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guerra

Una via o una piazza per Enzo Baldoni

Un’ottima idea e un’ottima petizione non solo per fare memoria ma soprattutto per evitare che venga sporcata, perché il fango a volte riesce ad essere peggiore dell’oscurantismo. La trovate qui.

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Srebrenica non ha ancora finito di seppellire i suoi morti

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Dopo aver letto del massacro per anni, dopo aver visto centinaia di fotografie e altrettanti video, volevo confrontarmi con quello che è venuto dopo. Come ho detto Sarajevo non offriva più gli spunti classici. Mentre Srebrenica sì, visto che da quasi 18 anni è meta del ritorno delle famiglie delle vittime. Volevo confrontarmi non più tanto con il massacro che è stato, quanto con il ritorno delle persone che avviene ogni anno. Ogni luglio, le vedove, i figli e le figlie degli uomini uccisi a Srebrenica tornano per seppellire i resti dei loro cari disseppelliti negli anni.

Quello che ci permette di mettere insieme un progetto a così tanto tempo di distanza è il fatto che solo 5.000 bare siano state interrate, su un totale di 8.000 vittime accertate. Una settimana dopo il massacro, i serbi sono rientrati nel villaggio con dei bulldozer, hanno riaperto le fosse comuni e hanno cercato di insabbiare tutto, spostando i cadaveri in altre zone della Bosnia. Così facendo, i corpi sono stati maciullati nonché resi irriconoscibili. Alcuni sono stati messi in cisterne d’acqua, ad esempio, a marcire. Ovviamente rimettere insieme dei cadaveri richiede tempo. Ci sono famiglie che, ad oggi, hanno ritrovato solo un braccio o un teschio del proprio caro. Trovare il 100 percento di un corpo a Srebrenica è impossibile. Il lavoro di ricomposizione dei corpi spetta all’International Center for Missing Persons (ICMP), che da anni non fa che recuperare i resti, fare test del DNA e avvertire le famiglie quando qualcosa viene trovato. Se la famiglia decide che è abbastanza, si procede con il funerale. Ecco cosa avviene ogni anno: un funerale di massa.

Mattia Vacca intervistato da Matteo Congregalli (via)

Voi che domani sarete ancora vivi, che cosa state aspettando? Perché non amate abbastanza? Voi che avete tutto, perché avete così paura?

Io non so se ci si possa perdonare di non riuscire a sentire le guerre. Se davvero abbiamo il cuore così stretto e l’intelligenza così strabica da non occuparci di quello che succede in tutti i luoghi così dissimili da noi. Forse il nostro federalismo è una legittimazione di un egoismo che non vogliamo combattere perché ci risulta faticoso o forse perché la borsa delle preoccupazioni è già colma delle sole cose vicine.

Comunque: in Siria c’è la guerra. Guerra vera, guerra per strada senza armi troppo artificiali e con i bambini maciullati per terra. Guerra a morsi ma con troppo poco petrolio per diventare internazionale. Guerra raccontata come sappiamo s-raccontare noi quando vogliamo essere coccolati nella rassicurante idea collettiva delle guerre e della morte.

Francesca Borri, freelance in Siria, prova a chiedere una riflessione sulla narrazione della guerra e, sopratutto, sul ruolo dell’informazione:

Ma siamo reporter di guerra, dopo tutto, o no? Una band of brothers (e sisters). Rischiamo la nostra vita per dare voce ai senza voce. Abbiamo visto cose che la maggior parte delle persone non vedrà mai. Siamo un bel repertorio di storie per quando siete a tavola, gli ospiti cool che ognuno vuole invitare. Ma la sporca verità è che invece di essere uniti, siamo i nostri peggiori nemici; e il motivo per cui un pezzo viene pagato 70 dollari al pezzo non è che non ci sono soldi, perché ci sono sempre soldi per un pezzo sulle fidanzate di Berlusconi. La vera ragione è che se uno chiede 100 dollari, c’è qualcun altro che è pronto a farlo per 70. È la concorrenza più feroce. Come Beatriz, che oggi mi ha segnalato la strada sbagliata così sarebbe stata l’unica a coprire la manifestazione, e mi sono trovata in mezzo ai cecchini per colpa del suo inganno. Solo per coprire una manifestazione, come centinaia di altri.

Ma facciamo finta di essere qui per far sì che nessuno potrà dire “Ma non sapevo che cosa stava accadendo in Siria”. Quando in realtà noi siamo qui solo per ottenere un premio, per ottenere visibilità. Noi stiamo qui a competere l’uno contro l’altro come se ci fosse un Pulitzer alla nostra portata, quando invece non c’è assolutamente nulla. Noi siamo schiacciati tra un regime che ti concede un visto solo se sei contro i ribelli, e i ribelli che, se tu stai dalla parte loro, ti permettono di vedere solo quello che vogliono farti vedere. La verità è che siamo dei falliti. Due anni dopo, i nostri lettori a malapena si ricordano dove è Damasco, e il mondo istintivamente descrive ciò che sta accadendo in Siria come “quel caos”, perché nessuno capisce nulla di Siria — solo sangue, sangue, sangue. Ed è per questo che i siriani non ci possono vedere ora. Perché mostriamo al mondo foto come quella bambino di sette anni con una sigaretta e un kalashnikov. È chiaro che è una foto artefatta, ma è apparsa sui giornali e siti web di tutto il mondo a marzo scorso, e ognuno poteva urlare: “Questi siriani, questi arabi, che barbari!” Quando sono arrivata qui, i siriani mi fermavano e mi dicevano: “Grazie che state mostrando al mondo i crimini del regime”. Oggi un uomo mi ha fermato, e mi ha detto: “Vergognati”.

Se davvero avessi capito qualcosa della guerra, non avrei dovuto dimenticarlo cercando di scrivere di ribelli e lealisti, sunniti e sciiti. Perché davvero l’unica storia da raccontare in guerra è come vivere senza paura. Tutto potrebbe finire in un istante. Se l’avessi saputo, non avrei avuto così paura di amare, di osare, nella mia vita; invece di essere qui, ora, a stringere me stessa in questo angolo buio, rancido, a rimpiangere disperatamente tutto quello che non ho fatto, tutto quello che non ho detto. Voi che domani sarete ancora vivi, che cosa state aspettando? Perché non amate abbastanza? Voi che avete tutto, perché avete così paura?

 

 

Il drone che sgancia poesie

Il poeta David Shook ha lanciato una raccolta fondi per costruire droni che sgancino poesie piuttosto che bombe. Il progetto è qui.

Questa la presentazione:

Le riflessioni su guerre e pace invece sono strettamente personali. Ma urgenti.

Se armi la pace, ami la guerra

Siamo convinti che anche l’impegno sottoscritto dalla mozione approvata ieri in parlamento di limitarsi alla realizzazione dei tre F35 già acquistati è una decisione errata perché sottrae risorse necessarie ai settori di primaria importanza per la nostra società come educazione, sanità, welfare, ambiente, cultura e occupazione.

Crediamo inoltre che il conseguimento della pace non si raggiunge attraverso l’impiego di nuovi e sofisticati sistemi d’arma, al contrario esige un processo di disarmo e di riduzione delle spese militari, la promozione della giustizia e lo sviluppo sociale, l’impiego di metodi di non violenza attiva e il dialogo. Tutto ciò è suggerito anche dall’insegnamento della dottrina sociale della chiesa cattolica ripetutamente sottolineato anche dai pontefici in questi ultimi cinquant’anni. “La guerra è avventura senza ritorno” – ammoniva Papa Giovanni Paolo II – parole a cui fanno eco quelle di Papa Francesco “La guerra è il suicidio dell’umanità”.

Le risorse impiegate per il riarmo non solo hanno un enorme e ingiustificato costo sociale, sono un ostacolo per la sicurezza e la pace tra le nazioni che mai si possono realizzare con l’uso della forza e la violenza.

Poche parole, chiare da quelli di Nigrizia.