Vai al contenuto

elezioni

Devo darvi una notizia che una notizia non lo è: sono fatto così.

Faccio un mestiere particolare, io: troppi. Nasco stando sui palchi a limare le risate contro il prepotere dei prepotenti e per quello mi sono ritrovato in qualcosa di pauroso e pesantissimo per le persone che mi stanno intorno: a forza di affilare monologhi sono finito costretto a guardarmi le spalle. Era una cosa che faceva impazzire dal ridere Dario Fo, ogni volta che ci capitava di parlarne.

Poi non riesco a non mettermi a scrivere ogni volta che trovo una storia che non sia stata raccontata abbastanza: mi chiamano giornalista ma in realtà sono un cantastorie che in mancanza di palchi si butta sulla carta e la penna perché non sopporto che le storie rimangano sepolte dalle porte chiuse e dalle finestre abbassate. Mi chiamano giornalista ma forse sono semplicemente uno spazzacamino che stura le notizie che a qualcuno rimangono in gola.

Mi occupo di mafie. Sì. Senza aver mai pensato di esserne né l’antieroe né il nemico numero uno ma con la consapevolezza che le mafie, sì, mi hanno cambiato la vita. In peggio. La mia e quella dei miei figli. Perché in questo la mafia è come la politica: tu puoi non occuparti di loro ma loro si occupano di te. E in tutti questi anni passati ad attraversare l’Italia ho scoperto eroi quotidiani e silenziosi che mi hanno insegnato più dei saggi: tra le vittime di mafia, tra i loro famigliari e tra le centinaia di persone che dell’antimafia ne hanno fatto davvero una professione (nel senso rotondo e pulitissimo di “professare” i propri valori)  ho incontrato persone che mi hanno insegnato la virtù della schiena dritta, delle scelte difficili e ho respirato il “profumo della libertà” contro “il puzzo del compromesso”. Sarebbero quasi da ringraziare, quegli stronzi che pensavano di intimorirmi.

Poi ho i libri. I miei libri. Che alla fine sono un distillato di me. Un pinta di Giulio, per dire. E ho la fortuna di avere editori che hanno creduto in me e lettori che mi scrivono lettere che sono più belle dei miei capitoli.

Poi ho la politica. Sì. Che è una passionaccia che coltivo e che auguro ai miei figli di coltivare. In Regione insieme a Pippo Civati abbiamo raccontato le mafie e il formigonismo quando ne parlavano in pochissimi. L’ho fatto lì, in faccia a Formigoni e in faccia agli stessi politici che con la ‘ndrangheta stabilivano le cordate elettorali. Faccio politica ogni volta che scrivo, recito e presento un libro: ogni volta che qualcuno tenta di colpirmi dicendomi “sei troppo politicizzato” lo prendo come un complimento da mettere nel cassetto degli attacchi che mi fanno piacere. Mi auguro un Paese politicissimo, aborro l’apolitica (e l’antipolitica) che ha sempre aperto la strada alle truffe e agli imbonitori.

Eccolo il mio mestiere, pieno di rivoli. E ogni volta ne pago volentieri il prezzo. Per questo quando Liberi e Uguali mi ha chiesto di candidarmi alla Camera, nella mia Lombardia, ho pensato che ci vuole fegato a candidare un rompicoglioni come me, critico per indole e di natura avverso alle servitù di scuderia (nonostante il cognome), ma credo che la sinistra (sì, la sinistra, anche se qualcuno vorrebbe farla passare di moda) ogni tanto tocchi anche costruirla con qualcosa in più degli editoriali. E ho accettato. Sono candidato a Monza nel collegio plurinominale alla Camera. Sarà un mese bellissimo.

Rimangono solo l’asinello e il bue

Sono andati a messa, i senatori assenti che hanno affossato lo Ius soli, si sono fatti accarezzare dal loro parroco e hanno pregato a mani giunte in bella mostra con tutta la giunzione che ci si aspetta da un Natale che precede di pochi mesi le prossime elezioni. Staranno inscenando tutta la bontà di cui sono capaci, protagonisti del pranzo in cui loro, da esimi senatori, danno lezioni di mondo come si addice a una classe dirigente sempre diligente alla proiezione che vogliono dare di se stessi.

Faranno foto tutto il giorno stando bene attenti a non inquadrare regali troppo costosi per non inimicarsi “la base”, con qualche spruzzata di qualche nonno ché la vecchiaia ha sempre il suo bell’effetto di tenerezza e, sicuro, inonderanno i propri social con mielose frasi di pace rubate da qualche sito di aforismi trovato grazie a google.

Poi, immancabile, ci sarà il presepe, che di questi tempi è l’olio di ricino a forma di statuette.

Fotograferanno, ignoranti, quell’immagine che rappresenta la nascita di un bambino palestinese rifugiato in Egitto, i tre Magi (un uzbeko, un somalo e un siriano), i pastori pieni di cenci e portatori di malattie, quella madre e quel padre che da irresponsabili hanno pensato bene di avere un figlio senza nemmeno avere una casa e nemmeno un lavoro e in più fotograferanno le pessime condizioni igieniche in cui sono abituati a vivere perché è “la loro cultura”.

Poi racconteranno ai figli e ai nipotini di Babbo Natale, di minoranza etnica lappone che vorrebbe fingersi finlandese.

E alla fine rimangono solo il bue e l’asinello. E l’ipocrisia, a fiumi, insieme al prosecco.

Buon Natale.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2017/12/25/rimangono-solo-lasinello-e-il-bue/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui.

E se il 18 giugno a sinistra nascesse un’alleanza non solo “di cartello”?

Ogni giorno un cambio di casacca, un mito utile, un nuovo leader straniero da qualche parte del mondo qualsiasi per provare a risvegliare una fascinazione nutrita solo dall’emotività del protagonista. Nel giro di qualche giorno sono stati prima tutti Macron, poi tutti Corbyn e poi di nuovo Macron così come la destra italiana si è appesa nei mesi scorsi a Trump (prima di pentirsene) o alla Le Pen (prima di prenderne le distanze per il pessimo risultato elettorale). Così anche le analisi e gli scenari sembrano più figli di un’emotività corta piuttosto che di ideali o progetti dallo sguardo lungo: siamo passati dal patto del Nazareno tra Pd e Berlusconi (che anche qualcuno dai democratici cominciava a dare per scontato e che ha scatenato le ire addirittura del garbato Romano Prodi) fino a una presunta alleanza (meglio: un tentativo di alleanza) tra il Pd e Giuliano Pisapia.
A sinistra, intanto, l’appuntamento per il 18 giugno (a Roma, teatro Brancaccio, dalle ore 9.30) che nasce dall’appello di Anna Falcone e Tomaso Montanari e sembra avere raccolto l’iniziale disponibilità di un ampio fronte che parte da Rifondazione comunista passando per Sinistra italiana, Possibile, Mdp e diversi comitati civici sparsi sul territorio suggerendo l’inizio di un percorso che, nel caso in cui si realizzasse, sarebbe una buona notizia per la sinistra italiana troppo spesso arroccata e divisa. Se davvero si riuscirà a creare una condivisione di idee e di programmi senza infangarsi su leadership e cattivi propositi di preservazione del ceto politico fallimentare, il 18 giugno potrebbe essere il primo passo di un’alleanza non solo di “cartello”. Del resto le ultime elezioni amministrative hanno dimostrato che quando la sinistra (a sinistra del Pd) riesce a raggiungere un’unità credibile può raggiungere risultati davvero importanti.

Ma come sarà il futuro? Difficile dirlo. Certo Giuliano Pisapia e il suo Campo progressista (che dicono di voler presentare addirittura un simbolo e un programma per la loro convention del primo luglio) dovrà decidere se insistere nel tentare di modificare la natura renziana del Pd (perdendo così contatto con chi, a sinistra, ritiene il Partito democratico non più potabile) oppure se dedicarsi al progetto che vuole essere alternativo al renzismo e alle politiche di questi ultimi anni.

L’articolo di Giulio Cavalli prosegue su Left in edicola


SOMMARIO ACQUISTA

(continua su Left)

Le elezioni a Trapani stanno diventando una barzelletta

Racconta bene la vicenda Il Post:

Negli ultimi mesi le vicende politiche del comune di Trapani, in Sicilia, dove lo scorso 11 giugno si è votato per il primo turno delle amministrative, hanno attirato le attenzioni dei quotidiani nazionali per via di alcune storie di calcolo politico e stratagemmi elettorali insoliti e sorprendenti, che hanno avuto una svolta ulteriormente inaspettata negli ultimi giorni. Il candidato di centrodestra Girolamo “Mimmo” Fazio, che è sostenuto da alcune liste civiche e dall’UdC ed è arrivato primo al primo turno con il 32 per cento, ha detto che se sarà eletto sindaco al ballottaggio rinuncerà all’incarico. Al tempo stesso non si è ritirato formalmente dalle elezioni, impedendo così al terzo candidato più votato al primo turno, il senatore di Forza Italia Antonio D’Alì, di accedere al ballottaggio del 25 giugno. Entro le 12 di oggi Fazio dovrebbe presentare la lista dei propri assessori: se non lo farà – cosa probabile visto che da ieri nessuno riesce a contattarlo e non si sa dove sia – rimarrà candidato per il ballottaggio solo Pietro Savona del Partito Democratico, che al primo turno ha preso il 26 per cento dei voti. Se però l’affluenza al ballottaggio non dovesse superare il 50 per cento, percentuale superata di poco al primo turno, Savona non potrà essere eletto e il comune sarà commissariato.

Le elezioni comunali a Trapani erano già molto strane prima delle vicende dell’ultima settimana: Fazio e D’Alì, due tra i tre principali candidati infatti erano interessati da inchieste giudiziarie, che erano risultate per Fazio agli arresti domiciliari, e per D’Alì all’obbligo di soggiorno. La ragione per cui Fazio – che è stato sindaco di Trapani dal 2001 al 2012 – ha deciso di rinunciare a diventare sindaco riguarda proprio l’indagine dalla procura di Palermo in relazione a un presunto giro di tangenti che riguardano il trasporto marittimo locale. Secondo l’accusa, Fazio avrebbe favorito l’armatore Ettore Morace, amministratore della delegato dell’azienda di trasporti Liberty Lines, che è la più grande compagnia di aliscafi d’Europa, in cambio di tangenti. Morace e Fazio si conoscono e sono legati: la moglie di Morace, Annemarie Collart Morace, era una delle persone indicate da Fazio come futuri assessori in caso di vittoria alle elezioni. A maggio Fazio e Morace sono stati arrestati: Fazio è rimasto agli arresti domiciliari per sedici giorni, fino al 3 giugno, mentre Morace si trova tuttora ai domiciliari.

(continua qui)

Oddio si vota già e la sinistra non sa cosa mettersi

(un mio editoriale per Linkiesta, satirico ma anche no)

Oddio, si vota e la sinistra non sa cosa mettersi. Ancora. Come tutte le ultime votazioni da quando ero bambino e quando la campagna elettorale la riconoscevi dall’alito inferocito dei banchetti elettorali e dagli altoparlanti starnazzanti legati a fiocco sul tetto delle auto. Sono passati Roberto Baggio, Maldini e finanche Totti eppure la sinistra è sempre lì: tra l’indecisione di cosa indossare e la brama pericolosa di scegliere prima che arrivi l’orario di chiusura.

Si vota a settembre, si mormora nei corridoi del Parlamento. Lo spettro della smobilitazione rovescia gli sguardi sazi e tronfi in accaldate discussioni su soglie di sbarramento, collegi elettorali, promesse e crediti gelosamente custoditi nel cassetto. Nei dintorni di Montecitorio si torna con sforzo a sorridere un po’ a tutti:l’istinto dell’autopreservazione è il sentimento comune della prima Repubblica, della Seconda e di tutte le legislature che sono venute e che verranno. Matteo Renzicerca la sponda giusta per uccellare il governo Gentiloni con la promessa di farne un altro uguale ma da Presidente del Consiglio, secondo la sua consueta logica egoriferita di confondere il governo con il potere e il proprio ruolo come più alta certificazione e garanzia; Silvio Berlusconi, al solito, si gode la posizione del sornione spendendo carezze e rimbrotti ma parlando soprattutto con i silenzi; Salvini rovista tra le macerie del lepenismo anti europeo, ormai rancido, e spera di trafugare qualche feticcio ad effetto per uscire dai binari (usurati e usuranti) dell’invasione straniera; Grillo prega che non si fermi la spinta, che non venga eletta un’altra Raggi e che il mare non rabbonisca troppo la rabbia mentre gli alfaniani (minuscoli seppur pieni di rivoli) mimano di voler essere l’ago della bilancia ma si sono persi l’ago.

E a sinistra? A sinistra s’ode un mormorio incagliato, la stessa nota di sempre.

Ci sono i sommatori, innanzitutto. Sempre loro. Li riconosci perché hanno una penna nel taschino e scrivono calcoli dappertutto, dalle tovagliette del ristorante, alle carte intestate e, se serve, anche sui depliant pubblicitari: ogni volta che incontrano qualcuno che sentono “affine” iniziano a sottolineare le addizioni del “noi, se ci mettiamo con voi, più quelli altri e se convinciamo anche Pisapia” credendo che la politica sia banale come una somma in colonna da prima elementare. Esultano come per un sorpasso all’ultimo giro se riescono a inglobare un movimento indipendentista dello zero virgola zero e considerano i sondaggi il capitale sociale di un’azienda travestita da partito. Per loro l’unità della sinistra è l’ammucchiamento delle loro disperazioni. E poi perdono. Ovvio.

I disconnessi. Specie di ceto politico (bipartisan ma ben impiantato a sinistra) che misura la propria popolarità secondo astrusi metodi personali a cui vorrebbero dare validità scientifica. Sono convinti che i sondaggi tutti siano un complotto di Big Pharma (che non c’entra un cazzo ma sentite come suona bene, Big Pharma, messa dappertutto) e si basano sulle loro “sensazioni”. Così aspirano almeno a un ministero dopo una serata in Val Camonica in cui hanno “riempito un teatro” che era parrocchiale da venticinque posti. Sono quelli che dicono di sentire “aria positiva intorno a noi” perché al bar sotto casa gli hanno offerto un caffè e sono quelli che hanno messo la scritta “onorevole” sul citofono, per “restare semplici”.

(continua sul sito de Linkiesta qui)

Indovina con chi va il Pd? Con Angelino Alfano. A Palermo, intanto

Nonostante sia un copione liso e scontato, provoca il sorriso la testardaggine con cui questi si ostinano a smentirla: a Palermo, in vista delle prossime elezioni amministrative, il Pd sosterrà l’attuale sindaco Leoluca Orlando (a cui, dicono, hanno fatto opposizione dura in questi ultimi cinque anni, per dire) insieme agli alsaziani (quel che ne resta) e ai rimasugli dell’Udc.

Ne esce una lista (dal nome appetitosissimo “Democratici e Popolari”) che richiama lontanamente i colori e le grafiche del Partito Democratico e di Alternativa Popolare (la neonata creatura di Angelino Alfano) senza però citarli; Leoluca Orlando, del resto, da mesi continua a spiegare un po’ dappertutto che Fassino ha perso proprio per “colpa” del partito. Quindi? Quindi tutti civici per finta con la pretesa di riuscire a darcela a bere. Democratici e popolari. Appunto.

 

(continua su Left)

Pazza idea: evitare il referendum sul Jobs Act

Ne scrive Luca Sappino su Left qui:

La bomba l’ha sganciata Poletti, svelando ciò che Left aveva tristemente subodorato – tant’è che sul prossimo numero in edicola, Tiziana Barillà chiede direttamente a Maurizio Landini cosa farà se il Pd dovesse spingere per far finire la legislatura anticipatamente, con una tempistica utile a far slittare il referendum sul jobs act, quello sui voucher e gli altri quesiti “sociali” su cui la Cgil ha raccolto oltre tre milioni di firme. Perché questa, dice Poletti, è l’idea dei più. «Mi sembra», ha detto il ministro ai cronisti, «che l’atteggiamento prevalente sia quello di andare a votare presto. E se si dovesse andare ad elezioni anticipate diventa ovvio che per legge l’eventuale referendum sul jobs act sarebbe rinviato».

[…]

La legislatura, insomma, dovrebbe finire prima di aprile. O prima della data che si assegnerà alla consultazione. Questo perché la legge 352 del 1970 stabilisce che «ricevuta comunicazione della sentenza della Corte costituzionale, il Presidente della Repubblica, su deliberazione del Consiglio dei Ministri», indica con decreto il referendum, fissando la data di convocazione «in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno». E però, «nel caso di anticipato scioglimento delle Camere», continua la legge, ben chiara nella testa di Poletti, «il referendum già indetto si intende automaticamente sospeso», destinato a slittare ben un anno dopo, almeno, le elezioni. Renzi, così, non rischierebbe di veder demolita, dopo la riforma costituzionale, un’altra sua legge-manifesto.

(l’articolo completo è qui)

Perché votiamo cretini per governarci?

(Alessio Postiglione scrive un articolo per HP che sembra satira. Ma non lo è.)

Perché eleggiamo cretini per governarci? Potrebbe sembrare irrispettoso e snob ma, nelle democrazie europee, abbiamo una certa predilezione per votare personaggi le cui biografie non sembrano le più adatte: comici, attori, saltinbanchi dei reality, smandolinatori da crociera. Mentre un tempo la politica era grigia perché era seriosa, ci si aspettava che un politico si formasse alla Frattocchie, studiasse i dossier, facesse una gavetta dal quartiere al parlamento, oggi promuoviamo sul campo maschere carnascialesche, che hanno fatto della battuta greve la loro raison d’être.

E questo non significa non riconoscere la loro validità politica. In questo post, spiego le ragioni politiche della vittoria di Trump. Tuttavia è indubbio che il neo presidente americano, come già Berlusconi o Grillo, seppur non cretini, siano un’altra cosa: spettacolo prestato alla politica. Portatori di un linguaggio diverso e spensierato, fatto di “vaffa”, corna, battute sulle donne, che ha definitivamente spazzato via i grigi “professoroni”, il culturame, i sociologismi d’antan.

Alla rappresentanza politica si è sostituita la rappresentazione, alle drammatiche disquisizioni da “intellettuali da Magna Grecia”, la commedia. Il giornalismo si è trasformato di conseguenza: prima infotainment, oggi satira nei teatri. Sia nei media che nella politica, cos’è ragionamento e cosa cabaret?

Molte le ragioni di queste nuove leadership. È la logica dei Nip – not important person – che ha prevalso sui Vip, secondo la dinamica dei reality e del Grande Fratello. È la mediatizzazione della politica, per la quale servono physique du role e non éminence grise. È la controdemocrazia del pubblico, parafrasando i politologi Pierre Rosanvallon e Bernard Manin, che si basa sull’espressione reiterata del dissenso, dietro schermi e pc, e che tende a premiare cioè che Sergio Fabbrini ha definito élite negative. Ma c’è un motivo in più.

La politica soffre di “selezione avversa“, per cui si sceglie sempre la cosa sbagliata.

(continua qui)

«Ecco perché non si può votare Trump»: parla un suo ex avvocato

(di Tohmas M. Wells)

Mi piace l’autenticità. Sono preparato a lasciare che un candidato dica qualcosa con cui non sono totalmente d’accordo, e a sostenerlo/a comunque. Credo che la necessità di essere politicamente corretti sia andata troppo oltre. Credo anche che i media, spesso, montino e distorcano storie fino alla menzogna.

Credo che una middle class di successo sia la chiave della storia del successo americano, in termini sia economici che politici, e che i lobbisti abbiano fin troppa influenza. Sono un pragmatico, tanto da preferire il compromesso all’ideologia. Mi piacciono gli accordi, soprattutto quelli del tipo “win-win”.

Dunque, Donald Trump è il “mio” candidato, giusto? No, non lo è!

Nel 1987, quando io avevo 35 anni e lui 41, Donald Trump mi assunse come legale per un importante progetto nel nord del New Jersey: un centro commerciale che, come tutto il resto, avrebbe portato il suo nome, il “Trump Centre”. Il fatto che lui mi avesse scelto era molto importante per me, un grande onore arrivato solo un paio d’anni dopo aver avviato il mio studio legale che ora ha più di trent’anni. Era ancora il periodo in cui Trump costruiva edifici, aveva appena finito la Trump Tower.

Sembrava uno intelligente, dotato di fiuto per gli affari, risoluto. Possedeva un ufficio impressionante, una barca enorme, una linea aerea, un elicottero e diversi casinò. Nel giro di qualche anno, avrebbe perso praticamente tutto a causa di pessime decisioni d’affari. Per Donald Trump hanno lavorato tantissimi avvocati, un mucchio. Non sono Roy Cohn (non sono aggressivo come lui e neanche, spero, moralmente discutibile come lui) ma sapevo bene quanto ottenere l’utilizzo del suolo contasse in un iter procedurale impegnativo nel New Jersey. Ero elettrizzato quando mi assunse.

Dopo il colloquio iniziale, i miei contatti con Donald non furono molto frequenti, a dire il vero. Ma ricordo bene un infelice episodio (che non dimenticherò mai): un viaggio in limousine (alla volta di un meeting con il consiglio di redazione di un giornale del New Jersey) durante il quale il mio cliente, sposato, cercò di intrattenermi parlandomi del numero e delle qualità di giovani donne disponibili che, a suo dire, “lo volevano”. Ero evidentemente scioccato e imbarazzato, ma continuavo a sorridere. Volevo che il cliente fosse felice, ne avevo bisogno.

Mentre lavoravo per Donald, diversi servizi giornalistici sostenevano che Trump, e la moglie dell’epoca Ivanna, vivessero in un appartamento della Trump Tower composto da 8, 16, perfino 20 o 30 stanze. Sinceramente incuriosito, una volta gli chiesi quante camere ci fossero davvero in quell’appartamento. Non dimenticherò mai la sua risposta “Tutte quelle di cui scriveranno”.

Donald Trump era, all’epoca come adesso, eccessivo, esagerato soprattutto ai suoi stessi occhi. Ma, al tempo stesso era spaventosamente piccolo, un uomo dalla scarsa moralità. Era, e lo è ancora, tutto ego e spettacolo.

Ci ho pensato tanto e voglio condividere il mio modesto parere sui motivi per cui non possiamo eleggere Donald Trump presidente degli Stati Uniti. Per me, è più una questione di carattere che di politica. A causa della mancanza del primo, la seconda (la vera linea politica di Donald Trump) non è così semplice da riconoscere.

Una volta iniziato a snocciolare le ragioni per cui Donald non sarebbe un bene per il nostro Paese, è stato difficile fermarsi. Sono riuscito a fermarmi, però, arrivato a 20. Circa 4000 parole. Continuate a leggere se siete interessati.

1. Quell’uomo mente sempre. 
Da bugiardo patentato, lo fa impunemente. “A Jersey City ho visto migliaia di persone esultare mentre il World Trade Center crollava” “Nell’ultimo trimestre il prodotto interno lordo è stato meno di zero”. “Il numero di immigrati illegali negli Stati Uniti è di 30 milioni, potrebbe salire a 34”. “Il governo messicano obbliga i soggetti più pericolosi ad entrare nel nostro paese”. “Il tasso di disoccupazione potrebbe arrivare al 42%”.

Tutte queste affermazioni sono uscite dalla bocca di Donald, spesso urlate, più volte davanti a folle numerose. Vogliamo parlare della bufala “Le statistiche sulla criminalità indicano che i neri uccidono l’81% delle vittime bianche di omicidio?”. Verrebbe da chiedersi come una simile bugia possa essere concepita, figuriamoci detta. Donald Trump afferma tutte queste cose a viva forza, quindi forse devono essere vere. Ma non lo sono!

Non vi è un briciolo di verità, è inequivocabile. En passant, viene da riflettere sulla veridicità delle frequenti affermazioni di Trump a proposito del fervore della sua Cristianità e del fatto che la Bibbia sia il suo libro preferito. Evidentemente, “non dire falsa testimonianza” non è il suo Comandamento preferito.

2. In realtà, non ruota tutto intorno al candidato. 
“Non è incredibile che io abbia ragione così spesso? “Solo io posso rimediare” “Ho un grande cervello”, “Sono molto, molto ricco”.

Donald dice davvero cose del genere. Il suo ego non sembra conoscere limiti. Quando Donald si sente offeso da qualcuno, diventa ossessionato senza riuscire a controllarsi. Si agita, diventa furioso e dice cose incredibilmente inopportune. È in stato di grazia quando può ottenere un risultato che brama con la prepotenza.

Avete mai notato che le storie vere raccontate dagli altri candidati su persone che hanno conosciuto, e che magari lottano con un problema serio, non fanno parte del lessico di Trump? Continua a dirci che gli interessano solo i vincitori. Credo che questa gente non abbia i requisiti giusti. Per dirla in un altro modo, Donald Trump non è capace di relazionarsi bene agli altri.

In primis, ha le sue idee su chi deve affiancarlo. Inoltre vuole essere lui a condurre i giochi. È quel bambino capriccioso che vuole che le cose vengano fatte a modo suo, o se ne va battendo i piedi. Cosa succederà quando capirà che anche la carica più alta della nazione non riguarda soltanto lui? Vogliamo mettergli in mano i codici per l’attivazione delle armi nucleari?

3. I presidenti degli Stati Uniti non sono re. 
La Costituzione li obbliga a condividere il potere. Donald Trump, che usa la parola “Io” più di qualsiasi altra persona abbia mai aspirato a questo incarico, ha una tendenza sfacciatamente autoritaria. Vuole essere un “uomo forte”, non un presidente.

Dovremmo domandarci cosa accadrebbe se fosse davvero chiamato a governare o a chiudere uno dei suoi accordi, in un mondo politico “a somma zero” dove l’altra parte dice semplicemente di no. Cosa dire della sua bassa curva dell’attenzione, della sua irascibilità e del suo bisogno di twittare ogni frustrazione?

4. Il diavolo si nasconde nei dettagli. 

“Vincendo così tanto ci stancheremo di vincere”, “Chiudiamo buoni accordi con la Cina” o perfino il famoso “Make America great again” sono slogan che non dicono nulla, in realtà. Non siamo stupidi, condividi qualche dettaglio con noi, così da farci capire se sai di cosa stai parlando. Per Donald, tuttavia, nei rari casi in cui a queste dichiarazioni seguono cifre specifiche (come il muro di 1609 chilometri, alto dai 35 ai 55 piedi o la deportazione di 11 milioni di immigrati) i dettagli non arrivano mai.

Non ci dicono mai che per costruire quel muro, anche più basso di 35 piedi (stando alle attuali stime edilizie) ci vorrebbero 25 miliardi di dollari anche se riuscisse ad ottenere il terreno per costruirlo (la maggior parte della frontiera su cui Trump vuole costruire il muro si trova in mezzo a un fiume e, in molti casi, la terra potrebbe non essere sicura abbastanza da costruire una recinzione).

La sua soluzione magica per fare in modo che sia il Messico a pagare? L’unica proposta che ho sentito prevede di confiscare le rimesse a quanti inviano soldi a casa o una delle sue “tariffe del 45%”. Come potrà mai funzionare per gli americani che inviano soldi alle famiglie o per tutti noi che pagheremo il 45% in più sulla merce prodotta in Messico o per l’azienda americana che si occuperà della fabbricazione? E cosa dire del fatto che il muro farebbe ben poco per fermare l’immigrazione illegale, causata perlopiù dai “soggiorni troppo lunghi” dei visitatori e che probabilmente creerà pochissimi posti di lavoro (semmai ce ne saranno) per le persone che Trump ha aizzato con il suo delirio xenofobo?

Prendiamo in considerazione la deportazione e concentriamoci sulle questioni serie. Esattamente come crede di riunire e deportare undici milioni di persone. Userà gli stadi e nazionalizzerà le navi da crociera? Chi si occuperà del raduno: di certo non la polizia, l’esercito forse? E i bambini abbandonati? Che dire del fatto che le fattorie americane, i ristoranti, per non parlare dei posti di lavoro nel settore del giardinaggio o della manodopera edilizia resteranno vacanti? Lavori fondamentali, certo, ma sono queste le occupazioni che Trump ha intenzione di destinare ai suoi “Americani veri”, per far sì che l’America torni ad essere grande?

5. Le parole sono importanti. 
Non è tutto un “disastro”, non è tutto “stupido”, una “disgrazia”. E non è neanche tutto “straordinario”, “enorme”, “Fantastico”, “meraviglioso”. Non sono tutti “perdenti” o “stupidi”. Parlare di ex presidenti bugiardi (o che erano “un disastro”, la sua preferita) o definire dittatori stranieri dei grandi leader non migliora il discorso.

Gli americani non sono dei puritani (almeno la maggior parte), ma la volgarità urlata dai palchi, le allusioni alle dimensioni del pene, le rivelazioni sulle conquiste sessuali, le critiche al ciclo mestruale di una giornalista e le offese rozze di ogni tipo non si addicono ad un presidente. Abbiamo dei figli.

6. Leggere è bello. E lo è anche studiare. 
Di recente, Trump ci ha detto che non legge tanto. Sappiamo di certo che non ha scritto un libro grazie alle recenti rivelazioni di Tony Schwartz. Quest’ultimo è stato suo ghost writer per il libro “The Art of the Deal” (sì, ne ho una copia dalla prima pubblicazione, autografata da Donald che mi consiglia di “continuare così”) e che, a detta di Donald, tra i libri da leggere assolutamente è secondo solo alla Bibbia.

Anche se sono stato proprietario di una libreria per diversi anni, e non permetterei ai miei figli di guardare la TV durante la settimana per incoraggiarli a leggere, non credo che sia obbligatorio leggere per guidare un paese. Credo, tuttavia, che quanti aspirano a guidarci debbano studiare duramente, cercare di acquisire saggezza dagli altri, di padroneggiare idee e relazioni molto complesse. Credo che essere presidente sia difficile. Sono felice di sapere che, dopo una lunga giornata, il Presidente Obama si ritiri nel suo ufficio privato per dedicarsi a 3 o 4 ore di studio… e letture.

Un’ interpretazione corretta delle dichiarazioni bizzarre di Trump, e dei suoi scivoloni, rende evidente che non ha la minima propensione per la lettura e lo studio. Per usare le sue parole, prende decisioni “con pochissima conoscenza” delle questioni, oltre a quella già acquisita, più la parola “buonsenso, perché ne ho parecchio, così come ho molto fiuto per gli affari”. È una singolare forma di arroganza, credere di poter anche solo immaginare di essere il leader del mondo libero senza sforzarsi di capire profondamente un simile incarico.

7. Il nuovo vocabolario a cui ci stiamo adattando è pessimo. 
Xenofobo (chi prova avversione e paura per gli stranieri e per tutto ciò che è straniero). Misogino (chi nutre un forte pregiudizio verso le donne), nativista (chi preferisce gli abitanti autoctoni agli immigrati). Fascista (autoritario e dittatoriale). Bigotto (chi è intollerante verso opinioni differenti). Demagogo (chi mira a ottenere il consenso popolare basandosi sulla lusinga e sulla promessa e non su argomentazioni razionali). Sostenitore della distopia (descrizione di uno stato, tipicamente totalitario, dove tutto è sgradevole e squallido). Razzista (sapete cosa significa).

Siamo stati costretti a tirar fuori il vocabolario per capire molti dei termini utilizzati dai media per descrivere il fenomeno unico che è Donald Trump. A spaventare è il fatto che queste strane parole siano davvero appropriate. Che ne è stato delle espressioni “uomo di stato”, “ben qualificato” o perfino “brillante” usate per descrivere le persone che vogliamo eleggere per una carica tanto importante? Nessuna di queste è stata associata al “The Donald”.

8. Dobbiamo stare attenti al “duro”. 
Riferendosi ad un dimostrante durante un raduno, Donald Trump ha detto “Ai bei vecchi tempi, lo avrebbero trascinato via su una barella”. Le sue parole rivelano ammirazione per questo tipo di forza. La sua durezza non riguarda la forza necessaria a prendere decisioni molto difficili. Riguarda la volontà di “prendere a pugni in faccia quel tizio” o, come minimo, salvare la faccia (la sua).

Resisterò alla tentazione di accanirmi ancora sui codici nucleari. Mi limito a chiedermi se vogliamo davvero un presidente irascibile che, come da lui suggerito, nel caso in cui un leader (Castro) non fosse pronto ad accoglierlo sulla pista d’atterraggio farebbe “invertire la rotta dell’Air Force One per tornare a casa”. Un uomo che dopo aver ritwittato un’immagine, creata da suprematisti bianchi, che ritraeva Hillary Clinton davanti a una montagna di dollari accompagnata da una stella di David, e per questo accusato di antisemitismo, non ha saputo neanche inventarsi una delle sue scuse-non-scuse, del tipo “Mi dispiace se ho offeso qualcuno”. “Un tipo tosto” per cui tutti i giornalisti più importanti sono “stupidi” e disgustosi. Che parla solo dei media che osano criticarlo, senza dire una parola su David Duke e sul pessimo elemento che gli ha dato il cinque e ha ripreso il suo post offensivo.

Che il post fosse o meno finalizzato a rafforzare, ancora più saldamente, questa fetta di sostenitori, Trump dimostra la sua idea di “durezza”: un’idea che esalta la sua opinione, il suo avere sempre ragione sugli altri. Nel suo mondo un “duro” non può essere umile, rispettoso, misurato o diplomatico.

9. Il successo conta. 
Il successo negli affari di Trump è eccessivamente gonfiato e le sue abilità sono limitate. Donald Trump può essere un bravo venditore e uno showman solo in una competizione con PT Barnum (Phineas Taylor Barnum è stato un imprenditore e circense statunitense). Questo possiamo concederglielo. Per un periodo, ha ottenuto indici d’ascolto alti dicendo ad alcune celebrità a spasso che erano state licenziate. Tuttavia, chiedete ad uno qualsiasi dei grandi imprenditori edili di New York (tra cui lui non figura, o almeno non è tra i più importanti: risulta 14° nella lista aggiornata) e capirete che i suoi successi sono ben pochi.

Quattro fallimenti (1991, 1992, 2004 e 2009), il Plaza Hotel, la Trump Air, i tre casinò, le bistecche, l’acqua, il Trump Center a cui ho lavorato, i cantieri ferroviari nel West Side di Manhattan (dove gli edifici portano il suo nome, come consolazione), la Trump University: tutti insuccessi assoluti, tranne per Trump che “non ha alcun rimpianto”.

Poi ci sono questioni di etica commerciale fondamentale: 3500 cause, il fatto che sia incline a non pagare le tasse completamente né in tempo, il fatto che si definisca il “Re del debito” (un re diventato ricco indebitandosi e poi rinegoziando). Sono queste le competenze che vogliamo in un presidente?
Dovremmo porci domande anche sul suo leggendario valore netto, sempre gonfiato di miliardi rispetto ai calcoli degli altri. Ci si dovrebbe chiedere se il valore sarebbe rimasto lo stesso se non avesse ereditato un notevole patrimonio dal padre Fred e lo avesse solo investito passivamente. Non lo sapremo mai da Donald, di certo non lo sapremo da quelle dichiarazioni dei redditi che non renderà pubbliche.

10. Non potremmo essere un grande paese senza il Primo Emendamento, ma i media potrebbero ucciderci. 
I media non sono il nemico di Donald, come continua a gridare dal palco. Ma potrebbero essere il nemico di tutti noi. È questa l’impressione ultimamente. Lo spazio televisivo riservato a Donald, la sua abilità di imperversare al telefono con le sue filippiche (soprattutto con i media via cavo) non è soltanto, per usare una delle sue parole, “disgustoso”.

Donald, che vive di sondaggi e indici d’ascolto, capisce che sono questi numeri e non il valore delle notizie a decidere quello che va in onda. Donald domina quasi tutti i cicli di notizie, limitandosi ad essere più offensivo di chiunque altro. È reality TV portata all’estremo, ed è fuori controllo.

11. Temperamento, atteggiamento e indole sono importanti.
Per molti aspetti, Donald rappresenta il peggio in tutti noi. O, almeno, in molti di noi. Gli interessa solo la gratificazione continua. È un bambino irascibile che vuole che le cose siano fatte come dice lui. È l’adolescente egoista che non ha ancora il quadro della situazione. È il giovane viziato e privilegiato, che ha sfruttato razza e religione “giuste”, istruzione, bell’aspetto e patrimonio familiare per avere successo facilmente, e che guarda dall’alto in basso chiunque non sia riuscito a farcela perché non ha i requisiti di cui sopra.

È un uomo che pensa che sia normale definire una persona “grassa”, “brutta” o stupida o prendere in giro un disabile. È un collezionista di mogli trofeo, di proprietà trofeo, il ragazzino che vince (o così crede) perché possiede più giocattoli.

12. L’imperatore e i suoi vestiti. 
Donald sostiene di conoscere le forze armate meglio di chiunque altro. Perché? Perché ha frequentato una costosa scuola privata dove gli studenti indossavano uniformi e, a volte, marciavano? E che mi dite della frase: “conosco l’Isis meglio dei generali‘? C’è qualche soldato vero che può valutarlo, per favore?

Donald dice che l’America non vince più. Rispetto a chi, e a cosa? È indubbio che abbiamo dei problemi. La democrazia è un caos. Lo testimonia l’attuale campagna e la lunga ripresa dalla recessione del 2008, che non ha sufficientemente incluso la middle class. E, sì, è difficile comprendere gli scambi commerciali in un mondo sempre più connesso e integrato. Ma fino a che punto l’America è un “disastro”, come ci dice Donald?

Come puoi dire sul serio e credere che “Questo paese è un inferno. Stiamo colando a picco”. In confronto a chi? Messico, Cina o la Russia, suo nuovo e bizzarro tormentone, che stando a Donald “ci batte sempre, perché i nostri leader sono stupiti?”. Dacci un taglio.

13. Gli immaturi trucchetti che utilizza nei discorsi non funzionano. Non con la maggior parte di noi, almeno.
Dice Donald, “non parlerò” dell’alcolismo del candidato del partito libertariano alla vicepresidenza. “Mi rifiuto di ammettere… Non posso dire… che non sopporto la voce stridula della Clinton che urla al microfono”. Lo hai appena fatto, Donald. Riusciamo a capire che, con queste affermazioni, perfino tu sai di muoverti su un terreno malfermo e così cerchi di giocartela su entrambi i fronti. Non attacca. E non lo fa neanche il trucco infido, e neanche tanto intelligente, di attribuire agli altri accuse feroci che persino tu hai paura di fare, ma che vuoi comunque anticipare.

Ad esempio, quando hai commentato il massacro di Orlando dicendo “tante persone pensano che Obama non voglia capire. Molti pensano che forse non vuole saperne niente, io sono giunto alla conclusione che non sa cosa sta facendo, ma ci sono molte persone che pensano che forse non voglia capire. Non vuole vedere quello che sta succedendo. E potrebbe anche essere così”

Chi sono queste “persone” che hanno associato il presidente ai terroristi? Forse le stesse che, con Trump, hanno visto la gente del New Jersey celebrare la distruzione delle torri gemelle o quelli convinti che Hillary Clinton abbia ucciso Vince Foster, che il padre di Ted Cruz stesse collaborando con Lee Harvey Oswald per uccidere il Presidente Kennedy? Quelli che credono che Obama non sia nato negli Stati Uniti e non abbia studiato ad Harvard o alla Columbia?

Due possibilità. La più probabile: l’espressione “molte persone dicono che” è solo una frase in codice di Trump per dire “voglio avanzare un’ipotesi così oltraggiosa” che neanche il Donald più furioso riuscirebbe a tirarsene fuori, senza questo espediente. O forse quel “mucchio di persone” è in realtà un gruppo selezionato, la cerchia chiusa di lealisti che partecipano ai raduni e che hanno sentito queste parole da lui.

14. L’irascibilità non si addice a un presidente. 
“I politici hanno scelto di nuovo questo nano come candidato”. Così si pronunciava il New York Herald su Abraham Lincoln, che adesso è considerato da (quasi) tutti il miglior presidente degli Stati Uniti. Prendete in considerazione la dichiarazione apparsa quando Washington lasciò l’incarico “è arrivato il tempo per la fonte di tutte le disgrazie del nostro paese di ritornare allo stesso livello dei suoi concittadini”.

I presidenti degli Stati Uniti, tutti, hanno subìto delle critiche e, nella nostra terra di libertà di parola, i critici possono dire la loro. Grazie a Dio. Non c’è molto da dire sul fatto che Donald non gestisca bene le critiche. Chiedete a Megyn Kelly (“un talento di terz’ordine), Rosie O’Donnel (“la grassottella Rosie”, “una perdente”) o Elizabeth Warren (“Pocahontas”) o a uno dei suoi avversari recentemente sconfitti: Cruz, Kasich, Rubio o Bush. Perfino Chris Christie, quello più simile a lui, ha provato il suo morso quando ha insinuato che Donald fosse “permaloso”. Non riesce mai a mollare la presa. È ossessionato dalle critiche anche quando vince.

I repubblicani venuti meno alla “promessa” di sostenerlo non dovrebbero avere il permesso di correre per la carica ancora una volta, secondo lui. Per Donald essere in disaccordo con lui deve avere una conseguenza (e anche seria) e perseguire tale obiettivo merita sforzi ed energia, anche quando non fa alcuna differenza.

Crediamo davvero che il nostro presidente debba avere il tempo per questo? Vogliamo davvero che un uomo di tale suscettibilità, dalla tendenza così autoritaria sia, per dirne una, responsabile dell’FBI o dell’IRS? Il concetto di “polizia segreta” sembra troppo estremo? Forse sì. Ma se fossi Donald, ventilerei l’ipotesi con una delle sue dichiarazioni: “La gente dice che…”. Ecco, ho appena usato uno dei suoi trucchetti. Capite quanto è facile?

15. I bulli ci saranno sempre, ma la Casa Bianca non dovrebbe essere il loro posto. 
Cosa fa un bullo? Cerca di intimidire, fisicamente o verbalmente. Finora questa caratteristica di Donald è stata soltanto verbale e rivolta ad avversari in affari e, più recentemente, a politici e giornalisti. E, ovviamente, ai suoi ex ghost writer ed ex dipendenti o imprenditori ingannati (non protetti da clausole contrattuali anti-calunnia) che osano giudicare la sua condotta apertamente.
Cosa succederà quando questo tizio avrà il più forte esercito del mondo a sua disposizione, e un pulpito da bullo che gli darà sicura visibilità? A qualcun altro sembra una cattiva idea?

16. Law and order.
Prima di essere una serie premiata agli Emmy, “Law and order” era uno dei fili conduttori della campagna di Richard Nixon nel 1968, per farsi eleggere nell’anno in cui il paese vide due omicidi pubblici e dimostrazioni devastanti, perfino rivolte, in 110 città. Nixon cercava di mobilitare quella che lui definiva la “maggioranza silenziosa”, appellandosi al bisogno di un maggiore controllo da parte della polizia. Attinse alla divisione razziale ed economica tra bianchi e neri, tra la classe operaia e “l’élite dei liberali dell’est” e ai media malvagi che il vicepresidente Spiro Agnew definiva “i nababbi chiacchieroni del negativismo”. Trump sta cercando di reintrodurre tutto questo. Ovviamente sì, ma anche no.

Sì, vuole dividere e mobilitare gli elettori arrabbiati che si sentono abbandonati da una cultura sempre più variegata. Ma no, perché la sua idea distopica di un’America senza legge, assediata, indebolita non è quella che predicava Nixon e neanche Ronald Reagan, a dirla tutta. È un suo unicum, almeno in America. È, tuttavia, un esempio da manuale del grido di guerra comune a innumerevoli dittatori e uomini forti. È uno strumento fondamentale del demagogo: sollevare un problema e poi dichiarare di essere “l’unico che può risolverlo”

Al netto di questa retorica terribile, cosa ci aspetta? Donald dice “il 20 gennaio del 2017, giorno in cui presterò giuramento, finalmente gli americani si sveglieranno in un paese che applica le sue leggi… il crimine e la violenza che oggi affliggono la nazione vedranno presto la fine.” Come funziona Donald? Legge marziale? Credi davvero che al Presidente Obama, e ai suoi 44 predecessori, non sarebbe piaciuto vedere tutte le leggi in vigore e rispettate a pieno? Ah, se il solo desiderio potesse riuscirci! Però dal momento che gli stati, e non il governo federale, hanno un peso su gran parte del diritto penale, il presidente da solo non ha il potere costituzionale di fare una cosa simile. E allora? Continuare con la logica del waterboarding (forma di tortura) e uccidere le famiglie dei terroristi? Certo, “Solo io posso risolvere il problema”.

17. Le invettive incoerenti, e spesso contradditorie, non formano una linea di politica estera. 
Convinciamo il Giappone e la Corea del Sud a cercare le armi nucleari. Eliminiamo la NATO. Distruggiamo l’ISIS, ma senza alleati musulmani e truppe sul campo. Attacchiamo la Libia, anzi no. Abbiamo fatto bene ad attaccare l’Iraq, anzi no. Non ricostruiamo una nazione, ma risolviamo il problema in Siria. Fermiamo l’Iran stringendo accordi migliori.

In effetti, pensateci, questa è la soluzione a quasi tutto: “stringiamo accordi migliori” ovunque. E mai chiedere scusa, per niente. Siamo l’America, ricca, molto ricca. Non siamo in debito con nessuno. O con noi o contro di noi. Vi ricorda qualcuno?

18. Come si può diventare un buon presidente se non si mostra rispetto per l’incarico?
Negli anni ’60, durante una Guerra impopolare, abbiamo sopportato tutti un presidente che, indossando una spilla a forma di bandiera, descriveva chiunque non fosse stato d’accordo con lui (inclusi un mucchio di giovani universitari in tutta l’America, compreso me) come un “Un-American”, una persona contraria ai fondamentali valori politici e culturali degli Stati Uniti. Anche se l’opposizione politica è vecchia quanto la nostra nazione, si inizia a scivolare lungo la china di una pericolosa mancanza di rispetto quando il disaccordo viene rimpiazzato dal vilipendio.

Il candidato repubblicano crede sia normale accusare un ex presidente, del suo stesso partito, di aver intenzionalmente dichiarato Guerra appellandosi a falsi pretesti e incolpare l’attuale Presidente di cospirazione con i terroristi islamici. Qualsiasi americano assennato, di qualunque partito o senza partito, di qualsiasi filosofia politica capisce che tutto questo deve finire.

La verità, o almeno una sua parvenza, deve ritornare. Le menzogne ignobili non trovano spazio in un dialogo assennato, figuriamoci chi le pronuncia. Non possono diventare la spina dorsale di un circo mediatico che si preoccupa più degli ascolti che della verità.

19. Anche i ragazzi ricchi e potenti devono giocare secondo le regole. 
Non prendiamoci in giro. La Trump University non era un’istituzione accademica, era molto lontano dall’esserlo. Era un modo per diventare ricchi in fretta ideato da un tizio che vendeva un programma per arricchirsi alla svelta. Non era il primo e non sarà l’ultimo di questo genere. A tarda notte, le pubblicità da quattro soldi alle TV sponsorizzeranno sempre questo tipo di offerta. Tuttavia, gli sforzi di Donald puntavano molto più in alto: 35.000 dollari, “università”. Sul serio? Non era altro che un imbroglio ordito da un uomo che ora sta cercando di diventare il leader di una nazione e del mondo libero.

Sappiamo tutti, lo abbiamo letto almeno, che di idioti ne nascono in continuazione. Ma possiamo almeno negare il rispetto a quelli che prendono di mira la povera gente e denunciarli, quando vanno troppo oltre? “No” dice Donald Trump. Il processo seguito ad una class action contro le sue truffe è ancora in tribunale. A detta di Donald, perché l’illustre ed esperto giudice federale che se ne occupa è un suo “hater” e non è in grado di rendergli giustizia perché i suoi genitori sono originari del Messico.

Nel mondo di Donald, l’unico individuo capace di giudicarlo non dovrebbe essere Messicano o imparentato con dei messicani, una persona di fede islamica e, no, neanche una donna. In questo mondo, gli uomini ricchi, privilegiati, egocentrici, eticamente discutibili dovrebbero essere giudicati solo da uomini ricchi, privilegiati, egocentrici, eticamente discutibili.

20. Dobbiamo combattere per qualcosa. 
La versione dell’America di Donald Trump non include quelli che non sono come lui. Invece, va matto per quelli che Sarah Palin definì “americani veri”. Il fatto che tutti noi sembriamo essere completamente sacrificabili è preoccupante. Prendere di mira un’intera religione (l’Islam, con 1,6 miliardi di fedeli di cui 3,3 milioni sono cittadini americani) per sottoporla ad un controllo maggiore, o peggio, è palesemente in disaccordo con i valori tradizionali americani, se non lo è con quelli degli “americani veri”.

È anche incostituzionale e, al di là di tutto questo, incredibilmente controproducente perché rafforza le controversie facendo allontanare gli alleati di cui abbiamo bisogno per risolvere il problema dei terroristi in campo nemico. Altre strategie simili caldeggiate da Donald, come il waterboarding e altre forme di tortura, per non parlare dell’accanimento contro le famiglie dei nemici, non sono semplicemente illegali. Sono, per usare un’altra delle sue parole, “stupide”. Non funzionano, con molta probabilità servirebbero solo a peggiorare la situazione e a far crescere il numero ed il fervore dei nemici.

Dovremmo chiederci: come sarebbe l’America dei “veri americani”? Un mucchio di individui intolleranti, sovraeccitati, aggressivi, dietro un grande muro, isolati (senza scambi commerciali e, quindi, con un’economia malata e beni molto costosi) e con tantissimi nemici. Nessuna “città splendente sulla collina”, questo è certo. Per un posto del genere è difficile non immaginare altro che rovina.

Possiamo fare molto di più, molto di meglio. Per me, “il meglio” ha l’aspetto dell’ex senatrice ed ex segretario di Stato Hillary Clinton. A quelli che non arrivano a questa conclusione tanto facilmente (lo capisco) dico questo: pensate che quest’anno la scelta dovrà ricadere sul male minore. In ogni caso, non pensate neanche lontanamente di trascinarci in quell’abisso che è Donald Trump.

(fonte)

Le autoelezioni che non se ne accorge nessuno. A proposito del Senato che vorrebbero.

Per chi continua a dire che il Senato immaginato dalla riforma Renzi-Boschi non sarà svilito dall’elezione indiretta vale la pena seguire le elezioni provinciali che si tengono in questi giorni e nessuno ne sa niente. Una campagna elettorale che è tutto un inciucio tra segreterie di partito e programmi politici di cui non si ha traccia. Come scrive oggi Il Fatto (qui):

«Nella Capitale, il cui consiglio è composto da 24 membri, sono in corsa 4 liste: Movimento 5 stelleLe Città della MetropoliPatto Civico Metropolitano e Territorio Protagonista. Gli elettori sono 1.647, ovvero i consiglieri e i sindaci eletti nei 121 comuni della provincia. La sindaca Raggi, la cui nomina è stata ufficializzata il 22 giugno, ha votato nel primo pomeriggio a Palazzo Valentini. Un appuntamento rispettato anche dal M5S, nonostante quest’ultimo abbia a lungo osteggiato la riforma.

A Milano, dove sono chiamati al voto i rappresentanti dei 134 Comuni della Città metropolitana, la scelta è tra cinque liste: C+ Milano MetropolitanaInsieme per la Città metropolitanaMovimento Movimento5stelle.itLa Città dei Comuni Lista civicaLega Nord Lega Lombarda Salvini. A Napolile liste sono 6: Napoli PopolareForza ItaliaPartito DemocraticoMovimento 5 stelleNoi SudCon de Magistris. Tre quelle in gara corsa  a Torino: Città di cittàLista civica per il territorioMovimento 5 stelle.

Sono chiamati alle urne anche a Bologna i sindaci e consiglieri comunali dei 55 Comuni del bolognese. Visto che la stragrande maggioranza di questi ultimi sono amministrati dal centrosinistra, il Pd dovrebbe raccogliere una larghissima fetta dei voti e, di conseguenza, avere la maggioranza nel consiglio metropolitano. Gli elettori sono 832 e votano per i candidati di quattro liste: Partito democraticoMovimento 5 StelleUniti per l’alternativa (centrodestra) e Rete civica. I prossimi appuntamenti: a Cagliari si vota il 23 ottobre mentre per Catania, Palermo e Messina la data scelta è quella del 20 novembre.»

Voi lo sapevate?