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Non ci si scusa per il dolore che si prova

Mi hanno colpito le parole di Valeria Kadija Collina, madre di Youssef, uno degli attentatori di Londra. Mi ha colpito, moltissimo, quella loro casa a Castaello si Serravalle, paese di provincia dell’entroterra bolognese: fiori curati ai lati del vialetto in giardino.

“Mio figlio me lo ha portato via l’ignoranza e la cattiva informazione. Il cattivo Islam e il terrorismo sono questo. Ignoranza e cattiva informazione”, dice nella sua intervista a Repubblica Valeria: ha fatto una cosa “atroce”, che “non può e non deve essere giustificata”. E ha provocato un dolore talmente grande “che chiedere perdono ai familiari delle vittime sembra quasi banale”.

Racconta di come, da madre, ha perso contatto con il proprio figlio: Quando mi parlava della Siria e del fatto che voleva trasferirsi in quel Paese, non lo diceva certo perché volesse andare a combattere per l’Isis, ma perché sosteneva che in quella parte del mondo si poteva praticare l’Islam puro e perché voleva mettere su famiglia. Lo diceva sorridendo e io sorridendo gli divevo che era fuori di testa e che io non lo avrei seguito mai perché stavo bene dove sono”. Poi il cambiamento: “La radicalizzazione secondo me è avvenuta in Marocco attraverso internet e poi a Londra, frequentando gente che lo ha deviato facendogli credere cose sbagliate. Suo padre è un moderato, sua sorella non ha abbracciato la nostra fede, nessuno nella nostra famiglia è vicino in alcun modo con quel mondo fatto di stupidi radicalismi”.

E sembra, ad ascoltarla, una storia così simile alle tante che ci capita di leggere quando ci sono madri che si arrendono alla disperazione di non essere riuscite a salvare i proprio figli dalla droga, dal malaffare o dalle mafie: ha lo stesso dolore , lo stesso colore e la stessa naturale (seppur ferocissima) tragica fine.

Così, di colpo, il terrorismo assume anche una dimensione nuova e così lontana dalla retorica degli analisti di prima mano e cola una disperazione folle e pericolosa come tutte le disperazioni.

Buon giovedì.

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Le balle (incendiarie) di Mattino 5 su Manchester

La vicenda va raccontata perché contiene tutte le peggiori pulsioni di un tempo di cui ci chiederanno il conto i nostri figli: durante la trasmissione Mattino 5 si discute della strage di Manchester in cui hanno perso la vita 22 persone dopo un concerto di Ariana Grande e qualcuno ha la brillante idea di dare la notizia (falsa) che in un bar di Pioltello (periferia milanese) si sarebbero tenuti veri e propri festeggiamenti appena ricevuta alla televisione la notizia della strage. Inutile sottolineare che il bar (dall’eloquente nome “Marrakech Lounge Bar”) sia gestito da persone di origine marocchina: un boccone troppo ghiotto per lasciarsi scappare la dose giornaliera di xenofobia.

Che la notizia sia falsa non lo dicono solo i proprietari del bar (“trasmettiamo solo musica, non abbiamo mai la televisione sintonizzata su canali di notizie”) ma lo dicono le forze dell’ordine che hanno addirittura riscontrato che l’orario in cui è stato segnalato “il festeggiamento” e un bel po’ precedente rispetto all’ora dell’attentato. Ma fa niente: il giornalista Mediaset Carmelo Abbate ha riferito di testimonianze da lui raccolte che gli avrebbero riferito di avere saputo per via indiretta dell’accaduto. Uno scoop, non c’è che dire, con fonti certe, come quelli che piacciono a un certo tipo di informazione che punta a stimolare la cintola fingendo di occuparsi delle coscienze.

 

(continua su Left)

Educarsi alla complessità, ad esempio

(rimetto qui il mio buongiorno per Left di qualche giorno fa perché il dibattito che ne è seguito è vivace e importante, quindi vale la pena riprenderne le fila)

Non è questione di post-verità, ministeri della verità o giudici popolari per il giornalismo: siamo un Paese disabituato alla complessità. Ed è un analfabetismo coltivato scientemente e chirurgicamente da chi, nel corso di tutti questi ultimi anni, ha lavorato duramente per banalizzare tutto ciò che si poteva banalizzare.

Una semplificazione ossessiva che consente a chi tiene le redini del gioco di ritrovarsi raramente a dovere dare delle spiegazioni: in epoca di turbobanalizzazione o si è a favore o si è contro perché il dibattito è solo un’inutile perdita di tempo e i tifosi bramano il goal o il prossimo fallo da dietro per falciare l’avversario.

Eppure la solidarietà, l’accoglienza del nuovo e del diverso, l’ascolto dei bisogni periferici e la gestione delle paure (anche quelle più insensate, che comunque hanno dignità quando non sono strumentali) richiedono l’abitudine alla complessità, la voglia (e l’alfabetizzazione) di scorgere le sfumature e l’amore per lo studio.

Ma ci vogliono tempo e coraggio: bisogna preferire la costruzione di un’etica collettiva alla più facile mitizzazione dell’io o alla fideistica passione per il leader. C’è da innamorarsi dei dubbi e da allenarsi all’essere terribilmente fallibili. Un popolo incapace di leggere le complessità sarà sempre arido, inumano, sloganizzato e continuerà a sentirsi comodo solo dentro il perimetro stretto di un commento sui social o un luogocomunismo da aperitivo.

Piuttosto che cercare un leader a sinistra, ad esempio, si potrebbe smettere di ambire a diventare banalizzatori “etici” e capovolgere il paradigma. Certo, ci vogliono tempo e coraggio. Tempo e coraggio.

“Una stampa che frequenta troppo i palazzi e poco il popolo”: parla De Bortoli

(intervista di Silvia Truzzi per Il Fatto Quotidiano)

A Milano, la città del Sì, parliamo della vittoria del No con Ferruccio de Bortoli, che alla riforma si era pubblicamente opposto. È il giorno dell’incarico a Gentiloni: “È stato un buon ministro degli Esteri”, spiega l’ex direttore del Corriere della Sera e del Sole 24 Ore. “Dovrà però dimostrare di essere autonomo da Renzi, il leader che lo ‘tolse dal frigorifero’ mandandolo alla Farnesina. Da lui ci si aspetta subito qualche gesto di discontinuità, anche nella composizione del governo, che rafforzi il suo profilo istituzionale, la sua credibilità anche all’estero. Vedremo, per esempio, se Luca Lotti resterà sottosegretario”.

Perché è così importante se resta o no?
Ai renziani preme molto gestire la prossima tornata di nomine delle imprese pubbliche. Accelerarono la caduta di Letta, nel 2014, anche per questa ragione. Due piani paralleli di governo, con quello ombra gestito dal segretario del Pd, sarebbero dannosi per il Paese. Avremmo il cerchio magico con il suo potere intatto e il governo ridotto a un cerchio inutile. Ma penso che Gentiloni ci stupirà in positivo. E Mattarella gli darà sicuramente una mano preziosa.

Veniamo al referendum. Come legge l’esito del voto?
Dalle urne esce un solo perdente. E nessun vincitore. Il centrodestra ha ricevuto un balsamo che gli consentirà di lenire i propri mali e che coprirà per un certo periodo l’assoluta inconcludenza di idee e programmi. Il vero perdente è Renzi che ha voluto caricare questa consultazione di significati impropri, trasformando il referendum in un voto politico. L’alta affluenza ci dice che questo Paese tiene molto alla partecipazione democratica: è stata una grande lezione civica. Il 40% non appartiene a Renzi come il 60 non appartiene all’opposizione”.

Così non sembra pensare il segretario del Pd.
Questo dimostra che il referendum, nel suo modo di pensare, aveva valenze che andavano al di là del merito. Era uno strumento per affermare il proprio potere, ottenere un viatico popolare, fare un bottino pieno e poi andare a incassare il premio alle elezioni. Renzi ha sbagliato la campagna elettorale, piegando la legge di bilancio a una serie di consensi da comprare per categorie. Chi votava No era contro la stabilità perché avrebbe esposto il Paese a conseguenze sui mercati che non ci sono state. Chi votava No era per l’immobilismo e rifiutava le riforme: possiamo dire che il 60 per cento di coloro che hanno votato – 33 milioni di italiani – rifiuta le riforme? No, possiamo dire che vuole riforme diverse da questa. Perché, bisogna dirlo, era scritta e pensata male. La grande partecipazione è anche il grido di un’Italia che vuole scegliere i propri rappresentanti e crede nella democrazia.

Renzi ha fatto, da premier, una campagna tutta incentrata sull’antipolitica: una clamorosa contraddizione.
Non si è reso conto che dopo quasi tre anni di governo era lui il potere: non doveva usare i toni anticasta di Beppe Grillo. Così come ora non si può mettere nella stessa posizione del Movimento Cinque stelle e dire “si vada al voto subito”. È una dimostrazione di scarsa responsabilità istituzionale. Ha pagato l’abbraccio soffocante dell’establishment che trasmetteva agli altri – in particolare agli esclusi – l’idea che questa fosse l’ultima spiaggia e che con la vittoria del No saremmo scivolati nel Medioevo. Si è sottovalutato il fatto che la democrazia è cara agli italiani e la riforma, con l’Italicum, indeboliva la possibilità di scegliere i propri rappresentanti. Sono favorevole a una democrazia decidente, ma i contrappesi nella riforma erano soltanto promessi. È stato un errore non approvare prima la riforma dell’articolo 49 della Costituzione. Il messaggio sarebbe stato: il partito che chiede agli elettori di cambiare le regole che li riguardano prima cambia le proprie, diventando più democratico e trasparente.

Nel 2006 abbiamo votato una riforma costituzionale che in comune con questa aveva molti tratti ed è stata sonoramente bocciata. Perché a distanza di dieci anni si è voluto ignorare quel risultato? Smetteranno di usare la Carta come grimaldello?
Bisogna sempre parlare della qualità delle riforme, chiedersi se rispondono a un progetto coerente ed equilibrato. Quel che non si può fare è piegare le regole comuni e le dinamiche istituzionali agli interessi di parte. C’è stata un’eccessiva confusione tra governo e Parlamento. La nostra storia politica dimostra – penso all’atteggiamento dei democristiani durante la Prima Repubblica – che quando si trattava di regole condivise il governo, saggiamente, faceva un passo indietro. Renzi si è impossessato totalmente della proposta di revisione costituzionale: agli occhi degli italiani la riforma è diventata la sua proposta. Perché la maggioranza ha chiesto il referendum, raccogliendo anche le firme? Poteva non farlo. Sarebbe utile che adesso arrivasse un’autocritica su tutti i comportamenti che abbiamo elencato. Invece no: assistiamo ad atteggiamenti indispettiti, “Fatele voi del 60 per cento le riforme”. Ma attenzione: in quel 60 per cento ci sono anche elettori del Pd e certamente elettori di una sinistra più larga. Renzi nella sua bulimia, in quella visione tolemaica del potere per cui tutto ruota attorno a lui, ha preso in ostaggio la riforma che avrebbe dovuto consacrarlo e quindi le istituzioni che doveva servire. E’ stata inferta una ferita inutile al Paese che però si è dimostrato più saggio della propria classe dirigente. Criminalizzare il No come fosse una posizione irresponsabile si è rivelato un autogol. Abbiamo perso tempo, ma non è stato a causa del no.

La logica sembra essere: avete vinto voi, ora sono fatti vostri.
È troppo comodo così… Andiamo con ordine: questa sconfitta può fare bene a Renzi, cui si devono riconoscere delle qualità. È un grande comunicatore, un politico di razza, un innovatore. Gli vanno riconosciuti anche successi: l’attenzione ai diritti civili, il Jobs act, con un dubbio legittimo sui costi, la per ora solo annunciata riforma del terzo settore, le politiche per la povertà. Per Renzi questa è l’occasione di guardarsi allo specchio, riconoscere i propri errori, essere sincero. Può dimostrare di essere – se lo è – uno statista. Può farlo stando in seconda fila, anche favorendo la nascita di un governo che per forza deve avere un mandato pieno e una fiducia non a scadenza. Senza la tentazione di dirigerlo nei fatti, con una playstation dal Nazareno. Nel ’95, dopo l’abbandono di Bossi, Berlusconi favorì il governo tecnico di Lamberto Dini, che era stato il suo ministro del Tesoro, mostrando senso di responsabilità istituzionale. Lo ebbe Berlusconi, perché non dovrebbe averlo Renzi? Deve capire che ora non è al centro della scena: ha guidato un’auto – quella italiana che magari ha le gomme sgonfie, ma non il motore inceppato – ed è uscito di strada. Ora non può dire “me ne vado, è colpa vostra”. La colpa è sua, lui ha fatto sbandare l’auto. Ora si deve dar da fare per rimettere a posto le cose, anche perché è il segretario del Pd. Il nuovo governo dovrà essere sostenuto dal partito, che dovrà essere leale al contrario di ciò che fu fatto ai tempi dell’esecutivo Letta a causa di un disegno completamente personale.

Ha perso anche il Presidente emerito Napolitano?
Napolitano creduto alla promessa fatta da Renzi al momento dell’incarico. Aveva accettato il secondo mandato chiedendo a gran voce che il progetto di riforma procedesse. Negli ultimi tempi credo fosse indispettito dall’atteggiamento di Renzi, soprattutto dalla polemica sterile e costosa nei confronti dell’Europa, quello sventolare veti poche settimane dopo Ventotene. Una sceneggiata estiva.

Perché sterile?
Sui migranti il premier aveva ragione. L’Europa si è dimostrata miope ed egoista. Ma sulla finanza pubblica io credo che invece abbia sbagliato. La flessibilità è stata usata male, guardando al consenso più che alla crescita. Sono scese solo le spese per gli interessi, le altre sono aumentate. La regola del debito è stata dimenticata. Ne parlano gli stranieri, noi la ignoriamo. Lodevoli le scelte sul super ammortamento, su industria 4.0, la riduzione al 24 per cento delle tassazione delle imprese. Ma abbiamo messo in pericolo i conti pubblici per una crescita che, al netto degli aiuti della Bce, è modesta: questa è una verità che bisogna affermare con chiarezza. C’è stato un dibattito opaco e insufficiente sulla funzionalità delle misure economiche prese. Solo nell’ultima legge di bilancio c’è stata attenzione agli investimenti che hanno toccato il minimo storico rispetto al Pil. Il guaio è che gli investimenti, a differenza dei bonus, non danno risultati immediati in termini di consenso perché dispiegano il loro effetto in tempi lunghi.

Renzi ha 42 anni: non è paradossale la sua assenza di prospettiva? Dovrebbe avere uno sguardo lungo e costruttivo proprio in virtù della sua giovinezza.
Qui rileva la visione del potere: quella di Renzi è esclusiva ed escludente, come ha sostenuto Prodi. Di cui vorrei dire, per inciso: il suo Sì è stato il più forte No a Renzi. Giustificato in tal modo da mettere a nudo i limiti di una gestione vecchia del potere. Penso al cerchio magico, ai fedelissimi, a quella che chiamerò “consorteria toscana”, per citare Ernesto Galli Della Loggia. Al premier ho sempre contestato non le idee, ma il modo di gestire il potere a tratti perfino gretto. La vicenda delle banche è emblematica. Prendiamo Mps: arriviamo ora a un intervento di salvataggio dello Stato, che poteva essere fatto mesi fa, escluso solo per ragioni di calcolo politico. La saggezza e il senso delle istituzioni avrebbero dovuto suggerire di agire ben prima. Ora se le banche vengono salvate, giustamente, con soldi pubblici, possiamo chiedere la lista dei loro principali debitori, per esempio del Monte Paschi?

La frattura è anche dentro il Pd: tira un’aria da redde rationem.
L’Italia ha pagato negli anni, non solo in quest’ultima era renziana, un prezzo altissimo prima alla composizione del Pd e poi alle sue numerose fratture. Il Pd è un grande partito di massa, guida il Paese ma deve riscoprire quella responsabilità che i partiti classici avevano. Il partito è stato considerato una struttura ancillare del governo: ora deve recuperare autonomia. C’è un problema di disciplina della minoranza rispetto alla maggioranza, ma c’è anche un problema di rispetto della maggioranza verso la minoranza.

Ma si può invocare la disciplina di partito sulla Costituzione?
Il Pd non può essere un luogo di ostracismi ed esclusione. Sennò andiamo verso una balcanizzazione della società. Continuando a dividere il Paese, come ha fatto Renzi, dopo un po’ si diventa antipatici, specie quando si occupa la televisione in questo modo militare e ossessivo. Una cosa così non si era mai vista, nemmeno con Berlusconi che pure le televisioni le possedeva. Se il Pd si dovesse spaccare sarebbe un danno per l’intero Paese: il Pd ritrovi la virtù di un confronto democratico aperto. Soprattutto il Pd deve essere in grado di trovare un’indipendenza rispetto alla vita dell’esecutivo: Renzi quando conquistò il partito democratico lo fece vivere di una vita propria rispetto al governo Letta, che poi affossò. Si riparta da lì.

L’informazione è rimasta spiazzata dal risultato.
Interroghiamoci sul perché tutti, negli ultimi giorni prima del voto, eravamo convinti che il Sì stesse recuperando posizioni. Forse questo segnala un’eccessiva vicinanza dei media al potere che spaccia – non in modiche quantità – informazioni avariate, spiffera retroscena ad arte, come l’idea che Renzi volesse prendersi un sabbatico e lasciare la politica. Forse non abbiamo più i ricettori giusti, forse chi fa informazione non sa raccontare il Paese perché frequenta troppo i palazzi e poco il popolo. E’ un’autocritica che dobbiamo fare, che devo fare anch’io. Siamo nell’era della post verità, ma sono state abbonate troppe vaghe promesse e troppe bufale. Bisogna riconoscere ciò che di giusto c’è nell’eredità renziana. Ed essere un po’ indulgenti: Renzi ha perso, ma ci si deve augurare che il perdente non ricatti le istituzioni scaricando la propria rabbia e frustrazione su altri. La responsabilità di ricucire il Paese è anche delle forze politiche che hanno votato No. Siamo reduci da una violenta campagna elettorale, è il momento della distensione. Questo Paese si mostra più solido e pacato di molte persone che lo governano. O tentano di governarlo.

Colleghi giornalisti, tirate fuori gli sms di Renzi

All’inizio era un mito: Renzi, si diceva, in prima persona o giocando di sponda con il fidato Filippo Sensi, invia indicibili messaggi per esibire le proprie rimostranze ai giornalisti autori di pezzi non graditi. Sembrava semplicemente uno strascico di quel berlusconismo che ha insegnato la censura (e peggio ancora l’autocensura) all’informazione e invece oggi le voci cominciano ad essere consistenti. Il Consigliere Rai Carlo Freccero, intervistato, dichiara «ho visto gli sms di Renzi, c’è da vergognarsi» e Sallusti addirittura disse (qui) che Renzi lo minacciò di spaccargli le gambe per un articolo non gradito sulla Boschi. Nessuno dei due è stato querelato, ovviamente. E sono molti quelli che danno di gomito raccontando altri aneddoti di questa natura precisando però di non potersi permettere di denunciarlo pubblicamente.

Ecco, io un’idea ce l’avrei: tirate fuori gli sms. È una notizia. Credetemi.

A proposito degli scemi che si permettono di voler votare

suffragette

I giorni dell’isteria: l’ultima folata di sciocchezze è questa tiritera di un “eccesso di democrazia” che andrebbe controllato come se non bastassero tutti questi ultimi anni. Così mentre in molti ci propongono di dare il diritto di voto solo a quelli che votano come dicono loro (Monti, Gori e altri geni dell’ultima ora) in pochi pensano allo stato di salute delle due armi per sconfiggere l’ignoranza: la scuola e l’informazione. E a proposito di informazione forse vale la pena leggere Mantellini nel suo blog:

«In ogni caso l’aspetto più interessante è quello dell’informazione; sfuggito ormai da tempo ad ogni controllo economico del mercato, il ruolo dei media come elemento portante della corretta informazione (ridete ridete) è perfino più compromesso di quello della politica che parla parla ma che al posto di costruire biblioteche asfalta l’astaltabile, sogna il ponte sullo stretto o si applica alle prossime Olimpiadi di Roma. Detto diversamente: dove esiste un’informazione corretta i media giocano un ruolo fondamentale nella riduzione dell’analfabetismo funzionale. Dove invece gli stessi soggetti scendono direttamente in campo al di là di ogni deontologia, giornali radio e TV, pubblici o privati che siano, si trasformano in soggetti attivi nel mantenimento dell’incompetenza degli elettori. Questo accade dentro una eterogenesi dei fini fra il modello economico dei media (che hanno un padrone al quale rispondere) ed il loro ruolo presunto ma del tutto scomparso di sostegno alle democrazie in quanto garanti dei lettori.

Vogliamo elettori in grado di superare un ipotetico esame di cittadinanza che gli consenta di votare? L’unica strada possibile è quella di investire denaro per una vera politica culturale (Rai compresa) e forse – contro ogni tendenza – per immaginare nuove ipotesi di finanziamento pubblico all’editoria privata. Soldi tardivi, come certe vendemmie, denari dei cittadini in premio a chi abbia avuto il coraggio di informare con coscienza i propri lettori, fuori dall’immensa marea di fango che è il business dei media oggi, specie in Italia. Un’arena in peggioramento, che ormai non risparmia più quasi nessuno. Tutta gente che per una ragione o per l’altra ha un qualche interesse a mantenere i cittadini -perfino nei tempi della società digitale – ignoranti esattamente come prima. Ce lo ha detto Tullio de Mauro, ok, era vero, l’analfabetismo funzionale è un problema enorme. Ora magari proviamo a fare qualcosa. Che la patente per poter votare è certamente una cazzata, ma anche gli elettori che non sanno un accidente e che danno retta al Salvini di turno sono una faccenda mica da ridere.»

E intanto il No scompare dalla Rai

RIFORMA-COSTITUZIONALE

(l’intervista a Alessandro Pace di Carlo Tecce per Il Fatto Quotidiano)

Alessandro Pace ha un’agenda satura d’impegni: “Mi spiace, il tempo è scarso”. Il professore emerito di Diritto costituzionale presiede il Comitato per il No che intende bloccare la riforma della Carta. A ottobre ci sarà il referendum confermativo, ma la campagna elettorale è adesso. In piazza e sui media.

Professore, la presenza sui canali Rai del comitato la soddisfa?

Mi fa una domanda ingenua, è retorica?

Anche retorica.

Per la Rai siamo inesistenti. Io non mi sorprendo, non mi aspettavo trattamenti degni di un servizio pubblico aperto al dibattito. Ma la realtà supera le mie più fosche previsioni. Ho contato i secondi.

I secondi?

Con i minuti facciamo troppo presto. Ascolti, le fornisco i dettagli. Il Tg3 mi ha intervistato per circa tre minuti, ma in onda sarà andato un pezzetto. Il programma Bianco e Nero su Radio1 mi ha interpellato per un paio di minuti o 120 secondi, scelga lei.

E il resto?

A memoria ricordo Gaetano Azzariti a La7 da Lilli Gruber, e poi sempre a Otto e Mezzo nei prossimi giorni ci saranno altri esponenti. Ma noi parliamo di Rai, le nostre statistiche riguardano la Rai, esatto?

Sì, professore.

Perché abbiamo capito che il tallone di Matteo Renzi è La7, l’unica rete che ospita le idee di chi non è schierato con il governo sul referendum. La7 fa servizio pubblico.

E che fa Viale Mazzini?

Quello che fa da sempre: tutela gli interessi del governo. In questa circostanza – e mi stupisco ancora – con maggiore attenzione. Con Berlusconi c’era addirittura più spazio per le opposizioni. Oggi la situazione è peggiorata.

A chi vi appellate, come reag i te?

Abbiamo scritto e riscritto al professore Angelo Cardani, il presidente dell’Autorità garante per le Comunicazioni.

Co s ’è accaduto?

Niente.

Per voi il confronto pubblico fra le ragioni del sì e del no è impari?

Ammetto che da un punto di vista oggettivo è una battaglia persa.

Perché, professore?

In tv non compariamo e non abbiamo quattrini. Ho chiesto due pareri agli avvocati e sono riuscito a ricavare 30 mila euro dall’associazione “Salviamo la Costituzione”.

Allora è rassegnato?

No, per carità. I ragazzi che incontriamo ai convegni ci trasmettono un’energia preziosa, proseguiamo con vigore, andiamo avanti. Abbiamo 285 comitati locali, l’11 e il 12 giugno lanceremo una manifestazione in cento e più città con la speranza di accelerare la raccolta delle firme. A Milano abbiamo riempito tre sale di Palazzo Marino, a Bergamo c’era gente in piedi, così pure alla Sapienza di Roma.

Ma chi se n’è accorto?

Osservazione corretta: non c’era una telecamera.

E sui giornali va meglio?

C’è chi ospita dei nostri interventi e chi osteggia il comitato per il no. Un cronista di un quotidiano nazionale ci ha definito “forza antisistema”. È una etichetta assurda, tremenda e, soprattutto, di una falsità eclatante. Noi difendiamo la Carta con passione, difendiamo i principi dell’articolo 138. Non possiamo tollerare degli insulti gratuiti.

A proposito di numeri: ecco la disinformazione sul referendum

televisione

 

L’analisi di Fanpage:

«L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha pubblicato i dati relativi alla copertura della tematica riguardante il referendum sulle trivelle svoltosi ieri, 17 aprile 2016, garantita dai telegiornali nazionali. Stando alle rilevazioni, i dati non sarebbero poi così confortanti. Per comprendere al meglio l’analisi della situazione, è importante partire da un presupposto: gli italiani ancora oggi si informano attraverso il più tradizionale dei media: il televisore. Anzi, nel dettaglio è il telegiornale a farla da padrone. I dati, elaborati dal Censis in occasione dell’ultimo Rapporto sulla comunicazione diramato lo scorso anno, sono chiari: i telegiornali sono scelti dal 76,5% della popolazione, seguono i giornali radio con il 52%, i motori di ricerca su internet come Google al 51,4%, le tv all news con il 50,9% e Facebook al 43,7%.

Passando all’analisi dei dati Agcom, è evidente come la copertura informativa fornita dai tg nazionali sia stata abbastanza scarsa. La rilevazione è suddivisa in quattro fasce: il periodo antecedente all’inizio della campagna referendaria, ovvero fino a 4 marzo 2016, e i tre scaglioni successivi da 14 giorni l’uno, calcolati tenendo conto dei criteri imposti dalla legge n. 28 del 2000: “Disposizioni per la parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie e per la comunicazione politica”.

Leggendo i grafici, quindi, si evince chiaramente come le reti televisive che hanno dato maggior spazio al referendum siano state quelle etichettabili come  “antigovernative”, Canale 5 in testa e a seguire Rai 3. Per quanto riguarda invece Rai 1, il canale filogovernativo per eccellenza, i dati sono invece sconfortanti: in totale, il Tg1 ha dedicato zero minuti dal 16 febbraio, giorno dell’emanazione del decreto per la scelta della data del referendum, al 4 marzo. Nelle restanti 5 settimane, invece, si è parlato del referendum sulle trivelle circa 41 minuti totali. Quarantuno minuti in 62 giorni. Va un po’ meglio con gli altri telegiornali Rai, invece. Tg2, Tg3 e Rai News hanno parlato complessivamente 12 minuti e 15 secondi nel periodo tra il 16 febbraio e il 4 marzo, mentre siamo oltre le 3 ore e 20 minuti nelle settimane centrali di campagna referendaria e oltre le 2 ore nel periodo che va dal 4 al 10 aprile. Scorporando però Rai News che essendo una all-news  ha esigenze di programmazione e approfondimento diverse rispetto ai tradizionali telegiornali, sia Tg2 che Tg3 hanno dedicato complessivamente circa mezz’ora per scaglione temporale al tema referendario.»

(continua qui)

Dov’è il video di quello con la pistola?

Schermata-2015-08-26-alle-22.29.31-600x496Nella giornata di oggi nessun sito editoriale degno di questo nome ha trasmesso il video terribile che l’assassino dei due giornalisti in Virginia ha messo online su Twitter e Facebook prima di spararsi un colpo (e prima che sia Twitter che Facebook lo rimuovessero nel giro di pochi minuti). Lo hanno guardato e hanno detto “no, noi questa roba non la mettiamo”. Rimanendo ai nostri usuali punti di riferimento non lo hanno trasmesso BBC, Le Monde, Guardian, NYT, Washington Post, El Pais. Fra i nuovi media editoriali (quelli nati sul web e quindi molto sensibili ai click dei loro clienti) non lo ha trasmesso Huffington Post, né DailyBeast e nemmeno Buzzfeed.

In Italia invece, per rimanere ai primi tre siti informativi (Repubblica.it Corriere.it e La Stampa.it) i grandi giornali lo hanno immediatamente pubblicato tutti con la massima evidenza, con la solita avvertenza sulle immagini forti e con un taglio della scena finale con l’esplosione dei colpi di pistola: una legione di blogger stanchi alla disperata ricerca di pagine viste da archiviare titillando la morbosità dei propri lettori.

Una scelta del genere traccia una linea netta: da un lato rimangono i guardiani dell’informazione, quelli che credono che sia giusto ed economicamente conveniente offrire ai lettori un punto di vista organico, un filtro, un’interpretazione, giusta o sbagliata che sia. Dall’altra si trovano invece quelli che hanno scelto di frugare dentro il calderone dei contenuti in rete trasformandolo nella propria attività principale. Quel mescolone informe di curiosità, notizie non controllate, bugie, video di gattini, tetteculi, stranomavero, peli delle orecchie più lunghi del mondo ed ogni altra cazzatine buone a richiamare l’attenzione bulimica dei navigatori.
In altre parole –e brutalmente- da una parte il giornalismo, dall’altra l’utilizzo di Internet, intesa come luogo di incontro e relazione fra le persone, per un progetto economico che assomiglia molto ad un circo.

(Massimo Mantellini, ne scrive qui)