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La retorica sui liberi professionisti, tassati e tartassati

Quest’anno i professionisti iscritti alla gestione separata hanno trovato sotto l’albero un regalo coi fiocchi, l’ennesimo aumento dei contributi da versare all’Inps che dal 1° gennaio 2015 passano dall’attuale 27,72% al 29,72% per poi crescere un punto all’anno fino al 33,72% nel 2019.

Quando nel 1995, con la Riforma Dini, è stata istituita questa forma contributiva previdenziale l’aliquota era del 10%, un aumento progressivo senza eguali che oggi spinge fuori dal mercato una grossa fetta di professionisti, una categoria del terziario avanzato che raggruppa esperti, informatici, formatori, ricercatori, creativi, consulenti che svolgono un’attività che rientra nelle professioni non organizzate in ordini o collegi. Sono lavoratori autonomi altamente qualificati che malgrado la scarsa dinamicità dell’economia hanno abbracciato la flessibilità richiesta dalle mutate condizioni del mercato. Una nuova classe di professionisti che lavorano da soli senza dipendenti e che rappresentano una risorsa qualificata insostituibile, sono i lavoratori autonomi della conoscenza, i freelance.

Inseriti in un apparato normativo troppo rigido che non li riconosce si scontrano con una realtà di disinformazione e miopia. Il governo pare impegnato a inserire nelle leggi delle clausole che impediscano l’abuso della flessibilità nelle nuove attività professionali piuttosto che costruire un apparato coerente ed esaustivo di norme volte a permettere la crescita e la valorizzazione di un capitale umano che già c’è.

Questo vuoto normativo ha fatto sì che la disciplina tributaria dei professionisti indipendenti si sovrapponesse in parte alla tassazione individuale e in parte alla tassazione di impresa, cioè oscillasse fra due realtà che non riescono a identificare questa categoria confinandola in un limbo che non le attribuisce un’identità univoca e alla fine la penalizza.

“Il Jobs Act non è minimamente intervenuto sulla tutela della disoccupazione per i freelance” dice Anna Soru presidente Acta, la prima associazione nata in Italia per rappresentare i freelance “la legge di stabilità ha stanziato 800 milioni a favore dell’insieme delle partite Iva, ma il grosso va a coprire l’eliminazione dei minimi contributivi per commercianti e artigiani mentre non si è intervenuti per bloccare l’aumento dell’aliquota che versiamo noi freelancer iscritti alla gestione separata Inps che già oggi (27,72%) è decisamente superiore a quella di commercianti e artigiani (22-23%). A regime questa distanza si amplierà significativamente: 24% per commercianti e artigiani, 33,72% per noi”.

“Sul fronte del regime dei minimi è stata introdotta una modifica” prosegue Anna Soru “che prevede di spezzettare il mondo del lavoro autonomo in base all’attività produttiva, per ogni tipologia di attività è stato definito un massimale di fatturato che permetterà di rientrare nel regime dei minimi e una stima dei costi da portare in detrazione che quindi non saranno più stabiliti sulla base delle fatture effettivamente pagate. Come freelancer si stima che il 22% del fatturato sia utilizzato per le spese, perciò tasse e contribuzione verranno calcolate sul rimanente 78%. È discutibile questa modalità di definizione dei costi, innanzitutto perché favorisce chi è una finta partita Iva che tipicamente non ha costi perché utilizza la sede e gli strumenti del committente, non ha spese promozionali o di marketing ma solo la parcella del commercialista” puntualizza la presidente Acta.

“È inoltre discutibile perché risulta incoerente con la lotta all’evasione fiscale: se non devo dimostrare le spese sostenute non ho interesse a chiedere le fatture ai miei fornitori; in sostanza viene a mancare il contrasto di interessi, uno strumento classico della lotta all’evasione. È stato abbassato anche il massimale nel regime dei minimi per i freelance che da 30.000 euro passa a 15.000 mentre è stato aumentato a 40.000 per i commercianti. Due considerazioni. Da una parte 15.000 euro è una soglia di fatturato che restringe significativamente la platea dei freelance che potranno beneficiarne, soprattutto se consideriamo che sino ad un fatturato di 10-12.000 euro il nuovo regime non è vantaggioso (meglio il regime semplificato, ovvero il regime non agevolato)”.

“La seconda è che si amplia la possibilità di rientrare in un regime agevolato, che tra le altre caratteristiche prevede l’esclusione dagli studi di settore, a una categoria (commercianti) in cui tradizionalmente è più presente l’evasione fiscale. Non amo le etichette, specialmente se attribuite in base a luoghi comuni, ma proprio per questo ritengo si debba fare chiarezza ed evitare norme che possano favorire i soliti furbi. Se si considerano utili i regimi di favore ritengo vadano subordinati alla completa trasparenza dei pagamenti. I regimi di favore (magari studiati meglio dei vari regimi dei minimi che abbiamo conosciuto) dovrebbero essere accordati solo a lavoratori autonomi che accettino di essere radiografati dal fisco e che, per favorire ogni indagine sul loro operato, utilizzino solo strumenti di pagamento tracciabili”.

“Le politiche del lavoro in atto si rivolgono essenzialmente al lavoro dipendente e sono insufficienti, non tutta la disoccupazione potrà essere assorbita lì. Bisogna capire che il nuovo lavoro autonomo è una risorsa per l’innovazione e la crescita e anziché avere un atteggiamento punitivo bisognerebbe introdurre delle politiche che lo promuovano riconoscendone il ruolo sociale ed economico. A questo proposito è necessario ripensare completamente quello che è il sistema fiscale-contributivo da una parte e di welfare dall’altra” conclude Anna Soru.

Patricia Leighton, docente di diritto sociale europeo alla Ipag Business School di Parigi, ha studiato a fondo il fenomeno degli iPros (Independent Professionals), i liberi professionisti. Dalla ricerca svolta “Future Working, The Rise of Europe’s Independent Professionals” emerge che questa categoria è quella con la crescita più rapida in Europa ma lo studio evidenzia anche il cambiamento strutturale del mercato del lavoro che sta avvenendo, una sostanziale trasformazione nel modo di lavorare, se prima l’approccio era “avere un impiego” adesso si lavora per il cliente. Gli iPros hanno portato le loro competenze nel nuovo e dinamico mercato del lavoro europeo fornendo servizi ai diversi settori con una crescita impressionante che sfiora il 45%, quasi 9 milioni.

Di questo cambiamento radicale nella natura del lavoro stesso e nelle sue modalità è portavoce Efip (European forum for independent professionals), l’organismo che raggruppa a livello europeo le associazioni di rappresentanza dei lavoratori autonomi. Attraverso questo strumento gli associati, fra cui Acta, portano avanti un discorso comune per dare visibilità agli iPros, offrire un supporto conoscitivo al legislatore per agevolare una normazione europea in grado di comprendere e tenere conto delle specificità di questa tipologia di lavoro e rispondere alle nuove esigenze nell’attuale contesto di mercato con rapidità e azioni mirate.

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(Fonte: Patricia Leighton, “Future Working, The Rise of Europe’s Independent Professionals”)

Ma l’Italia è il fanalino di coda di un’Europa che guarda avanti, che osserva l’evoluzione delle attività economiche, che si pone il problema della qualificazione e della riconoscibilità delle professioni, che investe in educazione e formazione professionale, che percepisce il valore di questa categoria in termini occupazionali. In Italia, lo sviluppo del lavoro freelance è fra i più lenti in Europa.

C’è bisogno di una cultura digitale più vasta, è necessario favorire l’accesso dei freelancer alla formazione finanziata e incentivare la formazione che ognuno si paga da sé, riconoscendone la totale detraibilità ai fini fiscali, servono norme in grado di imporre il pagamento puntuale delle prestazioni come il Freelancer Payment Protection Act promosso da Freelancers Union e che dal 2011 è legge nello Stato di New York. Mancano infine misure che favoriscano la partecipazione dei freelancer alla fornitura di servizi alla pubblica amministrazione e che garantiscano pagamenti equi lungo le catene di subfornitura.

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(Fonte: Patricia Leighton, “Future Working, The Rise of Europe’s Independent Professionals”)

C’è una contraddizione di fondo fra il costante richiamo alla flessibilità nel lavoro e i provvedimenti che interessano i freelance, i più flessibili per definizione, c’è un’incoerenza fra la volontà di far ripartire un’economia e gli strumenti applicati. Di certo le recenti decisioni del governo si abbattono come una mannaia sui professionisti-freelance che fra pochi giorni diventeranno una categoria a rischio, alla stregua delle specie in via di estinzione.

(fonte)

E preferisco non scrivere piuttosto che vendermi. I miei articoli sono in vendita, io no.

Dell’orrido e meraviglioso lavoro di scrivere dagli e degli Esteri, dopo la denuncia di Francesca Borri, risponde la giornalista Barbara Schiavulli. E la sua risposta è da leggere non solo per l’angolatura da cui mostra l’essere freelance inviata di guerra ma anche, e soprattutto, perché senza omertà fa i nomi e i cognomi. Come piace a noi.

Sono stufa dell’omertà dei miei amici colleghi, che per paura di non scrivere, non dicono niente. Non sto parlando da vittima, ma da frustata sì, le cose devono cambiare. E preferisco non scrivere piuttosto che vendermi. I miei articoli sono in vendita, io no. Se avessi un giornale prenderei i pezzi con le proposte migliori e nel caso di un evento avrei il mio giornalista freelance di fiducia, e lo vorrei sempre aggiornato nel suo campo. I ragazzi dovrebbero capire che valgono quanto prendono, se consenti a qualcuno di pagarti 2 euro, stai distruggendo te stesso e la categoria. Se tutti cominciassero a dire “no”, o in redazione se lo scrivono da soli o verrebbero a patti, e siccome le redazioni sono sempre meno affollate, non hanno altro modo che chiedere a noi. Sono stata lunga, ma l’argomento è spinoso e centrale per la vita di tutti. Non ho parlato di pericoli, di guerra, di cosa accade quando siamo in giro, perché questo è qualcosa che spetta a noi gestire. L’importante è che io la sera porti il mio pezzo a casa e lo possa mandare. Laggiù il problema è mio e me lo gestisco io. Qui, invece, è di tutti, è un problema di sostanza e futuro. La vastità di Internet fa credere di avere un sacco di informazioni, di cui però nessuno è sicuro, perché manca la professionalità di chi poteva garantire una notizia. Si perde la voglia di approfondire, di godersi un articolo scritto bene che ti trasporta lì dove le cose accadono, ci si nutre di politica e di pettegolezzi, ci si abitua a non pensare e a non chiedere. Ci si abitua a dimenticare e a fare finta di niente. E io e tutti quelli come me, moriamo. Ci crepa l’anima. Mi dicono che ci si deve riciclare, che bisogna essere aperti ai cambiamenti, che bisogna trovare altri modi, perché alla fine quello che conta è pagare il mutuo. Le rate della macchina non si saldano con i sogni o con l’impegno che abbiamo preso verso il mondo che vorremmo. E io sono, appunto, a quel bivio: devo continuare a credere che fare cultura sia importante anche quando nessuno la vuole, per essere quel tarlo che si insinua e rende comunque la vita più ricca, o mollare per non piangere più sui soldi che mancano sempre? Rottamarsi da soli, riciclarsi, dimenticare. Ingoiare la pillola amara dell’ignoranza e fare finta che non ho scritto sperando che le storie tremende che ho trovato, non si ripetessero di nuovo. Dovrei essere seria. Pensare a me. Ma sull’orlo di un paese in crisi, invece di trovarmi un lavoro concreto, vorrei fondare un giornale. Inguaribile, mi dico, come fosse un insulto. I sogni te li conficca il diavolo. E senza soldi, senza sponsor, senza nessuno che condivida un’idea, sono solo una malata terminale. Io e tutte quelle storie che potrebbero non essere mai più raccontate.

La sua lunga risposta è qui, per Valigia Blu.