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giornalismo

E preferisco non scrivere piuttosto che vendermi. I miei articoli sono in vendita, io no.

Dell’orrido e meraviglioso lavoro di scrivere dagli e degli Esteri, dopo la denuncia di Francesca Borri, risponde la giornalista Barbara Schiavulli. E la sua risposta è da leggere non solo per l’angolatura da cui mostra l’essere freelance inviata di guerra ma anche, e soprattutto, perché senza omertà fa i nomi e i cognomi. Come piace a noi.

Sono stufa dell’omertà dei miei amici colleghi, che per paura di non scrivere, non dicono niente. Non sto parlando da vittima, ma da frustata sì, le cose devono cambiare. E preferisco non scrivere piuttosto che vendermi. I miei articoli sono in vendita, io no. Se avessi un giornale prenderei i pezzi con le proposte migliori e nel caso di un evento avrei il mio giornalista freelance di fiducia, e lo vorrei sempre aggiornato nel suo campo. I ragazzi dovrebbero capire che valgono quanto prendono, se consenti a qualcuno di pagarti 2 euro, stai distruggendo te stesso e la categoria. Se tutti cominciassero a dire “no”, o in redazione se lo scrivono da soli o verrebbero a patti, e siccome le redazioni sono sempre meno affollate, non hanno altro modo che chiedere a noi. Sono stata lunga, ma l’argomento è spinoso e centrale per la vita di tutti. Non ho parlato di pericoli, di guerra, di cosa accade quando siamo in giro, perché questo è qualcosa che spetta a noi gestire. L’importante è che io la sera porti il mio pezzo a casa e lo possa mandare. Laggiù il problema è mio e me lo gestisco io. Qui, invece, è di tutti, è un problema di sostanza e futuro. La vastità di Internet fa credere di avere un sacco di informazioni, di cui però nessuno è sicuro, perché manca la professionalità di chi poteva garantire una notizia. Si perde la voglia di approfondire, di godersi un articolo scritto bene che ti trasporta lì dove le cose accadono, ci si nutre di politica e di pettegolezzi, ci si abitua a non pensare e a non chiedere. Ci si abitua a dimenticare e a fare finta di niente. E io e tutti quelli come me, moriamo. Ci crepa l’anima. Mi dicono che ci si deve riciclare, che bisogna essere aperti ai cambiamenti, che bisogna trovare altri modi, perché alla fine quello che conta è pagare il mutuo. Le rate della macchina non si saldano con i sogni o con l’impegno che abbiamo preso verso il mondo che vorremmo. E io sono, appunto, a quel bivio: devo continuare a credere che fare cultura sia importante anche quando nessuno la vuole, per essere quel tarlo che si insinua e rende comunque la vita più ricca, o mollare per non piangere più sui soldi che mancano sempre? Rottamarsi da soli, riciclarsi, dimenticare. Ingoiare la pillola amara dell’ignoranza e fare finta che non ho scritto sperando che le storie tremende che ho trovato, non si ripetessero di nuovo. Dovrei essere seria. Pensare a me. Ma sull’orlo di un paese in crisi, invece di trovarmi un lavoro concreto, vorrei fondare un giornale. Inguaribile, mi dico, come fosse un insulto. I sogni te li conficca il diavolo. E senza soldi, senza sponsor, senza nessuno che condivida un’idea, sono solo una malata terminale. Io e tutte quelle storie che potrebbero non essere mai più raccontate.

La sua lunga risposta è qui, per Valigia Blu.

Voi che domani sarete ancora vivi, che cosa state aspettando? Perché non amate abbastanza? Voi che avete tutto, perché avete così paura?

Io non so se ci si possa perdonare di non riuscire a sentire le guerre. Se davvero abbiamo il cuore così stretto e l’intelligenza così strabica da non occuparci di quello che succede in tutti i luoghi così dissimili da noi. Forse il nostro federalismo è una legittimazione di un egoismo che non vogliamo combattere perché ci risulta faticoso o forse perché la borsa delle preoccupazioni è già colma delle sole cose vicine.

Comunque: in Siria c’è la guerra. Guerra vera, guerra per strada senza armi troppo artificiali e con i bambini maciullati per terra. Guerra a morsi ma con troppo poco petrolio per diventare internazionale. Guerra raccontata come sappiamo s-raccontare noi quando vogliamo essere coccolati nella rassicurante idea collettiva delle guerre e della morte.

Francesca Borri, freelance in Siria, prova a chiedere una riflessione sulla narrazione della guerra e, sopratutto, sul ruolo dell’informazione:

Ma siamo reporter di guerra, dopo tutto, o no? Una band of brothers (e sisters). Rischiamo la nostra vita per dare voce ai senza voce. Abbiamo visto cose che la maggior parte delle persone non vedrà mai. Siamo un bel repertorio di storie per quando siete a tavola, gli ospiti cool che ognuno vuole invitare. Ma la sporca verità è che invece di essere uniti, siamo i nostri peggiori nemici; e il motivo per cui un pezzo viene pagato 70 dollari al pezzo non è che non ci sono soldi, perché ci sono sempre soldi per un pezzo sulle fidanzate di Berlusconi. La vera ragione è che se uno chiede 100 dollari, c’è qualcun altro che è pronto a farlo per 70. È la concorrenza più feroce. Come Beatriz, che oggi mi ha segnalato la strada sbagliata così sarebbe stata l’unica a coprire la manifestazione, e mi sono trovata in mezzo ai cecchini per colpa del suo inganno. Solo per coprire una manifestazione, come centinaia di altri.

Ma facciamo finta di essere qui per far sì che nessuno potrà dire “Ma non sapevo che cosa stava accadendo in Siria”. Quando in realtà noi siamo qui solo per ottenere un premio, per ottenere visibilità. Noi stiamo qui a competere l’uno contro l’altro come se ci fosse un Pulitzer alla nostra portata, quando invece non c’è assolutamente nulla. Noi siamo schiacciati tra un regime che ti concede un visto solo se sei contro i ribelli, e i ribelli che, se tu stai dalla parte loro, ti permettono di vedere solo quello che vogliono farti vedere. La verità è che siamo dei falliti. Due anni dopo, i nostri lettori a malapena si ricordano dove è Damasco, e il mondo istintivamente descrive ciò che sta accadendo in Siria come “quel caos”, perché nessuno capisce nulla di Siria — solo sangue, sangue, sangue. Ed è per questo che i siriani non ci possono vedere ora. Perché mostriamo al mondo foto come quella bambino di sette anni con una sigaretta e un kalashnikov. È chiaro che è una foto artefatta, ma è apparsa sui giornali e siti web di tutto il mondo a marzo scorso, e ognuno poteva urlare: “Questi siriani, questi arabi, che barbari!” Quando sono arrivata qui, i siriani mi fermavano e mi dicevano: “Grazie che state mostrando al mondo i crimini del regime”. Oggi un uomo mi ha fermato, e mi ha detto: “Vergognati”.

Se davvero avessi capito qualcosa della guerra, non avrei dovuto dimenticarlo cercando di scrivere di ribelli e lealisti, sunniti e sciiti. Perché davvero l’unica storia da raccontare in guerra è come vivere senza paura. Tutto potrebbe finire in un istante. Se l’avessi saputo, non avrei avuto così paura di amare, di osare, nella mia vita; invece di essere qui, ora, a stringere me stessa in questo angolo buio, rancido, a rimpiangere disperatamente tutto quello che non ho fatto, tutto quello che non ho detto. Voi che domani sarete ancora vivi, che cosa state aspettando? Perché non amate abbastanza? Voi che avete tutto, perché avete così paura?

 

 

Scambiare una tensione per twitter

Secondo Twitter non ha affatto influenzato le scelte politiche, è un alibi per chi, tra i politici (anche forse tra i giornalisti) usa questa interpretazione. Su Twitter in rete si esprime una parte (ancora modesta) dell’opinione pubblica, purtroppo irrilevante rispetto alle dinamiche politiche. I politici non sono in ascolto nemmeno dentro questi “ambienti” digitali. Figuriamoci se si facevano guidare, influenzare dalla pressione di alcune persone che esprimevano il proprio dissenso a colpi di tweet. La verità è che è esplosa una tensione – che ha radici antiche evidentemente – all’interno del Pd. Se twitter avesse influenzato l’elezione ora avremmo Rodotà come Presidente della Repubblica.

Arianna Ciccone, intervistata qui.

L’inseguimento del “grillino”

tgcom24-grillini-pullmanL’amaca di oggi di Michele Serra, consigliata per iniziare la giornata:

Le telecronache dell’inseguimento del pullman grillino lungo raccordi anulari e autostrade sembrano la parodia di un road-movie americano di serie B, manca solamente una autostoppista avvenente e dal passato misterioso. Sembrano. Ma sono, invece, uno spietato documentario sulla impotenza dei media, incapaci di partorire e anche solo di concepire, di fronte alla renitenza grillina, qualunque strategia alternativa. Tutto è meglio di quell’avvilente elemosinare mezza frase, rubare mezza inquadratura, implorare mezza informazione. Meglio il silenzio, meglio mandare in onda un fermo-immagine di Beppe Grillo con musica classica in sottofondo, meglio un comunicato sindacale, meglio uscire al primo casello e andare a farsi due spaghi, meglio far finta che 5 Stelle non esista. Recuperare credibilità, per i media, vorrebbe dire prima di tutto recuperare dignità e autonomia di linguaggio: più rincorrono trafelati i fuggiaschi, più confermano l’idea grillina che il sistema mediatico, così come è adesso, sia infrequentabile. Quando Grillo caccia dal suo palco il cameraman indesiderato è odioso. Ma quando cameraman, fotografi e cronisti pedinano un autobus mandando in onda se stessi che pedinano un autobus, danno del diritto di cronaca un’idea talmente penosa da metterne a rischio il prestigio e l’urgenza.

‘Giornalismo d’inchiesta’: un po’ di chiarezza

Sono molti gli amici e colleghi che incorrono in denunce per diffamazione usate come avvertimenti morbidi per produrre un abbassamento generale di toni. Il giornalismo d’inchiesta cammina spesso sul crinale della calunnia contestata come prima reazione di chi si sente colpito in malafede e spesso in malafede incorre in un eccesso di difesa per proteggere un’impunità dall’informazione. La “sentenza Gabanelli” che ha sancito l’assoluzione della giornalista di Report ha chiarito molti punti importanti per la professione e più in generale sui confini giuridici della curiosità. Commentandola scrive l’avvocato Sabrina Peron:

La Corte di Cassazione, sezione penale, con la sentenza 27/2/2013 n. 9337, ha confermato l’assoluzione della giornalista Gabanelli, per un’inchiesta trasmessa dal programma Report sulle sofisticazioni dell’olio d’oliva. Secondo la Cassazione il risvolto del diritto all’espressione del pensiero del giornalista costituito al diritto della collettività ad essere informate non solo sulle notizie di cronaca ma anche sui temi sociali di particolare rilievo attinenti alla liberta, alla sicurezza, alla salute e agli altri diritti di interesse generale, sia operativo in concreto. Operativo evidentemente, alla condizione che, il sospetto e la denuncia siano esternati sulla base di elementi obiettivi e rilevanti. Difatti, nel giornalismo d’inchiesta il sospetto che non sia meramente congetturale o peggio ancora calunniatorio, deve mantenere il proprio carattere propulsivo e induttivo di approfondimenti, essendo autonomo e, di per sé, ontologicamente distinto dalla nozione di attribuzione di un fatto non vero.

E, come sottolinea la Peron, anche le sentenze passate tengono il punto:

Le inchieste giornalistiche consistono nel resoconto di attività di scavo, di ricerca ed indagine effettuate allo scopo di portare alla luce «verità nascoste», tramite il collegamento critico e ragionato di fatti, notizie e commenti (cfr. sull’argomento: AMADORE, L’inchiesta, in AA.VV, La professione del giornalista, CDG, Roma 2009, 113). Il giornalismo di inchiesta, è espressione più alta e nobile dell’attività di informazione; con tale tipologia di giornalismo, infatti, maggiormente si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche meritevoli, per il rilievo pubblico delle stesse (Cass. 2010/13269).

Le inchieste si distinguono, a seconda della tipologia, in investigative e conoscitive. Le prime ricercano della verità attraverso la ricostruzione di «vicende oscure le cui responsabilità rappresentano un mistero per la pubblica opinione» (Papuzzi Professione giornalista, Donzelli, 1998, 68). Quelle conoscitive, invece, informano «sulla società e la cultura del tempo in cui viviamo», non riguardano «avvenimenti precisi e specifici, come l’inchiesta di tipo investigativo», indagando invece i «fenomeni che segnano una società (Papuzzi Professione giornalista, cit.).

Al giornalismo di inchiesta, quale species del lavoro giornalistico, deve essere riconosciuta ampia tutela ordinamentale, tale da comportare in relazione ai limiti regolatori, dell’attività di informazione, qualegenus, già individuati dalla giurisprudenza di legittimità, una meno rigorosa e comunque diversa applicazione dell’attendibilità della fonte, fermi restando i limiti dell’interesse pubblico alla notizia e del linguaggio continente, ispirato ad una correttezza formale; è, infatti, evidente che nel giornalismo di inchiesta, viene meno l’esigenza di valutare l’attendibilità e la veridicità della provenienza della notizia, dovendosi ispirare il giornalista, nell’“attingere” direttamente l’informazione, principalmente ai criteri etici e deontologici della sua attività professionale, quali tra l’altro menzionati nell’ordinamento ex lege n. 69/1963 e nella Carta dei doveri (con particolare riferimento alla Premessa). Ne consegue che detta modalità di fare informazione non comporta violazione dell’onore e del prestigio di. soggetti giuridici, con relativo discredito sociale, qualora ricorrano: l’aggettivo interesse a rendere consapevole l’opinione pubblica di fatti ed avvenimenti socialmente rilevanti; l’uso di un linguaggio non offensivo e la non violazione di correttezza professionale. Inoltre, il giornalismo di inchiesta è da ritenersi legittimamente esercitato ove, oltre a rispettare la persona e la sua dignità, non ne leda la riservatezza per quanto in generale statuito dalle regole deontologiche in tema di trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica (Cass. 2010/13269).

E’ noto che giurisprudenza consolidata ritiene che il diritto di informazione possa esercitarsi anche qualora ne derivi una lesione dell’altrui reputazione, prestigio o decoro, a condizione che si tratti di un argomento di pubblico interesse (c.d. pertinenza), che siano rispettati i limiti dell’obiettività e della correttezza della forma espressiva (c.d. continenza) e che l’informazione sia sostanzialmente veritiera; quest’ultimo in uno con il conseguente dovere di esaminare, verificare e controllare – in termini di adeguata serietà professionale – la consistenza della relativa fonte di informazione (ex multis Cass. 5081/2010).

L’art. 21 Cost. – analogamente all’art. 10 CEDU – non protegge unicamente le idee favorevoli o inoffensive o indifferenti, nei confronti delle quali non si pone alcuna esigenza di tutela, essendo al contrario principalmente rivolto a garantire la libertà proprio delle opinioni che urtano, scuotono o inquietano (Cass. 25138/2007).

Sulla base di tale principio, la recente sentenza della Corte di cassazione che qui si pubblica, ribadisce che il «giornalismo di denuncia è tutelato dal principio costituzionale in materia di diritto alla libera manifestazione del pensiero, quando indichi motivatamente e argomentatamente un sospetto di illeciti, con il suggerimento di una direzione di indagine agli organi inquirenti o una denuncia di situazioni oscure che richiedono interventi normativi per poter essere chiarite».

Dunque – salvo il caso in cui il sospetto sia obiettivamente del tutto assurdo, e sempreché sussista anche il requisito del’interesse pubblico all’oggetto dell’indagine giornalistica – l’operato dell’autore del servizio è destinato a ricevere una tutela primaria rispetto a colui su cui il sospetto è destinata eventualmente a ricadere.

Come da tempo enunciato dalla giurisprudenza, l’interesse pubblico «è qualcosa di profondo e di serio, rivolto come esso è a permettere al lettore di rendersi conto delle situazioni di vita narrate al solo fine più generale della possibilità concreta d’insegnamento per la collettività e di miglioramento della convivenza, onde la pretesa coincidenza tra interesse sociale ed esigenze del pubblico può anche mancare» (App. Roma, 16.01.1991, FI, 1992, I, 942).

In particolare il «risvolto del diritto all’espressione del pensiero del giornalista costituito al diritto della collettività ad essere informate non solo sulle notizie di cronaca ma anche sui temi sociali di particolare rilievo attinenti alla liberta, alla sicurezza, alla salute e agli altri diritti di interesse generale, sia operativo in concreto. Operativo evidentemente, alla condizione che, il sospetto e la denuncia siano esternati sulla base di elementi obiettivi e rilevanti. Difatti, nel giornalismo d’inchiesta il sospetto che non sia meramente congetturale o peggio ancora calunniatorio, deve mantenere il proprio carattere propulsivo e induttivo di approfondimenti, essendo autonomo e, di per sé, ontologicamente distinto dalla nozione di attribuzione di un fatto non vero».

Per questo la sentenza vale la pena leggerla e conservarla (se volete da qui: Cass 9337 2013 giornalismo inchiesta)

L’informazione si può fare quando ci si occupa della “casta”?

Beppe-GrilloScrivevo proprio qui qualche giorno fa delle normalizzazioni e delle strumentalizzazioni che Beppe Grillo (con la solita intelligenza utile) scrive per difendersi. Dicevo, appunto:  E’ la politica, bellezza. Stavate arrivando e ora siete arrivati.

Stefano Feltri riprende il tema (partendo proprio da qui) e lo sviluppa in modo interessante. Vale la pena leggerlo:

Benvenuto in politica, caro Beppe Grillo. Quando uno diventa un personaggio pubblico, specie se il più noto, deve dare per scontato che della sua vita tutto, ma proprio tutto, verrà analizzato e raccontato.
Sono le regole base dell’informazione e del giornalismo – quello più sano – che trova notizie e le racconta, lasciando poi al lettore il compito di farsi un’opinione. Funziona così, anche se chi magari vive soltanto sui blog, immune da ogni input sgradito, non se lo ricorda più.

L’Espresso, ormai lo saprete, ha rivelato che l’autista-factotum di Grillo, Walter Vezzoli, ha aperto diverse società in Costa Rica per costruire un fantomatico restort eco sostenibile mai realizzato, in compagnia della cognata di Grillo (all’epoca compagna di Vezzoli) e di un imprenditore accusato – e assolto – per traffico internazionale di droga.
L’inchiesta de L’Espresso, firmata da Vittorio Malagutti, Nello Trocchia e Andrea Palladino (il primo fino a poco tempo fa cronista finanziario di punta del Fatto Quotidiano, gli altri due collaboratori sia del Fatto che dell’Espresso) è, appunto, un’inchiesta. Che racconta una storia interessante, come dimostra il fatto che tutti ne stiano parlando, e che quindi meritava eccome di essere pubblicata.

La risposta di Grillo sul suo blog
 è, come prevedibile, la replica di un politico piccato, che non nasconde il suo disprezzo per i giornalisti (in questo Beppe ricorda Massimo D’Alema). E che non spiega nulla, non chiarisce e non replica a tono. E’ solo un Vaffanculo, difficile forse aspettarsi altro. Versione 2.0 del vecchio “Io sono io e voi non siete un ….”

Andiamo al sodo.

Grillo sfotte i giornalisti dell’Espresso invitandoli ad andare su Wikipedia per scoprire che “sociedad anonima” è l’equivalente di una semplice società per azioni. 
Visto che alcuni giornalisti hanno letto anche altro, oltre a Wikipedia, sanno che il punto non è questo: in Italia basta una semplice visura per scoprire chi c’è dietro a una società per azioni. Per esempio sul sito www.lince.it.
In altri Paesi – basti ricordare il caso di Santa Lucia e la vicenda dell’appartamento del cognato di Gianfranco Fini – invece è impossibile risalire ai soci. Quindi la società è davvero anonima, non soltanto nel senso che esiste come entità giuridica autonoma rispetto agli azionisti.

Per questo sono paradisi fiscali: perché quando una società non è riconducibile a nessuno, è libera di fare quello che vuole. Tutti i grossi scandali italiani, tipo quello del Banco Ambrosiano, sono passati per società di quel tipo.

Grillo richiama i cronisti alla “verifica delle fonti”, sostiene che la Costa Rica non è più nella lista dei paradisi fiscali dal 2011.
Ma Grillo, oltre alle fonti, dovrebbe leggere anche gli articoli: nell’intervista al Fatto Vezzoli dice che aveva aperto quelle società quando pensava di costruire un villaggio eco sostenibile nel 2007. Quattro anni prima che il Costa Rica passasse dalla black alla grey list dei paradisi fiscali.

Quindi le risposte di Grillo, oltre che un po’ supponenti, sono inutili
E le domande che solleva l’inchiesta dell’Espresso restano tutte in campo:

– Perché l’autista di Grillo apre 13 società in Costa Rica? Accettiamo la sua spiegazione: abitava lì e quindi ha seguito il diritto locale. Ma perché 13? A cosa servivano? Non ne bastava una? Chissà.
– Non so voi, ma se io pensassi di costruire un resort in un paradiso turistico, prima mi porrei il problema della fattibilità del progetto, poi cercherei i finanziatori e alla fine aprirei delle società.Perché Vezzoli fa il contrario? Una spiegazione ci sarà, ma lui, che al Fatto dice “non avevo un centesimo”, non la fornisce. E se “non aveva un centesimo”, chi ha versato il capitale sociale? Per 13 società ci vogliono alcune decine di migliaia di dollari.
– Grillo sapeva che il socio del suo autista era un tizio, Enrico Cungi, accusato di traffico internazionale di droga? Non è stato condannato, ma è stato estradato in Italia e condannato in primo grado per aver venduto due grammi di cocaina (non risultano condanne successive, quindi si immagina poi assolto). Nel link postato da Grillo si legge che il Costa Rica è uno degli snodi chiave del traffico internazionale di coca. Grillo si è mai informato sui rapporti tra il suo autista-factotum e Cungi? Non ce lo spiega.
– Quelle società sono poi state chiuse? In caso contrario, che senso hanno e che funzione hanno svolto? L’Espresso nota che la società Ecofeudo, per il progetto del mai realizzato resort, è ancora attiva. A che scopo, visto che Vezzoli dice che quel progetto è abbandonato? Tenere società opache in un (ex) paradiso fiscale ancora molto apprezzato dagli imprenditori per la riservatezza che garantisce non è un bel biglietto da visita per chi predica trasparenza in politica e vuole abolire le scatole cinesi in Borsa (Vezzoli era sul palco di piazza San Giovanni da cui Grillo urlava queste cose).

Nessuno sta facendo illazioni su Grillo (che pure qualche guaio con l’agenzia delle entrate ce l’ha, per una storia di Irap, ma non l’ha mai negato neppure lui). Ma in questi anni abbiamo passato al setaccio i collaboratori di tutti i protagonisti della scena politica (segretarie, portaborse, assistenti ecc.). Ora tocca anche a Grillo.

Ce lo concede, lui e i suoi sostenitori che inondano di insulti e spam chiunque non sia fedele alla linea del movimento, o l’informazione si può fare quando ci si occupa della “casta”?

*aggiornamento*

scopro di conoscere uno dei “fantomatici” soci: lo conosco e mi racconta. Il fatto in sé è una bufala buona per un dossier che duri qualche giorno. Ecofeudo è l’ennesimo sperimento di alcuni ragazzi (non li conosco tutti) molto “spericolati” nelle loro visioni. E’ un’idea, un sito e niente più. E una società che costa (lì) poco e niente di apertura e zero di mantenimento.

 

 

Nessuno è LIBERO di diffamare

2013-01-31-liberoMa c’è un limite che nessuna strategia può travalicare, al di là dei casi specifici, che valgono per chiunque, a destra come a sinistra, e a cui bisogna comunque concedere la possibilità di chiarire e spiegare. Quel limite è rappresentato dalla verità. Una notizia pubblicata in prima come in ultima pagina deve contenere un minimo di verità, anche una briciola, un pizzico, avere quantomeno un fondamento concreto. È la base del giornalismo. Ma, ripeto, c’è giornalismo e giornalismo. Giulio Cavalli si è trovato in mezzo alle frecce sudice di un giornalismo mistificatore e moralmente infimo. Il consigliere di Sel, l’uomo che ha sfidato la ‘ndrangheta a Milano e in Lombardia, una mattina di gennaio (il 31) ha trovato la sua foto in prima pagina, messo in mezzo a quelli che il quotidiano di Belpietro definisce “gli impresentabili”, ossia i consiglieri indagati per il caso delle spese folli in Regione.

Una riflessione di Massimiliano Perna. Da leggere.

Scriva. Sempre.

Scriva. Sempre. Tutti i giorni. Un tweet, un post, una lettera, un articolo. Rispetto alle generazioni che l’hanno preceduta, ha la fortuna di avere a disposizione uno strumento straordinario: internet. Lo sfrutti. La rete è la sua più grande alleata, per fare ricerche, per entrare in contatto con altri giornalisti, per cominciare a raccontare le sue storie anche se non lavora in un giornale. Cerchi di scrivere in modo chiaro e semplice. Non abbia paura di far rileggere i suoi articoli a qualcuno di cui si fida prima di pubblicarli. Esca. Si guardi intorno. Sia curioso. Faccia domande. Il mondo è pieno di storie incredibili che aspettano solo di essere raccontate. E i buoni giornalisti non saranno mai abbastanza.

I tre consigli di Giovanni De Mauro ad un aspirante giornalista.

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L’equo Ciro e l’equo compenso per i giornalisti

Ciro Pellegrino è un giornalista campano che oltre a raccontare i fatti attraverso il giornalismo ha deciso di raccontare il giornalismo possibilmente compiendo fatti. Ha contribuito alla sensibilizzazione sull’annoso tema dei compensi (quando ci sono) ai giornalisti per pochi euro al pezzo che fanno la fortuna di troppi quotidiani e oggi riporta un piccolo storico passo sull’equo compenso per i suoi colleghi:

Considero fratello chi con me è stato nel fango del lavoro matto e disperatissimo, nel gorgo delle mortificazioni economiche, nel vortice di rabbia che ti prende perché vuoi che la tua vita, un giorno, prenda una strada diversa, una strada giusta, sostenibile. Sono tutte cose tristi. Ma ogni tanto qualche soddisfazione ci esce.

Oggi, martedì 4 dicembre 2012, è stata approvata la legge sull’equo compenso per i giornalisti. Siamo in Italia, parliamo di una legge italiana sui diritti ai lavoratori, parliamo di giornalisti italiani: capisco gli scetticismi. Ma questa legge dice che sotto un certo livello economico gli editori non potranno più scendere. È è la prima volta che una norma sancisce ciò. L’equo compenso dovrebbe essere un concetto di civiltà, non solo una legge per gli iscritti ad un Ordine professionale. Mi piace pensare a questo come il primo passo. Non sono il solo ad averci creduto, ovviamente. Sono la minima parte di un movimento d’opinione costituito dai coordinamenti dei giornalisti precari italiani (quello della Campania, gli Errori di Stampa, i Re:fusi, i Free CCP romagnoli, i precari del Friuli, quelli del Molise e chi più ne ha, ne metta), dall’Ordine dei Giornalisti – e penso a Enzo Iacopino e Fabrizio Morviducci – da una parte della Fnsi, il sindacato dei giornalisti (l’altra parte sinceramente non ha remato contro, semplicemente se n’è fottuta) e anche da parlamentari italiani che hanno sposato quest’idea.

Non so se riesco a far comprendere la mia soddisfazione: a 35 anni non avrei mai pensato di contribuire, seppur modestamente, a scrivere una legge dello Stato. Eppure l’ho fatto, l’ho fatto diffondendo una idea di fondo, quella che il giornalista è come tutti gli altri lavoratori. Non più “sempre meglio che lavorare”, niente “casta”. Ma lavoratori, con tanti doveri e responsabilità che tutti – lettori e colleghi – non cessano di ricordare ogni santo giorno. Lavoratori con qualche diritto fondamentale che non può, non deve essere esclusivamente legato all’esistenza di un contratto giornalistico, merce ormai rarissima e in mano a pochissimi fortunati. (Altro su: http://www.giornalisticamente.net/blog/#ixzz2E7wiUQw8).
Equo compenso

Tra teatro civile, memoria e impegno: sabato ci vediamo nel nostro Piccolo Nebiolo

Per il nostro piccolo e impegnativo (e impegnato) Centro di Documentazione Teatro Civile ci vediamo sabato con Daniele Biacchessi, Tiziana Di Masi, Massimo Priviero (e me) per discutere della bella iniziativa dell’Associazione Arci Ponti di Memoria.

In tempi bui di cultura e teatro forse è davvero il momento di fermarsi a pensare, pensarci e ripensarci se è il caso. Ci si vede lì.

Ecco il comunicato del nostro Piccolo Teatro Nebiolo:

Il prossimo appuntamento con la Stagione del Teatro Nebiolo è SABATO 1 DICEMBRE alle ore 21:00. DANIELE BIACCHESSI, GIULIO CAVALLI, TIZIANA DI MASI E MASSIMO PRIVIERO, diversi ospiti insieme a Tavazzano che, partendo dalle esperienze di teatro, musica e giornalismo, racconteranno il progetto dell’associazione “Ponti di memoria”. Una serata per riflettere sul valore della memoria.

Partendo dal lavoro svolto dal Centro di Documentazione per il Teatro Civile, dagli incontri organizzati, dai temi affrontati, discussi e approfonditi, non poteva mancare a Tavazzano una serata dedicata al valore della memoria. Prendendo spunto dalla nascita dell’Associazione Ponti di Memoria, il Nebiolo dedica una serata alla memoria, strumento fondamentale per leggere e rispondere agli stimoli che ci offre il presente. Memoria storica, ma anche impegno civile e sociale, ne parleranno con il pubblico il giornalista e autore Daniele Biacchessi (presidente della neo nata Associazione), Giulio Cavalli e Tiziana Di Masi che si soffermeranno sulla propria esperienza teatrale e il musicista Massimo Priviero.

Vi aspettiamo SABATO 1 DICEMBRE ore 21:00 – Incontro Centro di Documentazione per il Teatro Civile

Ponti di Memoria Con Daniele Biacchessi, Giulio Cavalli, Tiziana Di Masi E Massimo Priviero

Ingresso libero INFO: Teatro Nebiolo, Tavazzano Con V. (Lo) Via 4 Novembre, Snc. BIGLIETTERIA: orario per informazioni e prenotazioni LUN/VEN dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 18. RECAPITI: tel. 0371.761268, cel. 331.9287538, m@il info@teatronebiolo.org  sito www.teatronebiolo.org