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Giorgio Napolitano

Al Quirinale due chiacchere con i boss

7 OTT – La Procura di Palermo, in una memoria depositata alla Corte d’Assise, ha dato parere favorevole alla partecipazione dei boss Toto’ Riina e Leoluca Bagarella e dell’ex ministro Nicola mancino alla deposizione, al Quirinale, del Capo dello Stato al processo sulla trattativa Stato-Mafia.
I capimafia, qualora la Corte accogliesse la loro istanza di assistere alla deposizione, parteciperebbero in videoconferenza dal carcere, mentre Mancino potrebbe assistere dal Quirinale. Secondo i pm, infatti, la possibilita’ di partecipare all’udienza, seppure con le forme della videoconferenza, sarebbe prevista dalla norma richiamata dalla Corte d’Assise per lo svolgimento dell’udienza al Quirinale, cioe’ l’articolo che disciplina l’audizione del teste sentito a domicilio. Inoltre – per la Procura – alla luce dei principi generali che consentono all’imputato di partecipare al processo, un’eventuale esclusione, a fronte di una precisa istanza, potrebbe determinare una nullita’ processuale. Da qui il parere favorevole della Procura. (ANSA).

Io pagherei per sapere le domande che potrebbe porre l’avvocato di Riina, ad esempio.

Il Grande Suggeritore dovrà deporre

E quindi niente: alla fine il Capo dello Stato Giorgio Napolitano dovrà deporre al processo Stato-mafia, lasciandoci il dubbio che qualche altro Presidente l’avrebbe fatto “sua sponte” e decisamente più spedito. E dovrà spiegare alla Corte (ma credo anche a noi) come è successo che così troppa gente così troppo in alto sia sia preoccupata al limite del lecito e sicuramente oltre la ragionevolezza per rassicurare il senatore Mancino e altri.

A proposito: sulla “trattativa” ho avuto il piacere di scrivere un breve pezzo teatrale per la prossima uscita de I Quaderni de l’ORA. Vi tengo informati.

Ora, fuori da ogni dubbio, ce lo dice lui stesso

“Un minuto prima che Renzi entrasse nella stanza del Presidente della Repubblica mi era stato detto che sarei diventato ministro della Giustizia”, lo ha rivelato ieri sera Nicola Gratteri, procuratore aggiunto a Reggio Calabria e magistrato simbolo della lotta alla ‘ndrangheta, nell’ambito della rassegna culturale Ponza D’Autore. “Nella lista con i 16 nomi con cui Renzi si è presentato da Napolitano c’era anche il mio. Poi là dentro non so cosa sia successo”. “Credo che il Presidente della Repubblica non abbia voluto che diventassi Ministro, ma il vero motivo non lo so”.

Ne avevamo parlato in una puntata di RadioMafiopoli. E qualcuno aveva anche commentato professorale e dubbioso, per dire.

Parla Gratteri: “È vero mi ha bocciato Napolitano”

Siamo un Paese con la memoria corta ma più di qualcuno si ricorderà della bocciatura alla nomina di Gratteri come Ministro alla Giustizia. Oggi a parlare è proprio il magistrato che chiarisce bene come siano andate le cose:

Al sottosegretario Delrio, quando nel febbraio scorso è andato a proporgli di fare il ministro, ha chiesto carta bianca. «Abbiamo discusso per quasi tre ore di modifiche normative – dice -, più parlavo e più il sottosegretario si eccitava. Quando hai la morte negli occhi, perdi del tutto il timore reverenziale del potere. La notte non ho dormito, sapevo che mettevo in gioco la mia vita, che un ministro dura poco e mi sarei dovuto cercare un altro mestiere. Ma l’avrei fatto». Il giorno dopo, Delrio sta un’ora a colloquio con Napolitano, che poi gli parla della «regola non scritta».

Ora ognuno può tirare le proprie conclusioni. Non più sulle ipotesi ma sui fatti.

Dilla una cosa antimafiosa, Renzi, una sola

Io non so cosa abbia in testa di fare Matteo Renzi nei primi 100 giorni di governo, quelli che sono considerati la “luna di miele” che ogni nuovo presidente del consiglio (volutamente minuscolo) ha a disposizione per mettere a segno qualche “colpo” politico importante. Presumo (con presunzione e pregiudizio) che sicuramente troverà qualche accattivante definizione per qualche “epica” impresa politica che si arenerà com’è stato per la legge elettorale ma comincio ad essere sinceramente preoccupato per l’assenza (ormai troppo lunga e sistematica per essere un caso) di obiettivi chiari e concreti nel campo della lotta alle mafie. Mi sembra strano (e spero che sia solo strano) che un comunicatore come lui abbia perso l’occasione di spendere unaparolachesiauna su Nino Di Matteo, almeno per la sua furbizia nel distinguersi dagli altri e per incassare un applauso facile facile nel bacino elettorale del Movimento 5 Stelle.

Per carità, so bene che avendo bisogno di Alfano, Formigoni e compari per avere i numeri al Senato (volutamente maiuscolo ma inteso come istituzione) il tema dell’antimafia rischia di toccare qualche corda sensibile degli alleati in questa radura che vorrebbe essere prateria (cioè le larghe intese) ma il dubbio più atroce sia che qualcuno gli abbia “consigliato” (scriviamolo così, va) di non affrontare l’argomento: e se c’è qualcuno che credibilmente abbia potuto farlo è Berlusconi o Napolitano.

In un Paese che è riuscito a fare passare come paladino dell’antimafia Roberto Maroni e addirittura ha acceso lo spirito antimafioso di Angelino Alfano (vi ricordate la famosa frase “lo Stato è pronto a rendere più duro il 41 bis“?) un silenzio del genere suona rumorosissimo e non si può non notare. Apriamo l’ennesimo tempo con altre priorità rispetto alla lotta alle mafie. E va bene. Ma dilla una cosa antimafia, Renzi, una sola. Almeno provaci.

Il garante

Uno dei rischi maggiori in tempo di larghe intese e pubblicizzatissimi litigi è perdere il senso critico. Già in politica il parteggiare inibisce le larghe vedute (che sono diverse dalle larghe intese) in più sull’argomento del Presidente della Repubblica la spaccatura ha, in qualche modo, sancito l’ultima coalizione (naufragata prestissimo) del centrosinistra. Per questo credo che valga la pena leggere con meno condizionamenti possibile il pensiero di Antonio Ingroia:

Ma se è Giorgio Napolitano, che dovrebbe essere super partes, a esortare la magistratura a tenere “equilibrio, sobrietà, riserbo, assoluta imparzialità, senso della misura e del limite”, vuol dire che, a suo parere, molte procure non rispettano questi criteri. E implicitamente abbandona il suo ruolo di garante e prende una posizione precisa. Allora, a questo punto, sono io che, da cittadino, chiedo a chi siede al Quirinale maggiore equilibrio, maggiore sobrietà, riserbo, assoluta imparzialità, senso della misura e del limite. Insomma, chiedo a Giorgio Napolitano di rispettare il ruolo straordinariamente importante che gli ha affidato la Costituzione e di non entrare nell’agone politico. Anche perché, da presidente del Csm, gli strumenti per “bacchettare” i pm li ha tutti.
Cosa significa senso del limite? Non indagare se un pm ha una notizia di reato che riguarda qualche politico? Non indagare perché c’è una ragion di stato superiore e non può cadere il governo delle larghe intese? Non indagare e lasciare che il politico di turno possa corrompere, evadere, trattare con i criminali (e che criminali!)?
No. Io capisco che il garante della Costituzione, di fronte a una classe politica inetta e inefficiente, incapace di amministrare la cosa pubblica, svolga un ruolo di supplenza, proprio ai confini del ruolo che assegna la Costituzione, dettato dalle emergenze e dalle contingenze politiche ed economiche, ma che in nome di questo ruolo di supplenza venga sminuito il ruolo di garante della Costituzione non mi sta bene e, credo, non stia bene neanche a quei milioni di italiani che vedono il Quirinale, come me, punto di riferimento essenziale a garanzia dell’applicazione corretta della Carta.
Il presidente della Repubblica deve continuare a essere garante, il ruolo che la Costituzione gli assegna, e non può permettersi, lo ripeto, non può permettersi, di delegittimare il lavoro di pm e giudici in nome della governabilità.

Lei non può

Oggi il Corriere della Sera ospita, a pagina 13, una durissima lettera di Fausto Bertinotti al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Una missiva nella quale l’ex presidente della Camera accusa il Capo dello Stato di congelare la democrazia con il suo appoggio esplicito all’attuale esecutivo. Una lettera scandita da una serie di perentori “Lei non può

Signor Presidente,

Lei non puòLei non può congelare d’autorità una delle possibili soluzioni al problema del governo del Paese, quella in atto. come se fosse l’unica possibile, come se fosse prescritta da una volontà superiore o come se fosse oggettivata dalla realtà storica.

Lei non può, perché altrimenti la democrazia verrebbe sospesa. Lei no può trasformare una Sua, e di altri, previsione sui processi economici in un impedimento alla libera dialettica democratica. I processi economici, in democrazia, dovrebbero poter essere influenzati dalla politica, dunque, dovrebbero essere variabili dipendenti, non indipendenti. Lei non può, perché altrimenti la democrazia sarebbe sospesa. Sia che si sostenga che viviamo in regimi pienamente democratici, sia che si sostenga, come fa ormai tanta parte della letteratura politica, che siamo entrati in Europa, in un tempo post-democratico, quello della rivincita delle élites, Lei non può. Nel primo caso, perché l’impedimento sarebbe lesivo di uno dei cardini della democrazia rappresentativa cioè della possibilità, in ogni momento, di dare vita ad un’alternativa di governo, in caso di crisi, anche con il ricorso al voto popolare. Nel secondo caso, che a me pare quello dell’attuale realtà europea, perché rappresenterebbe un potente consolidamento del regime a-democratico in corso di costruzione. C’è nella realtà politico istituzionale del paese una schizofrenia pericolosa: da un lato si cantano le lodi della Costituzione Repubblicana, dall’altro, essa viene divorata ogni giorno dalla costituzione materiale. La prima, come lei mi insegna, innalza il Parlamento ad un ruolo centrale nella nostra democrazia rappresentativa, la seconda assolutizza la governabilità fino  a renderlo da essa dipendente. Quando gli chiede di sostenere il governo perché la sua caduta porterebbe a danni irreparabili, Ella contribuisce della costruzione dell’edificio oligarchico promosso da questa costituzione materiale. Nel regime democratico ogni previsione politica è opinabile perché parte essa stessa di un progetto e di un programma che sono necessariamente di parte; lo stesso presunto interesse generale non si sottrae dalla diversità delle sue possibili interpretazioni. Ma, se mi permette, Signor Presidente c’è una ragione assai più grande per cuiLei non può.

La nostra costituzione è, come sappiamo, una costituzione programmatica. Norberto Bobbio diceva che in essa la democrazia è inseparabile dall’eguaglianza come testionia il suo articolo 3. Ma essa, rifiutando un’opzione finalistica nella definizione della società futura, risulta aperta a modelli economico sociali diversi e a quelli dove sarà condotta da quella che Dossetti chiamava la democrazia integrale e Togliatti la democrazia progressiva.

Quando Lei allude ai possibili danni irreparabili per il paese, lo può fare solo perché considera ineluttabili le politiche economiche e sociali imperanti nell’Europa leali, le politiche di austerità. Ha poca importanza, nell’economia di questo ragionamento, la mia radicale avversione a queste politiche che considero concausa del massacro sociale in atto.

Quel che vorrei proporLe è che  nella politica e in democrazia si possa manifestare un’altra e diversa idea di società rispetto a quella in atto e che la Costituzione Repubblicana garantisce che essa possa essere praticata e perseguita. Il capitalismo finanziario globale non può essere imposto come naturale, né la messa in discussione del suo paradigma può essere impedito in democrazia, quali che siano i passaggi di crisi e di instabilità a cui essa possa dar luogo. O le rivoluzioni democratiche possono essere possibili solo altrove? No, la carta fondamentale garantisce che, nel rispetto della democrazie e nel rifiuto della violenza, possa essere intrapresa anche da noi. C’è già un vincolo esterno, quello dell’Europa leale, che limita la nostra sovranità, non può esserci anche un vincolo esterno anche alla politica costituita dall’autorità del Presidente della Repubblica. Lei non può, signor Presidente. Mi sono permesso di indirizzarLe questa lettera aperta perché so che la lunga consuetudine e l’affettuoso rispetto che ho sempre nutrito per la Sua persona mi mettono al riparo da qualsiasi malevola interpretazione e la mia attuale lontananza dai luoghi della decisione politica non consentono di pensare ad una qualche strumentalità. È, la mia, soltanto, l’invocazione di un cittadino, anche se ho ragione di ritenere che essa non sia unica.

Mi creda, con tutta cordialità.

Fausto Bertinotti

Nostra Signora della Stabilità

Ne continua a parlare Letta, continua a reclamarla Napolitano ed è invocata come una pioggia salvifica: la stabilità. Nessuno tocchi la stabilità, nessuno osi discutere la stabilità, nessuno provi a mettere in difficoltà la stabilità.

Eppure è da incorniciare il commento di Barbara Spinelli oggi su Repubblica che racconta lo sconforto che ci prende quando si ascolta questa litania:

Nella Fattoria degli animali, la casta trionfatrice dei maiali narrata da Orwell annuncia a un certo punto che tutti gli animali sono eguali, ma ce ne sono di più eguali degli altri. Nelle grandi coalizioni accade qualcosa di analogo. Anch’esse secernono una casta, pur di sfuggire ai partiti sottoscrittori delle intese, e i governanti assumono una postura singolare: si fanno prede di leggi deterministe, è come non possedessero il libero arbitrio e di conseguenza non fossero imputabili. Il leone che sbrana la gazzella agisce così: mosso dalla necessità della sopravvivenza, non deve render conto a nessuno, tribunale o popolo elettore.

Le unioni nazionali funzionano sempre male, ma se funzionano è perché ciascuno riconosce e rispetta i limiti che il partner non può valicare senza rinnegarsi. La grande coalizione di Weimar naufragò perché Hindenburg l’aveva suscitata col preciso intento di consumare i socialdemocratici. La morte della democrazia parlamentare era programmata dall’inizio; il governo presidenziale di Brüning, ultimo Cancelliere della Repubblica, era già da tempo concordato tra Centro cattolico e destre popolari.

I guai succedono quando l’abitudine alla non-responsabilità diventa tassello principale della stabilità, o governabilità. Enorme è il chiasso, ma ogni cosa stagna: è la stasi. Nessuno si avventuri a staccare spine, ammonisce Napolitano. Tantomeno si provi a irritare i mercati e le banche d’affari, che già l’hanno fatto sapere: non si fidano di Stati con Costituzioni nate nella Resistenza (rapporto di JP Morgan del 28-5-13). Per questo è interessante sapere quel che intenda la Banca d’Italia, quando nell’instabilità vede un freno alla crescita. Quale stabilità?

Ci sono momenti in cui si ha l’impressione che l’Italia abbia vissuto nel Regno della Necessità quasi sempre, tranne nel momento magico del Comitato di liberazione nazionale, della Costituzione repubblicana. I governanti che sono venuti dopo sono stati potenti stabilizzatori, più che responsabili. Quando parla al popolo, lo stabilizzatore gli dà poco rispettosamente del tu e d’istinto cade nel frasario del gangster: “Ti faccio un’offerta che non potrai rifiutare”.