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Intellettuali

Dunque un niente.

Nel cuore del mattino Ciro Pellegrino mi permette di scoprire una lettera di Franco Fortini che è il testamento di un’epoca, forse molto più ripetibile di ciò che si potesse temere.

Cari amici, non sempre chiari compagni; cari avversari, non invisibili agenti e spie; non chiari ma visibili nemici. Sapete chi sono. Non sono mai stato né volteriano né liberista di fresca convinzione. Spero di non dover mai stringere la mano né a Sgarbi né a Ferrara né ai loro equivalenti oggi esistenti anche nelle file dei “progressisti”. Non l’ ho fatto per mezzo secolo. Perché dovrei farlo ora? Nessuna “unità” anni Trenta. Meglio la destra della Pivetti.
Ognuno preghi i propri santi e dibatta con gli altrui. Tommaso d’ Aquino, Marx, Pareto, Weber, Croce e Gramsci mi hanno insegnato che la libertà di espressione del pensiero, sempre politica, è sempre stata all’interno della cultura dominante anche quando la combatteva. Tutt’intorno ai suoi confini, però, c’erano, lungo i secoli, miliardi di analfabeti, inquisizioni mistiche o, a scelta, grassi doberman accademici, reparti speciali di provocatori incaricati di picchiare i tipografi e distruggere i manoscritti.
Ci sono manuali per l’uso della calunnia nel management della comunicazione, lupare bianche, colpi alla nuca; o, nel più soave e incruento dei casi, la damnatio memoriae, il nome omesso o deformato, la associazione indiretta con qualche notorio cialtrone.
Ma ci sono momenti in cui il solo modo serio di dire “noi” è dire “io”. La prima persona, quel qualcosa che viene dopo la firma. Questo è uno di quei momenti.
Bisogna spingere la coscienza agli estremi. Dove, se c’è, c’è ancora per poco. Quando non si spinge la coscienza agli estremi, gli estremismi inutili si mangiano lucidità e coscienza.
Chi finge di non vedere il ben coltivato degrado di qualità informativa, di grammatica e persino di tecnica giornalistica nella stampa e sui video, è complice di quelli che lo sanno, gemono e vi si lasciano dirigere. Come lo fu nel 1922 e nel 1925.
Non fascismo. Ma oscura voglia, e disperata, di dimissione e servitù; che è cosa diversa. Sono vecchio abbastanza per ricordare come tanti padri scendevano a patti, allora, in attesa che fossero tutti i padri a ingannare tutti i figli. Cerchiamo almeno di diminuire la quota degli ingannati. Ripuliamo la sintassi e le meningi. Non scriviamo un articolo al giorno ma impariamo a ripeterci, contro la audience e i contratti pubblicitari. Diamo esempi di “cattiveria” anche a quei lavoratori che dai loro capi vengono illusi di battersi attraverso le strade con antichi striscioni e poi, nel buio della Tv, ridono alle battute dei pagliaccetti di Berlusconi.
Lungo canali di storica vigliaccheria mascherata di bello spirito i colleghi della comunicazione stanno giorno dopo giorno cambiando o lasciando cambiare i connotati dei quotidiani; in attesa che se ne vadano quei pochissimi direttori che non hanno già concordato o “conciliato”.
Quanto a me, solo l’ età mi scampa dal dovermi dimettere. Mai come oggi, credo, il massimo della flessibilità tattica del politico vero dovrebbe andar d’accordo con la rigidità delle scelte di fondo. Un modesto zapping basta a capire che è inutile declamare estremisticamente, come ora sto purtroppo facendo.
Bisogna dire di no; ma c’è qualcosa di più difficile e sto cercando di farlo: dire di sì in modo da non nascondere il “no” di fondo; se si crede di averlo e saperlo.
Pagare di persona, secondo le regole del finto mercato che fingiamo di accettare: ossia dimettersi o costringere altrui alle dimissioni, ritirare o apporre le firme e le qualifiche e il proprio passato, affrontare sulla soglia di casa o di redazione le bastonature fisiche o morali già in scadenza.
Anni fa scrissi, enfaticamente, che il luogo del prossimo scontro sarebbero state le redazioni. Quel momento è venuto, il luogo è questo.
Chi tiene famiglia, esca. Chi ha figli sappia che un giorno essi guarderanno con rispetto o con odio alle sue scelte di oggi.
Scade il primo semestre di chi ha preso il potere, come tanti altri, legalmente, coi voti di un terzo degli elettori, ossia giocando con la manovra della informazione e la debilità culturale ed economica di tanti nostri connazionali e, perché no, con la nostra medesima.
Cari amici, non sempre chiari compagni; cari avversari, non sempre invisibili agenti e spie; non chiari ma visibilissimi nemici, vi saluta un intellettuale, un letterato, dunque un niente. Dimenticatelo se potete.
Franco Fortini
Milano, 5 novembre 1994

“sedersi a trattare il meglio per sé, in cambio di tutto quel che serviva”

Jacopo Tondelli analizza l’ebook di David Bidussa “I purissimi” riprendendo un’analisi che torna utile per la lettura di un momento storico:

Perché non è certo nuovo il racconto – anzi: l’autonarrazione – fondato su un «linguaggio antisistema», sulla «esaltazione del giovanilismo come categoria attiva e risolutiva della politica» e forte de «la sensazione di avere il vento della storia in poppa». Non è nuova, «soprattutto l’idea di essere qualcosa di diverso da “quelli lì”, da quelli del “Palazzo”», spiega con grande precisione Bidussa. È ancora più chiaro, nelle radici antiche da cui fiorisce, è quando spiega che quel dna culturale porta con sé «il solito pret-à-porter del complottismo», ossia «un’interpretazione paranoica della realtà (….) indicativo di un’intera impalcatura mentale» che genera la condizione bipolare (o schizofrenica) in cui convivono «angoscia e sollievo». Angoscia perché saremmo prigionieri di forze oscure, sollievo perché nulla è incomprensibile, e tutto ha una spiegazione tragica nella volontà del potere di pochi, che ovviamente sono altri da noi.

Bidussa torna così sui passi, importantissimi, che da studioso muoveva ormai una quindicina di anni fa, quando nel Mito del bravo italiano scopriva la tendenza lunga che il nostro popolo coltiva con costanza che meriterebbe miglior causa: la tendenza, cioè, ad autoassolversi, e anzi a commiserarsi pensandosi sempre come vittime e mai come carnefici, anche se messi di fronte a prove schiaccianti. Quella tendenza, per smettere con la filosofia e tornare alla storia, che prima portò un popolo a invocare il fascismo contro una élite misteriosa che complottava contro di lui, e poi a considerarsi vittima di una dittatura sanguinaria che aveva evidentemente complottato per sé, e contro quel “povero” popolo.

Quella stessa tendenza che, tanti anni dopo, portò un paese (quasi) al completo ad applaudire chi lanciava monetine alla politica, per poi trovarsi vent’anni dopo a trovarsi invecchiato mentre scopriva che chi si era promesso nuovo, giovane, diverso, non era altro che simile, già vecchio ed uguale, e in fondo lo era sempre stato. Maledetti questi approfittatori senza scrupoli, o questo popolo credulone e privo di coscienza critica, di cultura, di memoria? Entrambi, sicuramente, ma – chiosando Bidussa, ed anzi rilanciando la palla nel campo del nostro maestro – non solo loro. Perché nel prezioso lavoro di Bidussa, in questo viaggio tra “i purissimi” che ci lascia senza scampo e con l’amaro in bocca a sentire il nostro sapore, manca forse qualcuno sul banco degli imputati. Mancano le élite italiane, quelle dei Padroni del Vapore di Ernesto Rossi, non il popolino che credette a questo o a quell’imbroglione, ma gli intellettuali, i banchieri, gli imprenditori e le loro associazioni, pronti ad alzare il sopracciglio fino a un minuto prima, e poi ad abbassarlo mezz’ora dopo le assortite marce su Roma, per sedersi a trattare il meglio per sé, in cambio di tutto quel che serviva.

Il nostro compito primario

Parli di “forze retrosceniche”. Sono sempre esistite. Che la politica “sulla scena” delle istituzioni sia una messinscena per distogliere gli occhi del pubblico dalla realtà del potere (che “sta nel nucleo più profondo del segreto”, ha scritto Elias Canetti) è un’idea realistica. Un tempo, il retroscena era visto come il luogo dell’oscurità, degli intrighi, dei complotti, delle cose indicibili: tutte cose negative,
da combattere in pubblico, attraverso istituzioni veritiere. Pensiamo, per esempio, alla ‘glasnost’ di Gorbacëv che, per un certo periodo, ha coltivato quest’idea. Oggi? Oggi siamo di fronte a qualcosa di nuovo. Le conseguenze sulla vita delle persone sono evidentissime, la matrice anche: il predominio dell’economia sregolata e manovrata dalla finanza speculativa. Ma è una matrice incorporea che, per ora, sembra inafferrabile, non stanabile “sollevando un velo”.
Constatiamo il declino della politica, fino alla pantomima dei suoi riti: personaggi inconsistenti, che talora si presentano come “tecnici”, rivelandosi così esecutori di volontà altrui; “posti” come posta d’una lotta che, usurpando la parola, continua a chiamarsi politica; nessun progetto dotato d’autonomia; parole d’ordine 
tanto astratte quanto imperiose: lo chiedono “i mercati”, la “Europa”, lo “sviluppo”, la “concorrenza”. Questo degrado, che si manifesta macroscopicamente come immobilismo e consociativismo, è la conseguenza di quello che è oggi il vero “nucleo del potere”. Per poter essere contrastato con i mezzi della democrazia, deve essere innanzitutto compreso, senza fermarsi solo a deplorarne le conseguenze, scambiandole con le cause.
Tu poni la domanda cruciale: che fare affinché ci si possa riappropriare di almeno un poco dell’espropriata nostra capacità politica?
Noi apparteniamo alla cerchia di chi esercita una professione intellettuale. Il nostro compito primario (non voglio dire esclusivo) è cercare di capire, non di cambiare il mondo. Sarà pur vero, come tu dici, che non sono alle viste nuovi Marx o Tocqueville. Ma il nostro compito, nel piccolissimo che è alla nostra portata, è di questa natura. Il che significa innanzitutto rifiutare il ruolo di consulenti che con tanta abbondanza questo sistema di sterilizzazione della politica offre a chi ci sta. Sarebbe
 già una bella rivoluzione.
(Gustavo Zagrebelsky
 dialoga con Luciano Canfora su ‘oligarchie e potere’. via)

Una normalizzazione mafiosa e anche sociale (editoriale per “I Siciliani giovani”)

La discussione in corso sul ruolo della magistratura e sugli argini permessi ai magistrati nell’esprimere giudizi politici è la ciclica riproposizione di uno scontro che sembra essere diventato inevitabile in Italia. Un campo di battaglia tra favorevoli e contrari, una tribuna (spesso televisiva) di tifosi delle diverse fazioni che si esibiscono nella continua delegittimazione l’uno dell’altro e ha portato alla banalizzazione di fondo da cui sembra così difficile uscire: ci si dice che in questo Paese esistano poteri buoni e poteri cattivi, dimenticandosi le persone che li interpretano. E il risultato è fatto: giustizialismo contro il partito antiprocure, antipolitica contro politicismi e, quando il gioco sembra farsi duro, complottisti contro innocentisti. E sotto spariscono i fatti, le persone, i riscontri e alla fine la verità.

Ricordo molto bene una mia discussione qualche anno fa quando mi capitò di essere “accusato” da alcuni colleghi teatranti di scrivere spettacoli con giornalisti di giudiziaria e giudici, “è compito degli intellettuali la cultura, mica dei giudici” mi dissero. Erano colleghi che stimo, gente che scrive spettacolo preferendolo all’avanspettacolo, che ha un senso alto dell’arte e della cultura, per dire, ma quello che mi aveva colpito era l’eccesso di difesa legittimato dalla presunzione di un’invasione di campo che non poteva e non doveva essere tollerata. Confesso anche che il concetto di intellettuale oggi, nel 2012 in un’Italia culturalmente berlusconizzata alle radici, è un tipo che mi sfugge perché si arrotola troppo sugli scaffali o nei salotti televisivi di una certa sinistra piuttosto che tra le idee della gente. Un nuovo intellettuale imborghesito e bolso che mostra il suo spessore nel “l’avevo detto” piuttosto che anticipare i tempi come quei belli intellettuali che si studiavano a scuola. C’è la mafia a Milano, l’avevo detto, c’è la massoneria tra le righe del Governo, ve l’avevo detto, c’è l’Europa antisolidale, ve l’avevo detto e via così come una litania di puffi quattrocchi che svettano come giganti per il nanismo degli avversari.

C’è un momento storico negli ultimi decenni che ha svelato l’arcano: 1992-93, le bombe, Falcone e Borsellino, la mafia, Palermo che si ribella, la Sicilia che rialza la testa e per un momento si sente abbracciata da una solidarietà nazionale come non sarebbe più successo. La gente che decide di non potere stare a guardare e la magistratura che cerca la vendetta con la verità: due mondi così distanti, con regole e modi così diversi, spinti dallo stesso sdegno e uniti nella stessa ricerca. Ma non comunicanti. Il popolo con la fame dei popoli, quella tutto e subito, per riempire la pancia di quel dolore e avere almeno una spiegazione e la magistratura ingabbiata tra i veti, la politica, i depistaggi e i falsi pentiti e le leggi che non lasciano spazio all’urgenza democratica. Forse gli intellettuali ci sono mancati proprio lì. Chi poteva avere il polso di quegli anni così caldi e aveva gli occhi per metterci in guardia dai demoni che si infilano nei grandi cambiamenti storici: sono rimasti isolati, inascoltati o morti ammazzati. E tutto intorno un allineamento rassicurante, come chiedeva il popolo sotto le mura; come se la “normalizzazione” non sia stata solo mafiosa ma anche e soprattutto sociale. La rassicurazione normalizzante è stata l’ultima chiave di lettura collettiva. Poi la frantumazione, prima composta come quando si saluta per tornare a casa fino al cagnesco muso contro muso degli ultimi vent’anni.

Per questo mi incuriosisce ascoltare il dibattito sui modi e le parole della magistratura che non tiene conto del percorso che ci ha portato fino a qui, della polvere che si è appoggiata su verità che cominciano a mancare come un lutto piuttosto che un viaggio. Tutto condito con un’etica slegata dalla storia, dagli interpreti della classe dirigente che abbiamo dovuto digerire e dai protagonisti che ci siamo trascinati legati al piede da quegli anni. Non esiste un modus operandi decontestualizzato dal mondo, non sarebbe concepibile nemmeno per un filosofo utopista con fiducia illimitata negli uomini. C’è un tempo per alzare la voce, dopo anni di latitanza degli intellettuali asserviti troppo spesso al padrone di turno, un buco da colmare per tenere in piedi i pilastri della democrazia. Come dice bene Gian Carlo Caselli ci sono stagioni che impongono la parola. E ci vuole la schiena diritta per portarla in tasca, la parola.

(pubblicato per I SICILIANI GIOVANI, il numero è scaricabile dal sito)

La sparizione degli intellettuali di destra

Per tutti quelli che (come me) hanno creduto che troppo spesso intellettuali, opinionisti o professori seguaci del berlusconismo fossero troppo spesso semplici cameriere dei vincitori Tafanus propone una carrellata che sembra una galleria degli orrori. O forse una carrellata di incompresi opportunisti. Anche perché l’intellettuale, come diceva Kant: “non ha da portare lo strascico del re, ma la lanterna avanti al re”. E qui invece sembravano tutti preoccupati di trovare un posto caldo sotto la sottana. E in un momento di passaggio che di liberatorio ha solo le assenze sarebbe pericoloso decidere di abdicare dalla memoria sui protagonisti ‘culturali’ di questi ultimi vent’anni. Uomini tutti di un pezzo come Marcello Pera che dopo avere incarnato il radicalismo della questione morale durante Mani Pulite ha pensato bene di recarsi nel 2004 sulla tomba di Bettino Craxi parlandone come di un ‘monumento nazionale’ e (sempre in quell’anno) dichiarò “Berlusconi è a metà strada tra un cabarettista azzimato e un venditore televisivo di stoviglie, una roba che avrebbe ispirato e angosciato il povero Fellini“. Nel 1994 (e fino al 2008) divenne senatore di Forza Italia, poi Popolo della Libertà. Poi ha ispirato la legge sul ‘giusto processo’ (perché nella Berlusconeide televisiva gli intellettuali tornavano utili come titolisti per nascondere meglio la polvere sotto il tappeto) e oggi si è disintegrato come molti dei suoi. E ricordarcelo è fondamentale.

Le conclusioni della direzione artistica sulla stagione 08/09 del Teatro Nebiolo

S5002235Se la prima stagione di un teatro (in qualsiasi angolo del mondo sia ficcato) è l’anno della sorpresa e della meraviglia, la seconda stagione è sempre un respiro con un retrogusto di ansia perché si è sicuri che toccherà scegliere a qualche bivio. Seduto in sala ad ascoltare le ultime briciole di eco di questo 2008/2009 c’è il profumo di una coerenza spessa; che per quanto possa essere più o meno condivisa è almeno il privilegio di un’identità coerente, non compromettibile e degna. La soddisfazione e la responsabilità di avere guadagnato in quest’ultima stagione nuovi compagni di viaggio (come la Fondazione Cariplo con il Progetto Etre, l’Associazione Etre delle residenze teatrali lombarde ,i tanti studiosi, attori e giornalisti che allevano con noi il Centro di Documentazione Teatro Civile e nuovi spettatori), nonché di avere ritrovato l’energia e il calore del nostro pubblico, ci dicono che l’adolescenza del Teatro Nebiolo e dei suoi mille satelliti di parole e persone è un’adolescenza vivace che suona ormai molto di più di una promessa. Oggi, su quel confine di cotone tra il tramonto della stagione 2008/2009 e l’alba della 2009/2010, il Nebiolo è la casa di temi, persone e modi che  sono diventati un valore.  E allora ci sarebbe da riservare l’ultimo applauso della stagione al “tutto” in cui il Teatro Nebiolo galleggia: il paese, le persone, le idee, gi errori, la fiducia, la sfiducia, il tecnico, l’organizzazione, gli artisti e il pubblico. Ma un applauso a palmo aperto, di quelli che non si accendono mica telecomandati ma sono un’esigenza: una voglia matta di gratitudine. Per questo teatro a forma di neo che doveva “essere un teatro di provincia” e invece non lo è stato.
Non siamo stati “un teatro di provincia” quando abbiamo rifiutato di incensarci con i numeri ma abbiamo rivendicato il peso delle persone e dei contenuti.

Non siamo stati “un teatro di provincia” quando abbiamo preservato la nostra autonomia da una falsa cortese politica di “rete” che qualcuno vorrebbe suonasse come moderazione e controllo.
Non siamo stati “un teatro di provincia” quando abbiamo ricordato che i teatri sono un gioco tra spettatori e teatranti e nient’altro.
Non siamo stati “un teatro di provincia” quando abbiamo sottolineato che la libertà di espressione (ancora di più sulle storie “lodigiane”) sono un diritto ma anche un dovere prezioso.
Non siamo stati “un teatro di provincia” quando non ci siamo fermati davanti alle gesta di “bravi” da poche lire, intellettuali da discount, detrattori per passione e per professione o davanti alla politica pavida della “tranquillità”.
Non siamo stati “un teatro di provincia” quando abbiamo chiesto spiegazioni e abbiamo preso atto della vacuità delle risposte.
Non siamo stati “un teatro di provincia” quando abbiamo scelto meno esibizioni e più opinioni.
Non siamo stati “un teatro di provincia” quando abbiamo sorriso delle prevedibilissime strumentalizzazioni.
Non siamo stati “un teatro di provincia” quando, tra le orge di vendemmie al chilo, abbiamo scelto di essere un teatro da sorseggiare. Come quel vino buono tra amici che, anno dopo anno, diventa una tradizione.
Non siamo stati “un teatro di provincia” quando, rileggendo a fine stagione l’anno che è stato, ci riconosciamo.

Un ringraziamento particolare va al Comune di Tavazzano con Villavesco che ha reso e rende possibile tutto questo.
La prossima stagione è già cominciata.

IL DIRETTORE ARTISTICO
Giiulio Cavalli

Un appello di Emma Dante sul Teatro Biondo di Palermo

emma_danteEmma Dante è una teatrante che preferisce parlare sul palco piuttosto che con le parole. Ci siamo conosciuti nella morbidissima bomboniera laica che è il suo teatro-bottega giù a Palermo. Ha gli occhi di velluto dell’esteta ma la stretta ferma dell’osservatrice. Per questo quando ho letto che ha deciso di scrivere e mettersi dritta e in piedi giù dal palco non ho potuto fare a meno di ascoltarla e apprezzarne la forza. In un mondo per natura fangoso come quello teatrale in Italia e per di più con la voce che si alza da Palermo e su Palermo.

“Carissimi colleghi,

teatranti, artisti e intellettuali vi scrivo con la speranza che possiate dimostrare solidarietà all’ importante movimento che si sta sviluppando per far chiarezza sulla gestione del teatro stabile di Palermo.
Finalmente, dopo anni di silenzio-assenso, una consistente parte della società civile ha promosso una petizione popolare che io appoggio con convinzione. E’ assurdo che, in tutti questi anni in cui la carica del direttore del teatro stabile è diventata un vitalizio, caso unico in Europa, nessuno di noi si sia indignato per la malagestione del teatro della nostra città. Anche quest’ anno il cartellone presenta numerose regie, scene e costumi firmate da pietro carriglio, anche quest’anno si dà pochissimo spazio alla drammaturgia contemporanea e ai giovani talenti emergenti. E’ arrivato il momento di fare chiarezza e questa petizione ce ne dà l’occasione. Bisogna svincolarsi dalla mentalità per cui aderire a questo movimento significa schierarsi contro il teatro biondo e chiudersi le porte per il presente e il futuro. E’ proprio questa mafiosa minaccia di esclusione che consolida il potere e annienta qualsiasi forma di rivolta. E’ una mentalità subdola e indissolubilmente legata all’ egoismo e alla chiusura. Non a caso nel momento in cui ho aderito e mi sono fatta portavoce di questa petizione, il mio atto sociale è stato interpretato come un fatto personale tra me e il biondo per l’assenza dei miei spettacoli in cartellone. Ma come tutti voi ben sapete mai è stato programmato un mio spettacolo in quel teatro e a questo punto ne sono fiera e vi giuro
che fino a quando ci sarà pietro carriglio alla direzione del biondo
io non ci metterò piede. In questi giorni di vacanza ho letto i nomi dei numerosi firmatari della petizione: sono quasi tutti cittadini, pochissimi addetti ai lavori. Vi chiedo perché. Ciò che domanda la
petizione è legittimo e naturale ed è per questo che vi invito a
sottoscriverla. Non può esserci un futuro migliore se continuiamo a
stare trincerati nelle nostre case, ognuno a curare il proprio orticello.

Ps : la petizione si può firmare on line sul sito www.studiolegalelopiccolo.como alla pagina http://www.firmiamo.it/sign/list/petizioneperlagestionedelteatrostabiledipalermo (ricordandosi di confermare via mail l’adesione )

Emma Dante

Lettera al Teatro che avrei dovuto studiare

criticiAmmetto che c’erano tutti i segnali per aspettarselo: un teatro così, sempre attento a non infilarsi sporcizia tra i denti e non sgualcire la piega della pettinatura. Mettici anche che non era per niente male il party tutto ossigenato e invecchiato finto con le vernici dell’ultimo “teatro civile” così glamour e chic da diventare popolare per davvvero dalla parte più eletrizzante ed economizzante del termine. Ho passato gli ultimi anni a sfilare con gli eroi concettuali della denuncia da proscenio, perchè in fondo era un segreto tutto nostro che il coraggio querelabile o pallottolabile (se si potesse dire così, come da cerimoniale, delle pallottole), quel coraggio che rischia di scolorire il fondotinta dell’arte bastava farselo intervistare e poi fingere di dimenticarlo in quinta.

Riconosco anche che sbucciarsi il cervello sulle sentenze piuttosto che i manuali di dizione, o bere duecento caffè e mezzo spritz con i giornalisti, nemmeno buoni per abbinarci un cappello tronfio o una borsa biennalina, non è drammatirgucamente abbastanza cremoso per i convivi degli attori che chissà cosa avrebbero potuto essere.

Aggiungici anche i critici, quelli che in quarant’anni di criticabilissima carriera a criticizzarsi con il carisma sotto al palato che puzza ancora dell’ultimo buffet, mettici che i critici non hanno mica bisogno di disabituarsi a volare via, adesso che si sono convinti di  uscirsi in volo così bene da credere di essere davvero in alto e a pancia in giù.

Dal finestrino della macchina blindata, mentre fischiamo lampeggiando blu appesi primitivi alle maniglie d’appiglio, il Teatro che avrei dovuto studiare mi gira lo stomaco.

Tutto un zumpapa di attori scarsi che mi capiscono, dieci volte di sottotesto ad ogni battuta.

Tutto festival di lodi che si sciolgono al sole perchè d’estate il teatro è un doposole.

Tutta una militanza che si spegne al primo colpo di tosse del prossimo bonifico.

Tutto a sinistra, e subito il giorno dopo a destra perchè lei intendeva il lato dal senso di chi guarda e comunque solo gli idioti non barattano l’idea perchè bisogna pur lavorare. Se possibile di spalle.

Intellettuali alle feste, fallotropi in tournée, nordisti al nord, sudisti al sud e centristi al momento del contratto.

Rivoluzionari nel comunicato stampa, balbettanti sul copione (per esigenze di purezza), con la lingua sulle scarpe (per una replica pagata in pizze) e infine mimi muti come da esigenze di scena.

Tutto a tessere seta e barattarla per flanella per un occhiello in terza pagina.

Tutto che mi capisce, che chissà come deve essere difficile, che è il trionfo della parola, che è il teatro che allora funziona, che se ho bisogno mi ha promesso che come un teatro che si rispetti è sempre a disposizione.

Appena finiscono di smontare l’ultimo studio di quanto piove in testa a Shakespeare o il prossimo debutto del ludico brodino dialettale.

Dal finestrino della macchina blindata, mentre fischiamo lampeggiando blu appesi primitivi alle maniglie d’appiglio, il Teatro che avrei dovuto studiare è uno sbadiglio. Muto e spento.