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femminicidio

Se il marito picchia la moglie ogni tanto «non si può parlare di maltrattamenti in famiglia»

(Notizie dal Medioevo contemporaneo. Se non sei stata ammazzata non sei nessuno, femmina!)

Nella sua requisitoria, il pubblico ministero aveva sottolineato le «continue aggressioni fisiche» e le «umiliazioni morali» che la donna era stata costretta a subire. Aveva parlato di calci, pugni e schiaffi, di lancio di oggetti e di offese quasi quotidiane. Ma al momento della sentenza, il giudice ha stabilito che si era trattato di «atti episodici» avvenuti in «contesti particolari» e non in grado di causare nella vittima «uno stato di prostrazione fisica e morale». E ha aggiunto che non ci sarebbero stati «atti di vessazione continui tali da cagionare un disagio incompatibile con normali condizioni di vita». In parole povere, se le aggressioni non sono «frequenti e continue» non si può parlare di «maltrattamenti in famiglia». Soprattutto se non c’è una sopraffazione sistematica della vittima. La quinta sezione penale del Tribunale di Torino ha così accolto la tesi dell’avvocato difensore Vincenzo Coluccio, che assisteva un 41enne disoccupato finito sotto processo con l’accusa di aver maltrattato la moglie per anni.

Referti medici e liti

«Non c’è collegamento — ha spiegato il legale in aula — tra i referti medici portati dall’accusa e le liti o le presunte aggressioni». Tesi che ha trovato conferma nella sentenza pronunciata dal giudice: «Dall’esame della persona offesa e dei testi non è emersa una situazione tale da cagionare un disagio continuo e incompatibile con le normali condizioni di vita». Risultato: il 41enne imputato è stato assolto, anche in virtù del fatto che le aggressioni sono state ritenute configurabili come «atti episodici» avvenuti in «contesti particolari». E questo anche se la donna, a quanto risulta, è corsa in ospedale nove volte in otto anni perché aveva il naso rotto o una costola incrinata. Però, scrive il Tribunale nelle motivazioni della sentenza, «non tutti gli episodi sono riconducibili ad aggressioni da parte dell’imputato». Episodi che la moglie ha ricollegato genericamente a una lite, ma per i quali non è stata in grado di fornire, a parte per l’ultimo, una descrizione dettagliata. «Tali fatti non paiono perciò riconducibili, proprio perché traggono origine da situazioni contingenti, a un quadro unitario di un sistema di vita tale da mettere la vittima in uno stato di prostrazione fisica e morale». I litigi in casa erano all’ordine del giorno e anche la donna si scagliava a volte contro il marito. Tant’è che sia i figli della coppia sia i vicini di casa non sono stati in grado, in alcune occasioni, di indicare chi tra marito e moglie avesse usato violenza per primo nei confronti del coniuge. L’imputato è stato comunque condannato a sei mesi di reclusione per l’abbandono della casa familiare e per il «mancato contributo al mantenimento dei figli minorenni».

«Sconcerto e preoccupazione»

In una «revisione del giudizio in appello» spera la senatrice Francesca Puglisi (Pd), presidente della Commissione parlamentare contro il Femminicidio: «La sentenza del Tribunale di Torino — spiega la parlamentare — suscita sconcerto e preoccupazione. La minimizzazione della violenza all’interno di un rapporto affettivo non solo rischia di pregiudicare la richiesta di giustizia da parte delle vittime, ma costituisce fattore disincentivante rispetto alle istanze di tutela. Fermare la violenza si può e si deve. Spero in una revisione del giudizio in appello».

(fonte)

“La violenza sulle donne è come la mafia”: parla la giudice Paola Di Nicola

Donne coraggiose di cui c’è terribilmente bisogno. Paola Di Nicola intervistata da AGI:

 

Roma – “Il femminicidio ha la stessa valenza culturale, sociale e criminale della mafia. Si deve pretendere dallo Stato lo sforzo dimostrato nel combattere il fenomeno mafioso perché il femminicidio, inteso in senso ampio, arriva ad ammazzare, nel disinteresse assoluto, più della mafia, uccide la vita e la dignità di intere generazioni, rendendole succubi e incapaci di reagire”. Paola Di Nicola, giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, si dice convinta, conversando con l’Agi, delle forti analogie tra i due fenomeni, ma denuncia la mancanza di quel “salto di qualità” che deve compiere il Paese per debellare i reati di violenza contro le donne. “Se venisse ammazzato ogni giorno un testimone di giustizia, un pentito, lo Stato alzerebbe immediatamente la guardia, come è doveroso che sia, mentre un giorno sì e uno no viene uccisa una donna e il fenomeno appare normale, è accettato, metabolizzato, ci appartiene, è ineluttabile”, prosegue la gip impegnata da anni nel contrasto alla violenza di genere e autrice del libro “La Giudice – Una donna in magistratura“.

 

Contesto di omertà e rifiuto identico a quello mafioso

Riguardo al fenomeno, “non c’è ancora una coscienza culturale, sociale e politica. La donna vittima di violenze si trova in un contesto di omertà, rifiuto, negazione identico a quello di mafia, ma è sostanzialmente sola”. Per scoprire davvero gli autori dei femminicidi, ma anche di tutti i reati contro le donne, per Paola Di Nicola “si devono leggere gli episodi in un’ottica complessiva e con una visione di genere, altrimenti il fenomeno criminale resterà impunito e diventerà tanto diffuso quanto inattaccabile. Come per la mafia, esistono, infatti, i reati-spia, cioè quelli che costituiscono un univoco indicatore di una violenza più pericolosa e più insidiosa, di una quasi certa escalation. Sono le lesioni, i maltrattamenti nelle famiglie e nei contesti lavorativi, le molestie, l’omesso versamento dell’assegno di mantenimento come ricatto economico e come assenza di riconoscimento della figura genitoriale dell’altro, gli insulti sessisti.

Il 70% delle vittime aveva denunciato l’aggressore

Un dato significativo è che il 70% delle donne vittime dei femminicidi aveva già denunciato il proprio aggressore: questo perché troppe volte gli accadimenti vengono valutati in modo isolato, parcellizzato. Come le estorsioni in un contesto mafioso anche i maltrattamenti vanno letti in maniera non episodica e parziale“. Capacità culturale e “lenti di genere” – sostiene Paola Di Nicola – devono entrare nelle aule di giustizia perché persino lì “spesso si respira il pregiudizio di genere, che è radicato in tutti i protagonisti del processo, uomini e donne, e che si riproduce anche in alcune sentenze di assoluzione degli autori di lesioni, stalking, maltrattamenti”. Secondo i dati Istat, sono circa 3 milioni 466 mila le donne che hanno subito stalking nella loro vita.

 

“In alcune sentenze di assoluzione – spiega la gip del Tribunale di Roma – si ritiene che la donna abbia denunciato le violenze strumentalmente e, quindi, non sia credibile, salvo poi scoprire che nessuno ha offerto alcuna prova sulla strumentalità della denuncia. Nei procedimenti relativi ai reati di violenza contro le donne la valutazione di credibilità della vittima è molto spesso più ficcante, intrusiva, specifica, approfondita, accertamento che non si ritrova in nessun altro tipo di delitto. Perché c’è lo stereotipo che la donna mente, che utilizza il processo per propri fini.

 

Nelle sentenze motivazioni che non convincono

Una donna vittima di violenze viene di frequente sottoposta nel processo a domande di accusa e difesa estenuanti nelle quali le si chiede di sviscerare i particolari più intimi della propria vita e del proprio modo di essere, approccio impensabile nei confronti, per esempio, della vittima di una rapina”. Ma lo prevede la legge? “Assolutamente no – risponde la giudice – ci sono anche pronunce della Cassazione che reputano sufficiente la denuncia della vittima per condannare per lesioni, stalking, maltrattamenti.

 

E invece molte sentenze assolvono con motivazioni che non convincono: perché manca ad esempio la certificazione medica che dimostra le lesioni oppure perché mancano testimoni. Tutti passaggi sconfessati dal fatto che gran parte dei reati che si consumano in contesti familiari non hanno testimoni – avvengono in camera da letto, in casa quando non è presente altra gente – e che la quasi totalità delle donne vittime di violenza domestica non si fa refertare le lesioni subite per paura. Talvolta in qualche sentenza si arriva addirittura a definire i lividi delle vittime come atti di autolesionismo”.

 

Per Paola Di Nicola, “questo è dovuto al fatto che il pregiudizio di genere appartiene a chiunque e gli stessi magistrati non ne sono estranei perché la magistratura fa parte della realtà sociale e culturale di un Paese. Anche se – riconosce – si sta creando una cultura giudiziaria sempre più avveduta e impegnata a sradicare questo tipo di pregiudizio. In questi anni la magistratura ha fatto coraggiosi e innovativi passi in avanti in questo ambito, a partire dalle Procure, pur nella consapevolezza che dentro e fuori le aule di giustizia la strada sia ancora lunga”. Prima del momento conclusivo del processo c’è, infatti, tutta la fase in cui gli episodi di violenza sono in pieno svolgimento e viene richiesto l’intervento delle forze dell’ordine, dalle quali ancora oggi, non di rado, c’è “una sottovalutazione delle situazioni: ci sono casi di maltrattamenti che vengono liquidati nei verbali come ‘lite coniugale’. Si trascurano poi elementi significativi come lo stato in cui era l’abitazione con piatti e bicchieri rotti per terra, mobili distrutti, coltelli lanciati o il perdurare dell’atteggiamento aggressivo dell’uomo anche alla presenza di polizia o carabinieri”.

 

Necessario liberarsi dai pregiudizi culturali 

Per la gip del Tribunale di Roma, questo è lo stesso pregiudizio culturale che porta i vicini di casa a non segnalare episodi di violenze con la giustificazione di non voler entrare nella privacy di altre famiglie. Quegli stessi vicini di casa che farebbero esattamente il contrario davanti a un furto o a una rapina.”Purtroppo prima vittima dello stesso pregiudizio, dello stesso stereotipo – continua la sua analisi – è anche la donna che subisce violenza e il suo comportamento gioca un ruolo decisivo: prima denuncia lesioni, stalking o danneggiamenti, ma poi ritira la querela – e qui gli inquirenti possono fare ben poco – per non essere accusata di aver distrutto la famiglia o nella speranza illusoria di poter recuperare un rapporto. E anche quando si giunge faticosamente al processo, è la stessa vittima che entra in un’aula di giustizia temendo, spesso a ragione, di non essere creduta, convinta di aver violato la ‘regola’ comune secondo la quale le donne devono tacere quello che subiscono, di essere andata contro e oltre il proprio ruolo e il proprio modello”. Su questi sentimenti della donna fa leva “con astuzia l’imputato, soprattutto quando ci sono figli.

 

Questo atteggiamento, assieme all’assenza della consapevolezza di commettere un reato, accomuna tutti gli autori delle violenze, di diverse classi sociali, strati professionali, contesti culturali, religiosi, da nord a sud. I carnefici, inoltre, colpiscono le donne, non solo perché a un certo punto si è alzato il livello dello scontro, ma proprio perché appartenenti al genere femminile di cui non tollerano autonomia e capacità”. Come si fa a uscire da questa infernale spirale? “Soltanto acquisendo la consapevolezza del pregiudizio – conclude Paola Di Nicola – è possibile liberarsene per costruire una nuova identità capace di scuotere l’immobilismo che ci rende tutti complici di una strage silenziosa ma quotidiana”.

Femminicidio: Marianna uccisa 12 volte prima di essere uccisa davvero

“Mi ha minacciato con un coltello, non so più che devo fare: aiutatemi”. Diceva così Marianna Manduca quando implorava di essere ascoltata dalla Procura di Caltagirone, terrorizzata da un marito vigliacchetto e violento come ne leggiamo troppi nelle cronache italiane.

Dodici denunce. Dodici volte Marianna ha chiesto aiuto a un Paese che continua a derubricare i segnali di femminicidio a piccole beghe famigliari che non meritano attenzione, contribuendo al senso di impunità dei maschi che si arrogano il diritto di ritenere le proprie compagne proprietà private a cui dare un senso con le botte e con la morte.

Io non so nemmeno se si riesce a scrivere con che sguardo una donna possa uscire dalla caserma per la dodicesima volta. Non so nemmeno immaginare dove finisca la sfiducia e dove inizi la paura per chi poi alla fine di coltellate ci è morta davvero: il marito Saverio Nolfo l’ha uccisa con sei coltellate al petto e all’addome il 4 ottobre del 2007 a Palagonia.

La procura di Caltagirone per la morte di Marianna è stata condannata dalla corte d’Appello di Messina: hanno riconosciuto il danno patrimoniale condannando la presidenza del Consiglio dei ministri al risarcimento di 260mila euro, e riconoscendo l’inerzia dei magistrati dopo una lunga trafila giudiziaria.

Dopo dodici volte insomma Marianna è morta per davvero. E dodici anni dopo le hanno chiesto scusa.

Perché non basta quasi mai solo un assassino per compiere un femminicidio.

Buon mercoledì.

(continua su Left)

Donna denunciò 12 volte il marito che la uccise. Ora hanno condannato i magistrati.

Lasciarono a un marito violento la possibilità di uccidere la moglie, nonostante quest’ultima l’avesse denunciato per ben dodici volte. Per questo motivo ha corte d’Appello di Messinaha condannato i magistrati che lasciarono libero di agire Saverio Nolfo, marito di Marianna Manduca. L’uomo uccise la moglie nel 2007 a Palagonia, in provincia di Catania. ed è attualmente in carcere dove sta scontando la condanna a 20 anni per l’omicidio.

La Corte ha stabilito che ci fu dolo e colpa grave nell’inerzia dei pm che, dopo i primi segnali di violenza da parte del marito, non trovarono il modo di fermarlo, nonostante le molteplici denunce della donna. Una sentenza, quella dei giudici peloritani, che è destinata a fare giurisprudenza e che arriva dopo il ricorso di un cugino della Manduca, che ha accolto i figli della donna rimasti orfani.

Da Nolfo e dalla moglie erano infatti nati bambini: il più grande ha oggi 15 anni, il più piccolo 12. Dal 2007 sono andati a vivere nelle Marche da un cugino della madre assassinata. L’uomo, diventato a tutti gli effetti tutore dei tre ragazzi, aveva fatto ricorso alla Corte di Cassazione affinché i tre orfani potessero chiedere giustizia, sulla base della legge del 1988 sulla responsabilità civile dei magistrati. La corte d’Appello di Messina ha quindi sancito la responsabilità dei pm che avrebbero dovuto occuparsi delle denunce di Marianna Manduca, evitando che il marito potesse assassinarla.

Quello della trentaduenne Marianna Manduca era il classico caso di morte annunciata visto che la donna aveva denunciato molteplici volte le minacce e violenze subite del marito. Che alla fine l’aveva uccisa con sei coltellate al petto, ferendo anche il padre della donna intervenuto per difenderla. Poi era andato a costituirsi consegnando il coltello agli investigatori. La stessa arma che mostrava continuamente alla donna dicendo: “Io con questo ti ucciderò“.

(fonte)

La grammatica dello stupro 2.0. Su Facebook.

(L’articolo di Maurizio De Fazio per l’Espresso)

Sono tutti gruppi Facebook chiusi, a iscrizione e l’unico modo per introdursi è quello di fingersi uno di loro. Un “vero maschio” che parla come un giornale porno anni ‘70 e per cui la parità tra i sessi è la più grande mistificazione. Eccoci precipitati nel gorgo dell’ultra-misoginia 2.0. Il gruppo Cagne in calore conta oltre 18 mila iscritti. Christian C. B., un libero professionista di Reggio Emilia che come tanti nemmeno prova a camuffare il suo nome e cognome autentico, come se non ci fosse nulla di sbagliato in quello che fa, scrive: “Come dorme la mia dolce metà! Cosa ne dite?”. E posta una foto della sua compagna immortalata a sua insaputa mentre sonnecchia, in mutandine, con le lenzuola scostate. Si accende la rituale canea di commenti. Sostiene un certo Danilo: “Se vuoi vengo a darti una mano, e mentre me la faccio (…): vedrai che dopo i primi colpi comincia a godere come non ha mai goduto”.

A inizio anno è stato rimosso il gruppo francofono Babylone 2.0: migliaia di uomini vi condividevano foto delle loro presunte conquiste, corredate da testi oltraggiosi e sessisti. La notizia ha fatto il giro del mondo. Ma di gruppi simili ne esistono a decine soltanto in Italia. Nascono e rinascono in continuazione. Uomini che umiliano le donne sfruttando l’effetto gogna sconfinata dei social network. Uomini che bersagliano le donne con epiteti rancidi e vili. Quando le nostre mogli, figlie, amiche sono al mare o in palestra, in ufficio o alla stazione, un numero considerevole di insospettabili sta lì a fotografarle di nascosto per riversare le immagini sul loro Facebook parallelo.

Scatti normalissimi, spesso a figura intera e col viso scoperto; istantanee di quotidianità rubate anche dalle pagine social, che rimbalzano di bacheca in chat e infine su Whatsapp. Basta poco per trasformare un semplice selfie in un pretesto di lapidazione morale.

In un gruppo dal nome tragi-grottesco (Seghe e sborrate su mie amiche)  Giovanni S. un ragazzo piemontese dall’aria perbene, posta l’immagine di una ragazza comune in jeans e canotta che commette però l’impudenza di sorridere: “Labbra da pompinara da riempire” è il suo pensiero istantaneo. Come se la sua unica colpa fosse quella di essere una donna: una merce sempre in fregola e sempre in saldo sotto la scorza di fuorviante normalità. Qualche tempo fa lo stesso Giovanni aveva condiviso un articolo sul suo account personale Facebook che sensibilizzava contro la violenza sulle donne. Oppure sono scatti privati, inviati in buona fede ma dati poi in pasto con l’inganno a una marea di sconosciuti.

Gigi P. da Palermo ama scambiare momenti intimi della sua fidanzata “con chi mi fa vedere la propria”. Lo contattiamo. Quanti anni ha la tua ragazza? “Venti”, e ci sfodera un ricco album di suoi primissimi piani anatomici. “Ma lei lo sa?”. E lui: “Ovvio che no. Pubblico in giro le foto che lei mi manda per eccitarmi”. Pure Flavio F., un impiegato di Torino, vorrebbe scambiare “figurine di famiglia” con noi: “Ti mando foto della mia amante, della mia ex o delle mie amiche. Dipende da come mi contraccambi”. Nel gruppo Zozzoni e Zozzone quasi hot (7 mila iscritti) tale  Frank Jo Jo C., che nella vita gioca a calcio a livello professionistico, inserisce uno scatto della moglie a bordo piscina e un po’ si strugge: “Sto cercando di coinvolgerla con un altro uomo, ma non è facile”. Gli viene in soccorso Pierpaolo (“Dammi il numero così la chiamo”). Ma Frank non si dà pace: “è troppo seria purtroppo”.

Certe volte la molla scatenante è invece una turpe vendetta da consumare gettando fango su qualche vecchia fiamma. Qui siamo dalle parti del “revenge porn”, come nel drammatico caso di Tiziana Cantone. In La esibisco, foto amatoriali e avvistamenti (un’altra stanza Fb blindata amministrata da Sabatino B, autotrasportatore di Civitavecchia e Pietro M, catanese con tatuaggi e sopracciglia ad ali di gabbiano) si produce, ad esempio, Claudio: “E che ne dite di questa che per otto anni me la sono scopata? Se c’è qualcuno interessato, in privato posso dire dove può trovarla”. La cessione di un diritto feudale.

Ci spostiamo nel gruppo Mogli e fidanzate Napoli esibizioniste e troie, 15 mila fedelissimi. Ralph M. mette all’asta sua sorella e i convenuti intraprendono la consueta geolocalizzazione del tesoro. Perché il fine ultimo è la caccia reale alla preda. Si cerca perciò di carpire le generalità dell’ignara protagonista di turno: le sue abitudini, il suo indirizzo. E dall’abuso verbale alla violenza fisica, il passo può essere breve.

Andrea P. è un habitué del gruppo Giovani fighette per porci bavosi (11 mila membri) e carica il file jpeg di una ragazza castana in costume sul letto: “Altra bella fighetta” è il suo contrassegno da gentleman. Daniele minaccia: “Io la rompo una cosi”. Un altro: “Per i capelli: bocca aperta, pene fino in gola”. E la fantasia di stupro è servita. L’abisso è vicino anche in Scatti per le strade italiane e non. Riccardo V. sciorina il suo atout: una ragazza di spalle in supermini jeans al supermercato. Si infuriano tutti. Giulio: “Una zoccoletta”. Uno sulla settantina: “Merita di essere sbattuta per bene a pecora”. Claudio: “Sto arrivando troia”. Nel frattempo, Marco da Napoli: “Mia cognata riposa inconsapevole di non essere sola” et voilà due immagini dell’attempata parente intenta nella siesta pomeridiana. Tanto basta a fomentare gli animi. E c’è chi vomita oscenità da bagno pubblico all’indirizzo fotografico di ragazzine che paiono minorenni.

L’articolo 167 del codice della privacy prevede la reclusione da uno a sei mesi per chi pubblica foto senza consenso. Ma di fatto viene garantita l’impunità a questi nuovi primitivi che vedono “zoccole e vacche” ovunque. Tante donne soffrono in silenzio, e l’umiliazione del cyberbullismo a sfondo sessuale si mescola alla paura e alla frustrazione. Denunciare alla polizia postale sembra inutile, e su Facebook nessuna grande campagna di pulizia e polizia interna è in corso. L’importante, si sa, è rispettare i suoi “standard specifici”. La dignità femminile non fa parte dell’algoritmo.

L’era in cui tutti siamo a sinistra sui nostri diritti e a destra dei diritti altrui

Demetrio aveva deciso di diventare il padre di sua sorella. Dopo la morte del padre ha pensato che, da fratello maggiore, dovesse occuparsi di Marisa, prendersene cura. Già, prendersi cura è un verbo di cui s’è persa la forma a forza di stritolarlo tra le devianze di un tempo in cui il controllo è diventato sinonimo di possesso e la violenza è diventata semplicemente una modalità estrema. Così Demetrio quando ha visto la sorella indossare una gonna a suo dire troppo corta dentro al bar ha pensato di punirla imbracciando il fucile e sparandole alle gambe.

Si potrebbe scrivere uomo, italiano, mica arabo e si potrebbe tirare in ballo l’islam e l’Isis e tutto quello che gocciola dal brutto giornalismo di queste settimane e invece no, non è questo il punto: non è la gara tra le violenze semite che dipana la ferocia. Non interessa nemmeno che sia successo in Calabria perché davvero, c’è da scommetterci, qualche milanese avrà già scritto da qualche parte che su al nord non sarebbe mai successo. È la questione femminile che passa ancora una volta dal maschilismo: perché la questione femminile, che piaccia o no, è roba da uomini. Dagli uomini.

Lei, Marisa, dal letto di ospedale incorre nel solito errore di una società sclerotizzata: si discolpa. Le gonne, le sigarette, quel suo fermarsi a parlare con uomini troppo adulti e quel suo fidanzato che non piace al fratello sono tutti i particolari che si sente in dovere di raccontare. Anche lei prova quindi l’irrefrenabile impulso di raccontare a tutti che non se l’è andata a cercare e che no non se l’è meritata la sfuriata del fratello. Sotto la pelle di questo tempo forse il delitto d’onore è ancora giustificabile se non davanti alla legge almeno per le opinioni di molti e così lei, la femmina, questa volta si chiama Marisa, si sente in obbligo di chiarire, puntualizzare. Discolparsi, sostanzialmente.

Ci sarebbe da chiedersi, ad esempio, quando s’è persa la forza di proteggere qualcuno senza bisogno della violenza; sarebbe da scoprire quando abbiamo deciso che la difesa di una persona è più importante della persona stessa come se fosse un gioco del protettore, per il protettore o un esercizio di virilità. Demetrio è l’ennesimo uomo che ha bisogno di ribadire le debolezze di una donna per masturbare il proprio machismo: Demetrio è un invertito in una società sempre in cerca di perversioni.

(il mio editoriale continua qui)

Femminicidio e sensibilità giudiziaria

La storia di cui parla oggi il Corriere della Sera pone un problema giudiziario: la cultura sociale sui femminicidi ha bisogno anche di riscontri giuridici. Una donna uccisa dal marito dopo dodici (12!) denunce significa che qualcuno ha delle responsabilità:

Ora questa dolorosa vicenda sulla quale gravano non poche ombre dovrà essere ripresa in mano dalla Corte di Appello che deve considerare valida la domanda risarcitoria avanzata nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri a nome dei tre figli di Marianna. Il padre uxoricida è stato condannato a venti anni di reclusione. Numerose aggressioni alla ex moglie erano tutte avvenute in pubblico. Ciò nonostante nessuno condusse indagini, e nemmeno prese provvedimenti a tutela della donna in pericolo nonostante le sue richieste di aiuto. L’aggressione fatale avvenne alla vigilia della sentenza che doveva affidare i tre maschietti alla mamma dopo la separazione da Saverio Nolfo. L’omicida accoltello’ non solo la donna, ma colpì gravemente anche Salvatore Manduca (59 anni), il padre di Marianna, l’unico uomo che l’ ha difesa.

L’8 marzo di Lella Costa e l’archeologia culturale

Un’interessante prospettiva di Lella Costa intervistata su donne, 8 marzo e governo:

Possiamo dire che alle giovani non frega nulla dell’8 marzo, così come sono disinteressate a San Valentino. Lo vedo anche con le mie figlie, la più grande ha 30 anni e la più piccola 17, noto che danno i diritti per acquisiti e forse vivono una visione parziale della realtà poiché non sono ancora entrate nel mondo del lavoro e dunque non conoscono le ingiustizie, le prevaricazioni, il maschilismo della società. Credo che non sia colpa loro se la vita adulta viene posticipata. Però, è vero, alcuni diritti come l’aborto sono oggi minacciati oppure aggirati, in Lombardia per esempio esiste un’altissima obiezione di coscienza e gli ospedali non offrono pienamente il servizio di interruzione di gravidanza.

Tuttavia quasi nessuna protesta con clamore. Perché?
Penso che alle ragazze manchi l’esperienza che abbiamo vissuto, il fatto che negli anni ’60 la contraccezione era reato, sono una generazione smarrita, ma ho registrato un grande turbamento rispetto a quello che è accaduto in Spagna (il governo Rajoy ha cancellato la legge sull’aborto, ndr). Allo stesso tempo penso che moltissime giovani non abbiano davvero compreso quanto fosse importante mobilitarsi per la legge 40 sulla fecondazione assistita, ma sono convinta che non siamo state capaci a farlo capire, esiste un forte scollamento tra la mia generazione e quella delle mie figlie. Credo comunque che ora il tempo è loro, devono trovare i loro slogan, le nuove parole d’ordine.

Negli ultimi mesi il dibattito mediatico e politico ha riservato molto spazio ai diritti delle donne. Il governo Letta ha varato una legge sul femmincidio, la presidente Laura Boldrini è intervenuta spesso dando un’ottica di genere, si è parlato molto di femminicidio. C’è qualcosa che la rende perplessa?
Ho il timore che qualcosa non vada per il verso giusto. Soprattutto temo che non venga compreso che la violenza sulle donne è un problema degli uomini, sta a loro risolverlo. Dobbiamo capovolgere lo sguardo, e continuare a tenere alta l’attenzione sulla violenza domestica, è una piaga molto diffusa e per questo lo spettacolo con il quale ho fatto una tournée, Ferite a morte di Serena Dandini, è stato accolto con grande gratitudine e calore.

Un governo con la metà ministre, non è simbolicamente positivo?
Sì, Ma quante sono le sottosegretarie?

9 su 44…

Ecco, come temevo. Questo significa che il 50 e 50 annunciato da Renzi era soltanto una operazione di facciata, una spruzzatina di rosa visto che poi la vera squadra di lavoro è quasi interamente maschile. E poi non capisco come una donna capace, Emma Bonino, sia stata esclusa dalla nuova composizione. Sono una antica marxista perciò attendo di vedere se questo governo sarà in grado di assumere un punto di vista femminile, riuscendo a comprendere che la questione femminile non è un’opzione, è universale. So bene che non basta essere donna per avere uno sguardo di genere, e spero allora che gli uomini di questo esecutivo siano all’altezza del proprio compito. Se mi chiede però di analizzare il simbolico, allora dico che Renzi sta facendo archeologia culturale. E anche sentimentale.

Quanto costa il silenzio?

L’indagine di Intervita sui costi economici e sociali della violenza contro le donne in Italia:

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Il documento completo dell’indagine è scaricabile qui.

Contro il femminicidio: il pianto di Ulisse

050458242-ebeb3c5b-7d9f-4e66-8a49-1d93c5c296a1Le nuove donne devono continuare a essere differenti dagli uomini e fare valere in tutti i campi la ricchezza della loro storia, della loro intelligenza, dei loro pensieri, ma devono anche cambiare nel profondo e lasciare agli uomini la loro parte di responsabilità nel nuovo mondo. I ruoli dell’uno e dell’altra, rimanendo differenti, possono sovrapporsi e prendere l’uno dall’altra. E la madre può cedere la sovranità assoluta per una libertà conquistata che apre le porte di un mondo vasto, ricco della presenza di Due diversi ma pari. E penso che il padre possa insegnare la sua nuova forza al figlio: un dominio sovrano che deve trasformarsi nell’accoglimento della differenza delle donne, della loro parità. Può insegnare al figlio a non averne paura, a parlarne, sottraendo così il dialogo sui sentimenti all’impero delle donne. Forse la nuova forza degli uomini è fatta anche del pianto di Ulisse – uomo per eccellenza – che nell’isola dei Feaci ascolta il racconto della guerra di Troia e piange, coprendosi il viso col mantello purpureo, “come donna piange lo sposo che cadde davanti alla città”. Forse l’uomo può piangere ora come uomo, senza coprirsi il viso, anche davanti al figlio, e aprirsi nel racconto all’altro da sé. E le donne al contrario possono diventare più lievi, manifestare la loro imperfezione, dare ai figli la manifestazione vera di quello che sono e la possibilità di tenere testa senza violenza alle giovani donne libere che incontreranno nella loro vita adulta. Abbiamo la fortuna di vivere uno dei cambiamenti più importanti della storia, il mutamento profondo del rapporto tra i due generi, questo mutamento può cambiare il mondo e in questo nuovo mondo le donne e gli uomini possono amarsi e comprendersi molto più di prima.

Cristina Comencini nella sua lettera agli uomini che odiano le donne.