Vai al contenuto

imperia

I “migliori” dittatori

Abbiamo bisogno dei dittatori. Anzi, «con questi chiamiamoli dittatori bisogna essere franchi nell’espressione della visione della società ma pronti a cooperare per gli interessi del Paese. Bisogna trovare l’equilibrio giusto». Lo ha detto sornione in conferenza stampa il presidente del Consiglio Mario Draghi, con la levità con cui si potrebbe parlare di un bilancio aziendale o dei tassi d’interesse di un prestito che si sta contrattando. Del resto la nuova politica, anche quella dei “migliori” che stanno al governo, ritiene i diritti una delle componenti che concorrono all’economia, sono riusciti a derubricare principi che dovrebbero essere il prerequisito di ogni democrazia – almeno una volta qualcuno aveva il coraggio di dire che doveva essere così – a uno dei capitoli di bilancio che concorrono all’affidabilità economica di uno Stato.

La chiamano realpolitik e la rivendono come illuminazione necessaria per riuscire a stare nello scacchiere internazionale, ma se riuscissimo a svestire questa bieca mentalità da tutte le sovrastrutture ne rimarrebbe semplicemente la vigliaccheria di chi ritiene la libertà e la democrazia due narrazioni da rimpolpare con dichiarazioni e con buone intenzioni. Tutto qui.

E infatti notatelo: rispetto all’avventatezza con cui Salvini o Meloni addirittura professano il proprio appoggio al dittatore di turno indicandolo come alto esempio di sovranismo, Mario Draghi è sempre pronto a condannare, a parole, mettendoci perfino un po’ di sdegno simulato ma senza nessuna concessione ai soldi che non devono essere condizionati, mai.

Non c’è differenza tra il “realismo” di Draghi rispetto al “buon senso” di Matteo Salvini, sono entrambi rifugi dove potere appoggiare una visione di mondo senza sentirsi in dovere di spiegarla.

Forse è anche per questo che per giorni si è discusso dell’…

*

“Zaki”, illustrazione di Clara Imperiale, Officina B5

L’articolo prosegue su Left del 23-29 aprile 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

La’ ‘Ndrangheta ha costruito il porto di Imperia?

PORTO_IMPERIA-H110925172339--U170507497828QHF-440x260-015L’arresto a Reggio Emilia dell’imprenditore Giovanni Vecchi, patron della Save Group, nell’ambito di una vasta operazione dei Carabinieri, denominata “Aemilia”, contro la ‘ndrangheta, non è passato inosservato a Imperia.

La notizia circola freneticamente in città, in particolare negli ambienti vicini al porto turistico, aprendo interrogativi davvero preoccupanti sulla realizzazione di un’opera, il porto di Imperia, la cui storia travagliata sembra per molti versi da scrivere.

La Save Group, infatti, dichiarata fallita nel 2013, è la società che ha realizzato gran parte delle opere a terra del porto turistico di Imperia e la sua “gemella”, la Impregeco, aveva ricevuto l’incarico di realizzare le opere a terra, poi rimaste incompiute.

La Save e la Impregeco erano entrate in gioco al termine di una lunga catena di subappalti. All’origine della catena l’Acquamare, società, ora in regime di concordato preventivo, che fa capo all’imprenditore Francesco Bellavista Caltagirone. E proprio Caltagirone ha più volte collaborato con la Save Group, nella costruzione del porto di Imperia, del porto di Fiumicino e del Molino Stucky di Venezia. Lo stesso imprenditore romano, nel corso del processo di Torino, definì la Save come “un’impresa di fiducia”.

Nel dettaglio, i Carabinieri hanno eseguito nove ordinanze di custodia cautelare, emesse dalla procura distrettuale antimafia di Bologna, nei confronti di altrettanti soggetti, tre dei quali esponenti della ‘ndrangheta emiliana attiva nelle province di Reggio Emilia, Parma, Piacenza e Modena ed operante anche in quelle di Verona, Mantova e Cremona. Al centro delle indagini, condotte dai carabinieri dei comandi provinciali di Modena e Parma nonché dal Ros di Roma, l’infiltrazione della ‘ndrangheta emiliana, articolazione della cosca Grande Aracri di Cutro (Crotone), nel tessuto economico nazionale, oltre che locale, attraverso la costituzione di varie società di capitali.

A Giovanni Vecchi, indagato a Imperia nell’ambito di un’inchiesta per frode in pubbliche forniture, viene contestato il trasferimento fraudolento di valori con l’aggravante di aver agito per agevolare l’attività dell’associazione mafiosa. Tra gli arrestati anche Nicolino Grande Aracri, considerato il boss della ‘ndrangheta attiva tra la Calabria e l’Emilia.

I Carabinieri hanno anche posto sotto sequestro preventivo svariate società. Due di queste, come detto, hanno operato sul porto turistico di Imperia, SAVE Group S.r.l di Montecchio Emilia e Impregeco S.r.l. di Roma e tutte, secondo gli inquirenti, sarebbero direttamente collegate proprio al clan Aracri, che conferiva nelle suddette società ingenti somme di denaro e altre utilità derivanti dai reati, oltre a provviste illecite.

Per ulteriori informazioni clicca qui e qui

(fonte)

‘Ndrangheta a Imperia: merde in gabbia

“È meglio se da qui non mi fate più uscire, perché se esco vi taglio la gola a tutti”. Vincenzo Marcianò, il figlio intemperante del presunto boss della ‘ndrangheta di Ventimiglia, Peppino Marcianò, non è nuovo a sparate del genere e quando oggi, il tribunale di Imperia lo ha condannato, insieme al padre, rispettivamente a 13 e 16 anni, ha inveito contro la corte: “Ti sei venduto il processo. Sei un coso lordo – ha imprecato contro il presidente del collegio giudicante, Paolo Luppi-. Sei un infame. Ti sei messo d’accordo con il pm. L’homo sapiens! Sa tutto lui!”

La sentenza è storica: per la prima volta un tribunale ligure ha sancito l’esistenza di un’organizzazione mafiosa dislocata sul territorio, dopo anni di inchieste (Roccaforte, Colpo della Strega, Spi.Ga, Maglio e Maglio 3, Crimine, e infine non a caso quella soprannominata La Svolta) che coinvolgevano gli stessi personaggi, senza mai riuscire a portare a casa il risultato in sede giudiziaria.

Associazione mafiosa per dodici degli imputati, fra i quali, Peppino Marcianò, condannato a 16 anni e Antonio Palamara, da alcuni collaboratori di giustizia indicato come il vero capo di Ventimiglia e, per questo, condannato a 14 anni. Tredici anni, per Vincenzo, Marcianò, figlio di Peppino e 7 anni e sei mesi al suo omonimo, nato nel ’48. Sette anni ad Annunziato Roldi ed Ettore Castellana, colpevoli dell’attentato intimidatorio ai danni dell’imprenditore Piergiorgio Parodi. Condanne pesanti anche per i fratelli Pellegrino, già implicati anche in altri processi: 16 anni per Maurizio e 10 anni e sei mesi per Giovanni e Roberto.

Condanne che, se non hanno accolto in pieno le richieste del pm, Giovanni Arena, (che era arrivato a chiedere fino a 22 anni) hanno comunque accolto la sua tesi. Con la sola e importante eccezione degli apporti politici. Assolti, infatti, ai sensi dell’articolo 530 del codice penale, l’ex sindaco di Ventimiglia Gaetano Scullino e il suo city manager, Marco Prestileo. Secondo l’accusa decaduta, i due avrebbero agevolato la cooperativa Marvon, controllata da Marcianò, nell’assegnazione di alcuni appalti attraverso la controllata comunale Civitas. Resta il fatto inquietante che, la notte dopo la deposizione in tribunale di Marco Prestileo, l’auto intestata alla moglie ha preso fuoco, in quella che oramai viene definita la “Riviera dei fuochi”.

Nonostante le condanne pesanti, la situazione in aula si era mantenuta accettabile (solo il grido di dolore della madre dei fratelli Pellegrino) fino alla lettura del dispositivo di risarcimento alle parti civili: 600mila euro al comune di Ventimiglia, e 400mila a quello di Bordighera. La richiesta dei danni, insieme con la con la confisca dei beni alla famiglia Pellegrino, ha dato fuoco alle micce: “Ecco dove volevate arrivare. A prendervi i nostri soldi” – è sbottato il solito Vincenzo. Da lì è stato un crescendo di minacce e tentativi di uscire dalla gabba, fino al rifiuto di essere condotti fuori in manette, perché – ha spiegato uno dei detenuti – noi siamo gente onesta e vogliamo rispetto”.

(link)