gli investimenti nei confronti delle persone con problemi di dipendenze e delle associazioni che se ne occupano.

Considerato che la nomina non è ancora stata formalizzata, auspichiamo un ripensamento. In caso contrario, si tratterebbe oltretutto di uno schiaffo inaccettabile al terzo settore, che in Lombardia vanta esperienze e risorse professionali e umane di grande livello, da anni impegnate nella prevenzione e nel contrasto al consumo di sostanze stupefacenti. Forse con meno visibilità pubblica di Muccioli, ma certamente con ottimi risultati”.
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