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La vergogna puzza di petrolio in Basilicata: 57 rinvii a giudizio

Una di quelle storie che proprio non si riesce a rendere “pop”. Ne scrive l’Ansa:

Il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Potenza ha rinviato a giudizio 47 persone e dieci società, fra le quali l’Eni, nell’ambito dell’inchiesta del 2016 sulle estrazioni di petrolio in Basilicata. Fra gli imputati del processo, che comincerà il prossimo 6 novembre, vi sono due ex responsabili del distretto meridionale dell’Eni, Ruggero Gheller ed Enrico Trovato, e altri dipendenti della compagnia petrolifera.

Fra le persone rinviate a giudizio vi sono anche due ex direttori generali dell’Agenzia per l’ambiente della Basilicata, Aldo Schiassi e Raffaele Vita, alcuni ex dirigenti della Regione e l’ex sindaco di Corleto Perticara (Potenza), Rosaria Vicino (Pd). Otto imputati sono stati invece prosciolti: fra loro, l’attuale consigliere regionale della Basilicata Vincenzo Robortella (Pd), e il padre, Pasquale, a sua volta ex consigliere regionale dello stesso partito. Lo stesso gup, durante un processo con il rito abbreviato, ha assolto – con la motivazione che il fatto non sussiste – due imprenditori campani, Pasquale Criscuolo e Francesca Vitolo, e uno lucano, Rocco Caruso. Il 31 marzo 2016 l’inchiesta (con circa 60 indagati) portò agli arresti domiciliari sei persone e al blocco delle attività del centro oli di Viggiano (Potenza) dell’Eni. I filoni dell’inchiesta erano tre: il primo sullo smaltimento dei rifiuti prodotti nel centro oli; il secondo i lavori per la realizzazione del centro oli di Corleto Perticara (Potenza) della Total; il terzo il progetto di stoccaggio del greggio estratto in Basilicata in Sicilia, nel porto di Augusta (Siracusa). Quest’ultimo filone nei mesi scorsi è stato trasferito a Roma: per gli indagati in tale ambito è stata poi disposta l’archiviazione.

Eni, sempre meglio: l’accusa è corruzione internazionale

un mese e mezzo dalla chiusura delle indagini sulla presunta corruzione internazionale per una maxi tangente legata a un giacimento petrolifero nigeriano, i pm di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro hanno chiesto il rinvio a giudizio dell’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, il cui mandato scade in primavera. Il manager, a cui il cda del gruppo pubblico ha prontamente confermato “massima fiducia”, è accusato di concorso in corruzione internazionale insieme, tra gli altri, al predecessore Paolo Scaroni e al faccendiere Luigi Bisignani. Anche loro, secondo la procura, devono andare a processo. La richiesta riguarda anche l’allora capo della divisione Esplorazioni Eni, Roberto Casula, un altro ex dirigente Eni nell’area del Sahara, Vincenzo Armanna, l’ex ministro nigeriano Dan Etete, Ciro Pagano, managing director di Nigerian Agip Exploration e Gianfranco Falcioni, altro presunto intermediario. Non solo: i pm chiedono il processo anche per l’Eni e la Shell, aggiudicataria del 50% dei diritti di sfruttamento ottenuti – stando alle accuse – grazie alle mazzette. Entrambe sono state indagate in base alla legge 231 sulla responsabilità amministrativa degli enti.

Stando alle accuse, esponenti del governo nigeriano hanno ottenuto dal gruppo del petrolio e del gas partecipato dal Tesoro 1,9 miliardi di dollari in cambio della concessione per la stessa cifra ai due gruppi, nel 2011, dei diritti esclusivi di sfruttamento del giacimento Opl245. Di cui peraltro di recente la Nigeria ha ripreso il controllo in via cautelare proprio nell’attesa che si concludano “le inchieste in corso e le indagini a carico dei sospetti”.

La scorsa estate Descalzi è stato interrogato insieme a Armanna, l’ex manager del Cane a sei zampe che all’epoca di occupava delle attività nel Paese africano. Nell’avviso conclusioni indagini dello scorso dicembre i pm hanno descritto i passaggi dell’intera operazione. Nella loro ricostruzione si legge che Scaroni diede “il placet all’intermediazione di Obi”, intermediario nigeriano, “proposta da Bisignani e invitando Descalzi” (all’epoca dg della Divisione Exploration&Production) “ad adeguarsi”. Entrambi, sia Scaroni che Descalzi, avrebbero incontrato “il presidente” nigeriano dell’epoca Jonathan Goodluck “per definire l’affare” relativo al giacimento. La presunta mazzetta e il prezzo dell’acquisto sono equivalenti perché l’ex ministro del Petrolio Etete alla fine degli anni ’90 si ‘autoassegnò’ la concessione a costo zero, tramite la società Malabu e attraverso prestanome. Quindi i soldi pagati al governo nigeriano furono riversati al politico, che li avrebbe usati anche per “immobiliaereiauto blindate. Secondo l’accusa l’attuale amministratore delegato si era “adeguato” alle direttive nell’ambito della trattativa.

Secondo quanto riferito da De Pasquale alla Corte di Londra nel settembre 2014, gli 800 milioni di dollari partiti nel 2011 verso due conti correnti intestati alla Malabu di Etete servivano per pagare presunte tangenti a funzionari e politici africani, ai manager Eni e agli intermediari esteri, da Obi a Bisignani all’imprenditore Gianluca Di Nardo. Ai dipendenti del gruppo petrolifero, al russo Ednan Agaev (indagato), a Bisignani e Di Nardo sarebbe stata destinata secondo i pm anche un’altra tranche, circa 215 milioni, sequestrata però nell’estate 2014 dalla magistratura inglese e svizzera.

L’Eni nel pomeriggio ha tornato a “ribadire la correttezza dell’operazione relativa all’acquisizione della licenza del blocco Opl 245, conclusa senza l’intervento di alcun intermediario, da Eni e Shell con il Governo nigeriano”. Il portavoce del gruppo ha aggiunto che “attualmente non ci è stato notificato alcun provvedimento” e che “la società, non appena è venuta a conoscenza dell’esistenza di una indagine avente ad oggetto la procedura di acquisizione del blocco Opl 245, ha incaricato uno studio legale americano, di rinomata esperienza internazionale, del tutto indipendente, di condurre le più ampie verifiche sulla correttezza e la regolarità della predetta procedura. Dall’approfondita indagine indipendente è emersa la regolarità della procedura di acquisizione del blocco Opl 245, avvenuta nel rispetto delle normative vigenti”.

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Il processo sulla presunta tangente Eni (197 milioni di euro) si “salva” per un giudice onorario

Il processo Eni-Saipem, uno dei più importanti dibattimenti per corruzione internazionale, con tangenti contestate per 197 milioni di euro, sarà celebrato solo grazie a un giudice onorario. E’ il risultato di una richiesta di astensione presentata dalle difese del gruppo pubblico- tra i quali l’ex ministro della Giustizia Paola Severino – nei confronti del giudice fin qui designato, Oscar Magi, a causa di un suo pronunciamento in un altro processo per corruzione contro Eni, nel 2013. E di un ingorgo negli uffici giudiziari di Milano, dove non è stato possibile formare un altro collegio giudicante. Lo scrive oggi il Corriere della Sera, sottolineando che l’importante procedimento è finito sulle spalle di Maria Cristina Filiciotti, uno dei 2.100 giudici onorari, vale a dire “non in carriera che (facendo altri lavori, specie avvocati), sono ingaggiati a scadenza, pagati a cottimo sul numero di udienze, privi di pensione-malattia-maternità-ferie-tfr alla stregua di precari del diritto”. Il giudice onorario Filiciotti è chiamata a decidere sulla maxitangente pagata, secondo l’accusa, da Saipem Eni nel periodo 2006-2010 per una commessa da 8 miliardi in Algeria.

La difesa di Eni, spiega il Corriere, aveva presentato la richiesta di astensione perché il giudice Magi, nel 2013, nella sentenza di condanna di Saipem per un analogo caso in Nigeria aveva sostenuto che il modello organizzativo della società fosse inadeguato a prevenire le tangenti. Una convinzione che, secondo i legali, avrebbe potuto condizionare questo nuovo giudizio. La richiesta è stata accolta dal presidente del Tribunale di Milano, Roberto Bichi, assieme al coordinatore penale Cesare Tacconi. Da quel momento è però emersa l’impossibilità di formare un altro collegio giudicante. Nella IV sezione penale, oltre a Magi sono out i due colleghi che si sono pronunciati con lui contro Eni; un quarto è da poco diventato presidente di un’altra sezione; un quinto da gip aveva autorizzato alcune intercettazioni del procedimento, cosa che fa scattare un’incompatibilità per legge. Dato che i giudici per ogni sezione sono scesi da nove a sei, è risultato impossibile formare un collegio. Mentre la X sezione, specializzata in corruzione, sta per affrontare il Ruby ter – sulle presunte false testimonianze in favore di Silvio Berlusconi nel processo concluso con la sua assoluzione – e non può sobbarcarsi un altro dibattimento di quella portata. Risultato: il giudice onorario Filiciotti salverà il collegio affiancando le sole due toghe disponibili della IV sezione.

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Intanto i rapporti tra Egitto e Italia si normalizzano. Alla faccia di Giulio Regeni. E l’Eni gode.

Al-Masry Al-Youm, quotidiano egiziano, ha pubblicato il 25 dicembre scorso la notizia, appresa da fonti della Farnesina, che Giampaolo Cantini, nominato da Matteo Renzi a maggio scorso ambasciatore d’Italia in Egitto, arriverà a gennaio al Cairo prendendo il posto lasciato vacante, dall’aprile scorso, dall’ambasciatore Maurizio Massari, assegnato a Bruxelles. Rapporti in distensione, come ha fatto capire il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni durante la conferenza stampa di fine anno che ha spiegato che la linea del governo in questi mesi è stata improntata “alla fermezza e alla richiesta di collaborazione verso le autorità egiziane” e “dopo i depistaggi iniziali, abbiamo visto una collaborazione molto utile“.

Progressi sul piano politico ma anche in quello economico. L’Eni infatti ha annunciato di aver firmato due nuovi accordi di concessione per i blocchi offshore di North El Hammad e North Ras El Esh, situati nelle acque convenzionali dell’offshore egiziano del Mediterraneo, che la società si era aggiudicati nell’ambito del Bid Round Internazionale competitivo Egas 2015. Eni, informa una nota, è operatore del blocco North El Hammad con la quota del 37,5% in compartecipazione con Bp, con il 37,5%, e Total, con il 25%. Il blocco, che ricopre un’area di 1.927 Km quadrati, è situato a ovest delle aree di sviluppo di Abu Madi West e Baltim-Baltim Sud, dove recentemente Eni ha effettuato le importanti scoperte di Nooros, in produzione da agosto 2015 e Baltim South West. Eni possiede anche una quota del 50% nel blocco North Ras El Esh in compartecipazione paritetica con Bp, operatore. Il blocco è ubicato a sud-ovest delle aree di sviluppo di Temsah e Port Fouad. Queste nuove assegnazioni, che seguono quelle recenti del blocco onshore Southwest Meleiha, nel deserto occidentale, e Shorouk, Karawan e North Leil, situati nelle acque profonde dell’offshore egiziano del Mediterraneo, consolidano ulteriormente il portafoglio titoli e la posizione di Eni in Egitto, paese di importanza storica e strategica per la società, e confermano la determinazione nel perseguire l’attività esplorativa del paese, dopo le importantissime scoperte di Nooros, Zohr and Baltim South West, effettuate nel 2015 e nel 2016.

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Eni e quelle due valigie piene di soldi

(ne scrivono in pochi, qui Il Fatto Quotidiano)

Victor mi disse che 50 milioni in banconote da 100 dollari erano stati portati al ‘chairman’ di Eni. E per ‘chairman’, lui, intendeva Scaroni. Mi raccontò di denaro ancora fascettato, in buste di cellophane, come dire che proveniva direttamente da una banca. Occupava due trolley – continuò – ed era stato portato prima a casa di Casula, ad Abuja, poi fu trasportato con un ‘aereo dell’Eni’ fuori dalla Nigeria, nel settembre 2011, ma io so che l’aereo Eni in quel periodo non aveva fatto voli in Nigeria. Però so anche che c’è un aereo privato che Eni affittava dal console onorario in Congo, Fabio Ottonello”. E’ Vincenzo Armanna, il dirigente Eni che si occupò della trattativa sul giacimento Opl 245 nel 2011, che racconta ai pm milanesi della presunta mazzetta destinata a Paolo Scaroni, precisando di non avere prove dirette. Il sospetto che una tranche da 50 milioni fosse destinata a tornare in Italia, “al management” Eni, fu confermato da un agente dell’intelligence nigeriana (“Victor”) che raccontò: “Ho saputo che 50 sono andati agli italiani, a persone dell’Eni o comunque vicine”. Armanna riferisce che l’ex ministro del Petrolio Dan Etete (vero titolare della concessione sul giacimento Opl 245) all’hotel Bristol di Parigi gli disse: “Boy, you know for whom is this money, is for Paolo Scaroni”. Ovvero: “Ragazzo, tu sai per chi sono questi soldi, sono per Scaroni”.

IL PREZZO. Le accuse di Armanna verso Scaroni sono durissime: “Casula (Roberto, alto dirigente Eni, anch’egli indagato, ndr), con l’endorsement di Scaroni, e in un caso Scaroni in prima persona, hanno provato a far lievitare artificiosamente il prezzo finale di acquisizione del blocco, per permettere il pagamento della esorbitante ‘parcella’ di Emeka Obi”.

L’obiettivo: “Fare in modo che il denaro transitasse interamente nei conti dell’intermediario – che fosse Evp o Petrol Service – cosicché da un lato Malabu (la società dietro cui c’era Etete, ndr) fosse ricattabile e condizionabile e, dall’altro, fosse generata la ‘provvista’ necessaria a soddisfare gli interessi illeciti delle parti nascoste prima dietro Evp e dopo Petrol service. Evp diventava lo strumento attraverso cui Scaroni e Casula potevano costringere e ricattare Dan Etete”.

La Petrol Service è riconducibile all’“intermediario” Gianfranco Falcioni che avrebbe dovuto ricevere soldi su un conto svizzero della Bsi Lugano, ma la banca considera il bonifico sospetto e rimanda indietro i soldi a JpMorgan. “Lo schema di intermediazione che aveva come perno Petrol Service – spiega Armanna – determinava preoccupazioni maggiori, era ingiustificabile, se non in quanto funzionale a una ripartizione illecita che coinvolgesse altri italiani. Si trattava di uno tra i principali fornitori di Eni Nigeria, nonché del console onorario”.

IL CONFRONTO. Su richiesta di Armanna i pm convocano l’attuale ad dell’Eni Claudio Descalzi, anche lui indagato, per un confronto. I toni sono tranquilli, al punto che i pm sono costretti spesso a chiedere di alzare il tono della voce, nel timore di non riuscire a registrare. Il confronto s’incentra su due questioni. La prima: Armanna sostine di aver incontrato con Descalzi il presidente nigeriano Jonathan Goodluck, alla presenza del ministro del Petrolio Alison Madueke Diezani, nella “Presidential Villa”, per discutere del ruolo svolto da Emeka Obi. Descalzi nel giugno 2016 nega: “Mai parlato con il presidente dell’intermediazione di Obi e Armanna non ha partecipato a incontri tra me e il presidente”. Eccoli, uno di fronte all’altro.

Descalzi: “Sono andato a rivedere tutto, passaporto, viaggi, agenda… nel maggio 2010 non ero in Nigeria. In aprile, giugno e luglio non sono andato. Sono andato in agosto, ma è stato un incontro plenario, con la delegazione presidenziale, la delegazione Eni con Scaroni e tutti gli altri. Come funzionavano gli incontri? Andavamo nella sala d’attesa, usciva il presidente, mi portava nel suo ufficio, stavamo dieci o quindici minuti. Finito. Ok? È un presidente. Difficilmente sarei andato a un incontro con il presidente per parlare di un intermediario, con un ministro e altre persone. Prima di tutto perché non vedo un presidente nigeriano che – lo dico senza razzismo – si mette a parlare con dei bianchi di cose così sensibili. Ma il problema è che non è mai successo. Magari Armanna ha fatto questo incontro con qualcun altro”.

Armanna: “Dan Etete si lamentava del fatto che noi non chiudessimo il deal. Bisignani e compagnia erano convinti che il deal si sarebbe chiuso entro l’estate del 2010. Non so se te la ricordi questa parte. Dan Etete ci attribuiva il fatto che perdevamo un sacco di tempo e andò a lamentarsi con Goodluck… l’incontro fu fatto su pressione violentissima di Etete… la motivazione era che non voleva Obi e ci portò tutti al cospetto del presidente. Ci fu una parte molto veloce, all’inizio, dove si parlò meno di 10 minuti e dopo Claudio, con il presidente, come sempre, se ne andavano da soli…”.

D:“Mi ricorderei di aver fatto un contro con il presidente… Non confuto la sostanza però io l’incontro non l’ho fatto… posso averlo incontrato da solo ma non in plenaria…”.

A: “Io invece me lo ricordo perché è stato l’unico incontro a cui ho partecipato…”.

D: “Si vede che alla mia età…”.

A:“All’inizio è stato un incontro molto sereno, poi è saltato fuori che il problema più grosso erano i 200 milioni che voleva Obi. L’obiettivo dell’incontro era capire chi era il portatore di interessi nei confronti di Obi. Il ministro del Petrolio? L’attorney general? Eravamo noi? L’unica cosa certa era che non era il presidente. Il linguaggio non era così diretto ma la sostanza era questa. L’intermediario non è dei nigeriani, è degli italiani. E la risposta è stata “non è degli italiani”. (…). Eravamo seduti in un salone, poi si entra dentro una sala, dove sono andati loro e io non sono mai stato”.

D:“Non è che era Casula e non io?”.

A: “Siete un po’ diversi…”.

D:“Sono pelato…”.

A:“Ti ricordi che la ministra si rifiutava di vederci”.

D: “Non volevamo vederla noi, perché era meglio stare lontani…”.

A: “Sì, per il marito, era un po’ vorace”.

D: “Non metto in dubbio che l’incontro ci sia stato… non metto il dubbio il contesto e il contenuto… ma da febbraio ad agosto e fino al 2012 io in Nigeria non ci sono stato”.

La seconda questione riguarda gli eventuali colloqui tra Armanna e Descalzi in relazione al trasferimento di denaro sul conto svizzero della società Petrol Service.

D: “Questa cosa mi stupisce più della prima. Se mi avesse detto una cosa del genere sarei saltato sulla sedia. La cosa deve essere denunciata perché altrimenti avevamo problemi gravissimi”.

A:“Ti portai all’attenzione che queste informazioni io l’ho avuta da Stefano Puiatti, eh? Non l’ho scoperta da sola. Puiatti lo dice a me e a Ciro Pagano”.

D:“Che questi voglio portare i soldi…”.

A: “Mandare i soldi a Petrol service”.

D:“In Svizzera?”.

A:“In Svizzera”.

D:“Attraverso questo signore?”

A:“No, direttamente sui suoi conti… firmato dal ministero delle Finanze (nigeriano, ndr) … sono andati lì, sono andati a Beirut, sono tornati… andavano e tornavano. Divertentissimo. Quindi ti raccontai, se ricordi, che stavano replicando lo schema Obi … andammo a fumare e io ti dissi che non sapevo che fumavi…”.

D:“Beh (ride)”.

A:“per farti ricordare…”.

D:“Non lo so se fumavo o non fumavo. Fumavo, sì. Poi ho smesso. Però una roba del genere me la sarei ricordata. Sarei intervenuto”.

Le lacrime di Carl Gustav Jung

Perché, nella modesta casa canonica a Kleinhüningen, dove suo marito è pastore, Emilie Preiswerk, sposata Jung, volga improvvisamente lo sguardo altrove dai suoi ricami e scoppi a piangere a dirotto, in un qualsiasi martedì pomeriggio del 1880, non è chiaro; anzi, al suo bimbo di cinque anni, Carl Gustav – che è l’unico in tutto il cosmo ad accorgersi dello zampillo assurdo di quelle lacrime – si scatena un terrore dentro al cuore quando la vede. Il bambino guarda la madre intensamente, senza dire niente, indagando con i piccoli occhi chiari la stanza, per capire cosa sia successo, chi le abbia fatto così male. Ma non c’è nulla: nessuno. Non ha radice, quel dolore. C’è solo un vasto silenzio nell’aria, che detona in un’eco di ansie mute. Quando Emilie riconosce la paura negli occhi del figlio, si asciuga le lacrime con il grande fazzoletto rosa che tiene sempre in tasca e gli sorride, come a dirgli: “non è niente, mamma sta bene”. Anche Carl Gustav sorride, d’istinto, di rimando, ma il terrore provato gli resta dentro. Quel terrore che non capiva il soffrire della creatura che più amava. Torna ai suoi giochi solitari con un’angoscia nuova.

Anche se è un medico, un filosofo, impegnato a Burghozli in uno dei maggiori centri di cura psichiatrica svizzera, lo sguardo di Carl Gustav Jung, alla fine dell’estate del 1904, non è molto diverso quando una diciannovenne strillante, di nome Sabine Spielrein, varca le porte del sanatorio. Geme, ride, urla come se fosse penetrata da lame, si lamenta e dice cose apparentemente senza senso. Il dottor Jung la prende in cura.

Seduta nella stanza bianca, contorta da ondate di tic che le sfigurano il volto, il dottore la percepisce piena di un’energia che non comprende appieno. È come se le sue strilla provenissero da una camera di tortura chiusa dentro la sua mente, di cui si è perduta la chiave. Ora lui vuole ritrovare quella chiave.

Poche settimane prima, nel suo taccuino, Jung aveva scritto di un immaginario caso clinico denominato “Sabine S.”. Ed ora, eccola lì: Sabine Spielrein. Sembrerebbe una incredibile coincidenza. Ma il giovane dottore non crede nelle coincidenze. Crede che le cose accadano dispiegandosi dalla nostra anima, come segni di un libro che dobbiamo imparare a decifrare. Crede che tutto accada con significato. Se ora quella donna è lì, è perché il destino gli sta parlando: Carl Gustav Jung ne è certo. Lo dice anche a sua moglie Emma; e le confida che, stavolta, vuole abbandonare le cure inefficaci della psichiatria contemporanea, per sperimentare un nuovo metodo, creato da un suo collega viennese, un tipo che lui non ha mai visto, che alcuni considerano un genio, altri un ciarlatano. Un tipo di nome Sigmund Freud. Quello che Jung non racconta a sua moglie è il fremito alle gambe che sente quando Sabine lo guarda, nei suoi rari sprazzi di lucidità non assediata da incubi. La trova bellissima come una tempesta. In lei, intravede pianeti perduti della propria interiorità. Come se Sabine fosse venuta a lui, per indicargli chi potrebbe ancora essere. Come se lei, mentre lui la cura, lo stesse curando.

I risultati medici sono straordinari: nel 1911, Sabine Spielrein somiglia alla ginnasiale promettente che era stata. Sembra uscita dall’inferno in cui era piombata durante le sue crisi, sembra avere un’armatura nuova. Si laurea brillantemente in medicina, vuole diventare psicanalista. Jung l’ha curata. L’ha curata con il metodo di Freud.

(Un gran pezzo di Cesare Catà. Continua qui)

L’oro nero e la Basilicata che brucia

Ferragosto a Viggiano, nello stabilimento dell’Eni dissequestrato da poco (dopo l’inchiesta della Procura di Potenza sugli impianti Eni e Total in Basilicata che ha portato alle dimissioni della ministra Guidi) si sono levate in cielo lingue di fuoco. Sì, fuoco: il cielo della Val d’Agri è stato appestato dalle fiamme provenienti dallo stabilimento nel quale viene trattato il petrolio appena estratto dal territorio lucano.

L’inchiesta che ha messo sotto scacco l’impianto produttivo della Basilicata (ne scriveva Ilaria Giupponi qui)  e i signori del petrolio si è insabbiata nel silenzio viscido dei poteri che pretendono il silenzio. È rimasto anche sotto silenzio il fatto che il consigliere regionale della Basilicata (del PD) Vincenzo Robortella sia stato rinviato a giudizio (il 5 agosto scorso) insieme ad altre 57 persone e 10 società.

E forse è sfuggito a molti che i magistrati siano convinti che la società Outsourcing s.r.l, di cui il consigliere regionale era proprietario, avrebbe ricevuto un finanziamento europeo relativo ai lavori del centro oli Tempa Rossa della Total pur non avendone i requisiti di legge. Ah, Robortella è stato nominato presidente della commissione attività produttive, ambiente e territorio della Regione Basilicata.

(il mio buongiorno per Left continua qui)

A proposito di ENI. (Per fortuna c’è Valigia Blu)

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Per tutti quelli che hanno considerato una decina di tweet perfettamente a tempo dell’ENI (mentre Report parlava dell’azienda) un “bel dibattito” ecco che Valigia Blu, al solito, si mette pancia a terra ad analizzare i contenuti piuttosto che il “costume” in un articolo da leggere e conservare:

Noi abbiamo deciso di porre al centro del nostro lavoro la complessità degli argomenti che non possono di certo ridursi a #EnivsReport. La vicenda del blocco OPL 245, ad esempio, non nasce con Report e non è un “litigio” tra un programma d’inchiesta giornalistica e un colosso petrolifero. La partita inizia molto prima, circa 20 anni fa, e si è giocata (e si continua a giocare) su più campi: in Nigeria, negli Stati Uniti, a Parigi, a Londra, a Napoli e a Milano. Tanti sono anche i soggetti coinvolti in una storia intricata tra rapporti di affari, di amicizia e potere. Una questione complessa, affrontata negli anni passati da alcuni dei migliori giornalisti italiani d’inchiesta, dove per ora non c’è un’unica verità accertata da verificare con un lavoro di fact-checking, ma piuttosto un lavoro di analisi che tenga conto di tutte le questioni emerse in questi anni per provare a mappare e comprendere i contesti in cui si dipana. Un lavoro, il nostro, che non vuole e non può essere un’inchiesta, ma che cerca appunto di approfondire, tramite l’utilizzo di documenti ufficiali e articoli dettagliati, i passaggi compressi dal racconto televisivo o trasformati in comunicati stampa da un’azienda direttamente interessata:

Il resto è qui.

Niente Coppi senza i Carrea

In morte di Andrea Carrea, detto Sandrino forse per affrontare con un diminutivo la solennità del suo corpaccione contaidno, 89 anni, nato a Gavi ma cresciuto a Cassano Spinola, si è ricordato l ultimo gregario storico di Fausto Coppi e quindi di un certo ciclismo. Il penultimo ad andarsene era stato, poco più di un anno fa, Ettore Milano, 86 anni, anche lui di quella provincia di Alessandria che ha dato allo sport italiano campioni enormi di ciclismo e calcio, con una concentrazione di talenti che forse meriterebbe un qualche studio serio: Girardengo, Coppi, Baloncieri, Giovani Ferrari, Rivera

Milano, erre “roulée” alla francese proprio come Rivera e come tanti di quella provincia (idem per Parma), era in corsa il paggio psicologo di Coppi, Carrea era il suo diesel da traino e spinta.

Scelti entrambi, per aiutare il Campionissimo, da Biagio Cavanna detto l orbo di Novi Ligure, il massaggiatore cieco che tastava i muscoli e indovinava le carriere (e a Milano diede pure la figlia in sposa).

I due non avevano vinto mai in prima persona, Fausto vinceva anche per loro che lavoravano per lui portandogli in corsa acqua,panini,conforti vari, tubolari, amicizia. Un giorno al Tour de France del1952 Carrera si trovò, ”a sua insaputa”come uno Scaiola del ciclismo, in maglia gialla.

Un gendarme lo pescò in albergo per portarlo alla vestizione. Carrrea si scusò con Coppi per eccesso di iniziativa, avendo fatto parte di un gruppetto, teoricamente innocuo, di fuggitivi non ripresi.

Il giorno dopo il suo capitano gli prese, come da copione, la maglia gialla scalando l Alped Huez e arrivò da dominatore a Parigi. Un cantante ciclofilo, Donatello, che ha fatto anche Sanremo, ha composto una canzone splendida che è un sogno di bambino e dice: “Un giorno, per un giorno, vorrei essere Carrea”.

Il gregario nel ciclismo non c è più, almeno nel senso classico: libertà di rifornimento continuo dalle ammiraglie, licenza per ogni assistenza tecnica in corsa, severità della giuria quando, specialmente in salita, ci sono troppe spinte per i capisquadra, che facevano chilometri senza dare una pedalata, hanno procurato dignità aduna collaborazione che non è più umiliante e servile, e che consiste soprattutto nel pedalare con accelerazioni giuste al momento giusto, nell aiutare, aprendogli un tunnel nell aria, il capitano quando è il momento di tirare per rimediare aduna sua défaillance o rafforzare una sua iniziativa. Nello sport tutto i gregari sono di tipo nuovo.

Diceva Platini genio del calcio: “Importante non è che io non fumi, è che non fumi Bonini”. Il quale Bonini gli gocava dietro, riempiva il campo del suo gran correre, cercava palloni per servirglieli. Adesso i grandi gregari del calcio, alla Gattuso, guadagnano bene, sono stimati, cercati. Coppi lasciava comunque ai gregari tutti i suoi premi, e così li ha fatti ricchi.

Chi è adesso il gregario? Nell automobilismo il pilota che esegue gli ordini di scuderia, lascia passare il compagno che ha bisogno di punti, fa da “tappo” mettendosi davanti a chi lo insegue, e al limite “criminoso” sbatte fuoripista il concorrente pericoloso.

Nel ciclismo è ormai quello che sa propiziare il sonno al campione nelle dure prove a tappe, sa dargli allegrie o comunque distensione in corsa. Nel mondo dell atletica il gregario si chiama lepre, ed è pagato, nelle corse lunghe,per tenere alto il ritmo nella prima parte, sfiancando gli avversari e propiziando un tempo di finale di eccellenza: poi può ritirarsi. Sta sul mercato, è ingaggiabile anche al momento, per una corsa sola.

Nella scherma magari è quello che tiene per il campione il conteggio delle vittorie regalate in tornei di ridotta importanza o comunque prospettanti al campione stesso una eliminazione ormai sicura, gli fa il calcolo dei crediti e dei debiti così messi insieme nel rapporto con avversari importanti, gli dice quando è tempo di “passar vittoria”.

Il gregario nuovo può anche arrivare a sperimentare su se stesso il prodotto dopante o il prodotto coprente, correndo dei rischi. Ma la sua funzione diventa sempre meno materiale. E si deve ricordare che il prototipo altamente psicologico del gregario che dà serenità, oltre a procurare una buona compagnia negli allenamenti, tiene quattro gambe anzi zampe. E un cavallo: si chiamava Magistris, era un quasi brocco, ma senza di lui vicino, in pista come nella stalla,il favoloso Ribot era nervoso, tirava calci e nitriva di rabbiosa tristezza.