“Con una stella d’oro in fronte”: come giura la ‘ndragheta a Roma
E’ un documento straordinario quelle nelle mani degli inquirenti della Capitale. Del codice di San Luca si era parlato in occasione degli arresti dei killer di Vincenzo Femia, quanto il pentito Gianni Cretarola aveva iniziato a vuotare il sacco. Un codice criptato utilissimo alle inchieste di Polizia e Guardia di Finanza che hanno messo sotto scacco l’intera organizzazioni della ‘ndrangheta che a Roma aveva messo radici profonde. “Una bella mattina di sabato Santo, allo spuntare e non spuntare del sole, passeggiando sulla riva del mare vitti una barca con tre vecchi marinai, che mi domandarono cosa stavo cercando…”. Si legge nel codice tradotto dagli investigatori. A testimonianza che le cosche calabresi hanno fatto della Capitale una base operativa importante, trapiantando in blocco piombo, sangue, tradizioni e riti. Cretarola, saltando il fosso ed è andato a ingrossare le fila dei collaboratori di giustizia. A casa sua gli agenti di Renato Cortese sequestrarono nei mesi scorsi, tra l’altro, tre fogli scritti a mano in un alfabeto che sembrava un mix di cirillico e arabo. Il pentito su quegli strani geroglifici aveva fatto spallucce e i poliziotti avevano dato il compito di tradurli a due colleghi appassionati di enigmistica. Niente programmi software di lettura incrociata, niente consulenti d’alto livello, solo olio di gomito, passione e un po’ di intuito. Così è saltato fuori il senso di quei disegni incomprensibili. Ad esempio: “Come si riconosce un giovane d’onore? Con una stella d’oro in fronte, una croce da cavaliere sul petto e una palma d’oro in mano. E come mai avete queste belle cose che non si vedono? Perché le porto in carne, pelle e ossa”. Parole che affondano le radici nel mito dei tre vecchi, fondatori della tre mafie: Osso, Malosso e Carcagnosso. A quel punto il collaboratore di giustizia si è aperto ed ha iniziato a raccontare nei dettagli l’affiliazione alla cosca, avvenuta nella calzoleria del carcere di Sulmona e che l’avrebbe portato a occupare un ruolo stabile nella gerarchia della ‘ndrangheta. Prima picciotto, poi sgarrista, e via via santista, vangelista, quartino, trequartino, padrino e capobastone. Nella ‘ndrangheta si entra per nascita o per battesimo e anche i figli dei boss, fino a 14 anni, sono “mezzi fuori e mezzi dentro”. Nell’ordinanza che lo accusa di aver partecipato all’omicidio di Femia si legge: “Per il battesimo ci vogliono cinque persone, non di più non di meno ma nella calzoleria ce n’erano solo due, oltre a me. Gli altri erano rappresentati da fazzoletti annodati”. E ancora: “Il primo passo è la formazione del locale, una sorta di consacrazione che, alla fine del rito, verrà rifatta al contrario”. Quindi il rito: “Se prima questo era un luogo di transito e passaggio da questo momento in poi è un luogo sacro, santo e inviolabile”. A quel punto il solito “tributo simbolico di sangue”. In mancanza di un coltello, in carcere, il “puntaiolo” impugna un punteruolo da calzolaio. È il novizio che deve pungersi da solo, se non ci riesce al terzo tentativo, l’auspicio è pessimo e bisogna rinviare di sei mesi. Cretarola ci riuscì, successivamente le formule: “A nome dei nostri tre vecchi antenati, io battezzo il locale e formo società come battezzavano e formavano i nostri tre vecchi antenati, se loro battezzavano con ferri, catene e camicie di forza io battezzo e formo con ferri, catene e camicie di forza, se loro formavano e battezzavano con fiori di rosa e gelsomini in mano io battezzo e formo…”. Il picciotto è fatto, e anche il suo destino, che lo ha portato dritto dietro le sbarre.
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