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Hotel Rigopiano

«Mi chiamo Giorgia, e sono viva»

(Giorgia, sopravvissuta all’Hotel Rigopiano, parla con Marco Imarisio (Corriere della Sera, qui) e vale la pena leggerla:)

«Mi chiamo Giorgia, e sono viva». Alle undici di venerdì mattina la vita in scatola finisce con questa frase. «Ci chiedevano chi c’era. Cercavano di capire chi c’era sotto, e noi rispondevamo con i nostri nomi». Adesso la ripete, ma sottovoce, con pudore. Nel letto accanto a lei dormono donne e bambini che non sanno ancora se potranno rivedere i genitori o i fidanzati che erano con loro. «Ho perso la cognizione del tempo, e non l’ho ancora ritrovata. Credo che sia durata due giorni, forse qualcosa di più». Sono quasi 58 ore. Giorgia Galassi, studentessa universitaria, le ha trascorse in un ambiente angusto e ovattato, insieme al fidanzato Vincenzo Forti, titolare di una pizzeria sul lungomare di Giulianova, entrambi convinti di essere in qualche modo sopravvissuti a quello che loro chiamano «il terremoto devastante». Avevano deciso di partire perché non ne potevamo più di quelle scosse. «Io soprattutto, mi ero convinta che sarebbe arrivata la botta definitiva. Avevo paura, insomma». Alle 17.40 di venerdì sono nella hall del Rigopiano, seduti su un divano di vimini davanti al camino, bevendo una tazza di thé, in attesa che qualcuno gli dica come e quando partire. «Poi ci è crollato tutto addosso e non ci ho capito più niente». Quando si riprendono sono per terra, con qualche livido. La sala dell’albergo è diventata una cupola che contiene quattro gabbie, che comunicano tra loro dall’alto, ma sono isolate dall’esterno. «Eravamo completamente tagliati fuori e non sentivamo alcun suono. Le nostre voci rimbombavano, e Vincenzo mi spiegava che era l’effetto della neve, una specie di cassa di risonanza. Avevo proprio questa sensazione di essere chiusa in una scatola, con la neve sopra che copriva ogni rumore. Non ho sentito niente per tutto quel tempo. Solo le voci che venivano da dentro». L’urto della valanga li ha spostati di almeno una decina di metri rispetto al posto dove si trovavano. Il grande camino è l’unico punto di riferimento di un panorama interno completamente stravolto. Il freddo non è così intenso.

All’improvviso lo spazio è diventato ristretto

All’improvviso lo spazio è diventato ristretto, da dividere per quattro. «Avevamo la sensazione che l’impatto ci avesse fatto sprofondare per terra». È la prima cosa che si dice con gli altri ospiti di quell’ambiente. «Ci siamo trovati vicino a una ragazza che cercava il fidanzato e un altro uomo di Roma, che era stato colpito sul braccio da una trave e aveva molto male. Ma soprattutto eravamo in comunicazione con una mamma che aveva con sé il bambino, e cercava a voce alta sua figlia». La ragazza si chiama Francesca, ed era anche lei nella sala del camino, adesso è finita in uno spazio angusto. Riesce a comunicare con gli altri, ma non a toccarli. «Era buio pesto» racconta dal letto della sala di rianimazione accanto a quello di Giorgia. «Abbiamo deciso di fare luce con i telefonini, azionandoli tutti insieme».

Nell’oscurità nessuno vede niente

Le prime ore trascorrono cercando di capire la collocazione delle voci. Se loro, i quattro adulti, sono nella sala del camino, vuol dire la mamma e il suo bambino, che poi sono Adriana Parete e il suo primogenito di otto anni, sono nella zona della cucina, mentre i bambini che gridano tutti insieme devono per forza essere vicini al biliardo. E tutti gli altri, che sono tanti, il resto degli ospiti che dovevano partire, sono rimasti nella sala garden, piena di piante, nell’ambiente che doveva essere il punto di ritrovo. Ma nell’oscurità nessuno vede niente. Francesca piange, chiede del suo fidanzato, che non vede più. Adriana si stringe al figlio. Giorgia la sente che gli fa coraggio, anzi si fanno coraggio a vicenda. «Ma tutti i bambini si sono comportati davvero bene, non li ho mai sentiti piangere, almeno credo». A lei viene da piangere, più di una volta. Succede soprattutto al mattino del giorno dopo. «Quando mi sveglio all’improvviso, non vedo e non sento nessuno». Urlano, e non poco, per darsi la sveglia, per contarsi a vicenda. «Vincenzo, il mio fidanzato, invece non ha mai avuto dubbi. Ci ha tenuto su, tutti, non solo me. È stato la forza di tutto il gruppo. Ogni tanto lo sentivo che sussurrava qualche canzone, lo faceva per farci stare tranquilli». L’adrenalina chiude lo stomaco, la fame è solo un’ipotesi remota, Giorgia non mangerà neppure dopo il ricovero. «Zero cibo. L’unica cosa che abbiamo mangiato è stato il ghiaccio che avevamo intorno. Abbiamo potuto bere molto, e quella è stata la nostra forza». Adriana e il suo bambino cominciano a stare male, anche se la donna non vuole mostrarlo ai suoi compagni di disavventura. Il piccolo ha paura dei rumori. L’intera struttura sembra scricchiolare.

Francesca è quella che soffre di più

Francesca è quella che soffre di più. Non riesce neppure a stare in piedi per via di una trave che la separa dagli altri. Un paio di telefonini si scaricano. Giorgia si addormenta nelle braccia del fidanzato, ma non sa dire quanto dura il suo sonno. «Quando mi sono svegliata ero più convinta, mi sembrava che il peggio fosse passato. Vincenzo non ha mollato un secondo, e mi ha sorretto, anche se abbiamo passato la maggior parte del tempo seduti sul divano oppure sdraiati ai suoi piedi». Alle 11 di venerdì un rumore meccanico che non dura molto, e poi le voci. E la sua risposta. Sono Giorgia, e siamo vivi. «Ci spiegano tutto. Chi esce per primo, come ci verranno a prendere. Non ci mollano un attimo, si alternano a parlarci. A un certo punto glielo diciamo anche: guardate che ci fidiamo di voi, siamo tranquilli, possiamo aspettare. Fanno un lavoro incredibile, sono gente pazzesca». Adriana e suo figlio escono per primi, dall’alto. Ormai il lieto fine è scritto, almeno per i due ragazzi di Giulianova, è solo questione di tempo. Li vengono a prendere da sotto, trascinandoli fuori per i piedi. Mancano pochi minuti alle 4 di notte. Giorgia e Vincenzo si ritrovano di nuovo insieme agli altri, in una stanza del reparto di rianimazione. Accanto a loro Francesca dorme e piange. Giampaolo Matrone, «il romano», è stato operato al braccio destro. Anche lui aspetta qualcuno, così come altri due bambini. La voce si Giorgia si fa sempre più bassa. La scatola si è finalmente aperta. Ma non tutti possono vedere la luce del giorno.

Hotel Rigopiano, le ore del disinganno

(il reportage di Gabriella Cerami per HP)

La giornata della disillusione. Si cammina nervosamente nella fredda sala d’attesa del pronto soccorso di Pescara. Si cammina, ci si abbraccia, si prega, ci si dispera. È proprio l’attesa, questa lunga ed estenuante attesa, che unisce ormai da oltre settantadue ore i parenti delle persone sommerse dalla slavina che ha colpito l’hotel Rigopiano. Il papà di Stefano Faniello, con un berretto blu in testa e circondato dagli amici, piange mentre varca la porta per incontrare i medici. Piange perché il nome del figlio ieri sera compariva nella lista ufficiale delle persone vive da estrarre dalle macerie. Oggi sarebbe stato il giorno dell’abbraccio e invece di Stefano non si hanno notizie. La fidanzata Francesca Bronzi, salvata ieri, dal suo lettino del reparto chiede di lui: “Mia figlia sta bene ma vuole sapere di Stefano”, racconta il papà Gaetano, felice di avere Francesca accanto sana e salva ma con questo senso di angoscia. L’angoscia di chi si era illuso e adesso si sente ingannato: “Com’è possibile che c’era stato detto che era vivo?”.

Lassù, a Rigopiano, si continua a scavare in condizioni avverse e con oltre cinque metri di neve. “Si continua a lavorare con grande determinazione, con grande forza, con grande professionalità e con ogni mezzo per trovare le persone che sono lì sotto. Noi continuiamo a coltivare speranza”, dice il viceministro dell’Interno, Filippo Bubbico, dopo aver incontrato i familiari. “Arrabbiati? Hanno ragione ad essere arrabbiati, perché soffrono”, risponde. In realtà qualcosa non ha funzionato. Lo dice anche Francesca Bronzi che ha criticato, viene riferito dai parenti, “la mancanza di organizzazione e di informazioni ufficiali”. Stanca, provata, “non avevamo cibo, non avevamo acqua, mi trovavo in uno spazio piccolissimo e mangiavo la neve”, spera che sotto quella neve, diventata ghiaccio, ci sia ancora il suo Stefano, come le era stato promesso. Ma adesso, nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Pescara, dove vengono portati i sopravvissuti, lui non c’è.

Poco più in là sbuca da una porta scorrevole lo zio di Samuel: “Io devo dire qualcosa a mio nipote. Gliela devo dire”. Il bimbo di sette anni chiede di mamma e papà, che solo ieri erano stati considerati tra le persone sopravvissute e oggi invece sono di nuovo nella lista dei dispersi. Era stato il primo cittadino di Osimo, citando fonti della polizia e familiari a dare la notizia che l’intera famiglia Di Michelangelo ce l’aveva fatta. E invece si spera e si attende ancora, mentre sale la rabbia di chi non riesce ad avere notizie, e se ne ha sono poche e confuse: “Ogni quattro ore dovrebbero dirci qualcosa, e invece niente. Dov’è il prefetto?”, è arrabbiatissimo lo zio Alessandro.

Ricoverata c’è anche Giampaolo Matrone, lui è salvo, è vivo, è fuori dalle macerie. Lei, Valentina Cicioni, è ancora dispersa. Nessuno vuole dare voce al terrore che si avveri l’ipotesi peggiore. La speranza dà forza ad amici e parenti della coppia trentenne di Monterotondo, hinterland romano, che martedì scorso aveva lasciato la figlioletta ai nonni per cercare un po’ di relax tra i monti dell’Abruzzo.

Composti, silenziosi. Seduti sui gradini di questa enorme sala d’attesa ci sono una ventina di ragazzi. Circondano Piergiovanni Di Carlo, non lo hanno mai lasciano solo in questi tre giorni, ieri hanno gioito con lui, oggi sono di nuovo sconvolti e increduli. “Siamo compaesani, gli amici della piazza di Loreto Aprutino”, racconta uno di loro al bar mentre sorseggia una coca cola: “Ieri avevano detto che insieme al piccolo Edoardo si erano salvati anche la mamma e il papà, e invece…”. E invece oggi il fratello più grande ha dovuto riconoscere il corpo senza vita della mamma Nadia. Del papà Sebastiano non si hanno notizie.

E pensare che la zia Simona, ieri, aveva portato la pizza per tutti i parenti e gli amici in attesa: “Sono salvi, sono salvi, me lo hanno confermato”, ha detto a cronisti e telecamere. Il clima era diverso, gli stessi ragazzi ridevano e scherzavano, in una notte poi è cambiato di nuovo tutto e nessuno si aspettava questo epilogo. “Edoardo sta bene”, racconta ancora uno degli amici: “Ha chiesto al fratello grande, Riccardo, se può avere dei giocattoli. Vuole giocare, sta bene, forse lo ha capito, forse no”. È una barriera di protezione quella attorno a Piergiovanni, che abbassa lo sguardo a terra quando qualcuno si avvicina dicendo: “Speriamo per papà”. Gli amici si stringono tutti in un abbraccio, con al centro lui, pacche sulle spalle di incoraggiamento: “Dobbiamo aspettare domani”. Forse qualche giorno in più. Intanto tutti i parenti sono stati portati in un’altra sala dell’ospedale. Questa volta al caldo. Ancora ad attendere.

«Come è lassù?» «Non c’è più niente»: un reportage per capire di più su Rigopiano

(un reportage da incorniciare dell’Ansa)

Quando finalmente sono arrivati lassu’, a 1.200 metri, in molti sono scoppiati in lacrime: 20 ore di fatica bestiale arrancando tra muri di neve e un vento gelido per trovare un pugno di macerie. Vigili del fuoco, poliziotti, carabinieri, uomini del Soccorso Alpino e della Guardia di Finanza, medici, paramedici e volontari della Protezione Civile hanno impiegato una notte intera per raggiungere l’hotel Rigopiano, una notte infernale e assurda, fatta di dolore e ingegno per risolvere i problemi.
Il loro viaggio e’ cominciato verso le 18 di ieri, quando l’allarme lanciato da Giampiero Parete, uno dei due sopravvissuti, e’ arrivato nelle centrali operative. “C’e’ un hotel completamente isolato in una frazione di Penne”, e’ stata la prima comunicazione. Le colonne si sono mosse dall’Aquila e da Pescara, ma subito ci si e’ resi conto che salire i tornanti che da Penne portano nel cuore del Gran Sasso, sarebbe stata un’impresa. Da Penne all’hotel, infatti, sono meno di 25 chilometri, massimo mezz’ora di macchina in condizioni normali. Ma non oggi: usciti dal paese, ogni 500 metri la neve aumenta di 20 centimetri. Imboccato il bivio per Fivirola, l’ultimo paesino prima dell’hotel, il silenzio e’ totale, come il manto bianco che avvolge tutto e che raggiunge il metro d’altezza. I mezzi passano a fatica, alcuni con le catene montate a tutte e quattro le gomme, ma passano. Attorno alle 19 le avanguardie gia’ sono in contrada Cupoli, quattro case e un bar dove abitano anche alcuni dei dipendenti dell’albergo: mancano solo 11 km al Rigopiano ma la neve raggiunge i due metri e i telefoni cellulari non prendono: i soccorritori parlano tra loro e con le rispettive centrali soltanto via radio.
Ed e’ qui che inizia l’odissea, quella vera. Fatti i due primi tornanti, il muro di neve ai bordi della provinciale copre completamente i cartelli stradali; la strada e’ ridotta ad un’unica carreggiata: se passa qualcuno nel verso opposto bisogna fare centinaia di metri in retromarcia nella neve e, in diversi punti, gli alberi crollati per la troppa neve riducono ancora l’asfalto percorribile. Si decide cosi’ di fermare i mezzi pesanti, si va avanti solo con le campagnole. Ad aprire la strada e’ una turbina, una macchina che serve a strappare la neve dall’asfalto e spararla di lato.
Attorno alle 22 i mezzi imboccano l’ultimo tratto di strada, i 9 km dal bivio di Rigopiano all’albergo. E dietro la prima curva l’avanzata s’arresta: la macchina incontra alberi e rami sulla sua strada. Se prosegue, la fresa – che impiega un’ora per fare 700 metri – si rompe e addio hotel. Tocca ai vigili del fuoco con le motoseghe, aprire la strada. Sotto la neve che continua a cadere e con almeno 5 gradi sotto zero. Cosi’, non s’arriva. Quattro uomini del Soccorso Alpino della Guardia di Finanza e del Soccorso Alpino civile, a mezzanotte, si sganciano. Con gli sci con le pelli di foca ai piedi cominciano a salire, lentamente, tra la bufera di neve. Quattro ore d’inferno. “Siamo arrivati stamattina verso le 4 – racconta il maresciallo della Gdf Lorenzo Gagliardi – abbiamo dovuto utilizzare gli sci d’alpinismo per scavalcare i muri di neve. In alcuni punti non si vedeva neanche dove fosse la strada”. E quando arrivano su capiscono che la situazione e’ drammatica. Ma e’ ancora buio pesto e non possono rendersi conto di quel che li’ attendera’ poche ore dopo. Riescono, pero’, a raggiungere i due sopravvissuti, Fabio Salzetta e Giampiero Parete, che solo per un caso si trovavano fuori al momento dell’arrivo della slavina.


Qualche chilometro dietro, intanto, si continua ad avanzare lentamente. La luce dell’alba consente agli elicotteri di alzarsi in volo e finalmente si capiscono le dimensioni della tragedia e le difficolta’ di chi deve cercare di salvare piu’ vite possibili. Quelle auto incolonnate tra gli alberi, in un mare di neve, sembrano le vecchie carovane dei pionieri che attraversavano l’Alaska in cerca di oro. Attorno alle 8 del mattino la turbina si ferma: e’ finito il gasolio. Le riserve ci sono ma sono un paio di chilometri indietro. Cosi’ una ventina di vigili del fuoco prede una tanica a testa e torna indietro a piedi nella neve, fa rifornimento dagli altri mezzi e torna indietro, consentendo alla macchina di ripartire. E arriva anche ‘il bruco’, un mezzo cingolato che puo’ trasportare fino ad otto persone.
E’ quasi mezzogiorno quando la colonna imbocca l’ultimo chilometro, il piu’ difficile. Gli alberi crollati sono ovunque e una nuova slavina rallenta ancora l’avanzata. “Mai vista cosi’ tanta neve. Mai trovata una situazione cosi’ difficile” racconta esausto chi scende. Finalmente i mezzi riescono ad aprirsi il varco giusto, ma gli ultimi 300 metri vanno fatti a piedi. Per forza. Viene cosi’ creato un ‘parcheggio’ spazzando via centinaia di metri cubi di neve.
E, con la neve alle ginocchia, i soccorritori arrivano finalmente all’hotel e, 20 ore dopo aver cominciato, possono finalmente iniziare il loro lavoro. Verso le 15 qualche mezzo comincia a scendere dall’hotel, a breve arrivera’ il cambio. Dentro ci sono facce distrutte, stralunate, sconvolte. Come e’ lassu’? “Non c’e’ piu’ niente”.