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Colloquio per Ryanair: racconto semiserio di una giornata di ordinaria precarietà

(Sandro Gianni racconta la sua esperienza per Clap, qui)

A giudicare dagli annunci nei portali per la ricerca di lavoro, sembra che sul mercato esistano solo tre tipi di occupazioni disponibili: sistemista Java, dialogatore e operatore call-center. Se non conosci Java e hai zero voglia di vendere il tuo tempo per delle chiacchiere con degli sconosciuti, al telefono o dal vivo, la ricerca pare senza possibili sbocchi. Aggiungi che la percentuale di risposta ai curriculum inviati rasenta lo zero e che la laurea e/o i master di cui sei in possesso non sono particolarmente quotati nella borsa degli skills… il quadro si complica parecchio.

Perciò, quando qualcuno ha finalmente risposto alla mia “iscrizione a un’offerta di lavoro” ho provato una strana sensazione, di affetto quasi. Ho pensato di dover ricambiare, presentandomi al colloquio. Ho detto “qualcuno”, ma in realtà avrei dovuto dire “qualcosa”: un algoritmo, un dispositivo automatico di risposta alle mail, un bot del portale. Non posso saperlo, ma l’invito a comparire in un hotel nella zona di Tor Vergata è arrivato pochi millesimi di secondo dopo l’invio della mia iscrizione. Ciò esclude la mediazione umana e, dunque, una seppur minima selezione del curriculum, che avrebbe potuto equivalere a qualche decimale in più nella stima probabilistica di un’assunzione .

Il lavoro non era proprio quello dei miei sogni, ma provavo a vederci delle sfumature positive: la possibilità di viaggiare, avere un contratto decente, ricevere uno stipendio non troppo basso. Ovviamente, mi sbagliavo.

Nell’atrio dell’hotel di lusso, nella periferia sud-est di Roma, una quarantina di ragazzi e ragazze tirati a lucido, con la barba fatta, il vestito e la cravatta siedono in silenzio. Tra loro, io. Alcuni si muovono sicuri nei completi eleganti, camminano come se nulla fosse, bevono il caffé senza bisogno di sistemarsi di continuo la giacca, muovono le mani sullo smartphone senza domandarsi perché la camicia faccia capolino solo da una delle due maniche. Altri sono impacciati, si toccano insistentemente la cravatta temendo che il nodo si sciolga, cercano delle tasche in cui infilare le mani senza trovarle, provano a controllare la continua fuoriuscita della camicia dalla giacca senza alcun successo. Evidentemente, non sono abituati a conciarsi così. Tra loro, sempre io. C’è anche un ragazzo che deve aver letto male le istruzioni per l’uso: si è presentato in jeans e camicia a quadrettoni, rossi e blu. È imbarazzato, ma resta. Sembra simpatico.

In sala nessuno fiata. Quasi che taller e vestiti abbiano trasmesso per metonimìa un certo dovere di contegno, di formalità. «Dicono che l’abito non fa il monaco, ma non è vero» – argomenta il Totò ladro vestito da carabiniere, nei Due marescialli – «Io a furia di indossare indegnamente questa divisa, marescia’… mi sento un po’ carabiniere».

Ci chiamano e andiamo tutti insieme nel seminterrato dell’albergo, in una sala conferenze. Eliminata la prima decina di candidati con un test di inglese da seconda media, la selezione entra nel vivo. O meglio, nel video. Proiettano una presentazione del lavoro, divisa per sezioni: informazioni tecniche sulle diverse mansioni; procedure di inizio; questioni retributive e contrattuali; possibilità di carriera; criteri di premialità; caratteristiche dell’azienda che offre il lavoro e dell’agenzia di recruitment che assume (due cose diverse: una è Ryan; l’altra una fusione tra Crewlink e Workforce International… sì, si chiama proprio così!). In questa seconda fase, si rivolgono a noi come fossimo già assunti. L’uomo sulla cinquantina, inglese o irlandese, responsabile del reclutamento, allude più volte a quanto staremmo bene con indosso le nuove divise da hostess e steward.

Dalle immagini del video e dagli interventi del selezionatore si capisce che ci sono soprattutto tre caratteristiche importanti per fare questo lavoro: essere disponibili alla relocation immediata; parlare inglese; essere flessibili-e-sorridenti (insieme). Le immagini mostrano giovani di tutti i colori, che sembrano felici e raccontano la loro esperienza con Ryan di fronte a un bastone per i selfie. In particolare, insistono su quanto sia utile e divertente il corso di formazione per diventare personale di bordo. Si nuota, si spengono incendi, si salvano bambolotti, si incontrano persone. «You grow up like a man, not just cabin crew».

Ma è più avanti che le orecchie dei candidati si aguzzano: quando si inizia a entrare nel dettaglio del salario e dei tempi di lavoro. La retribuzione è organizzata secondo una serie di premi e possibili punizioni, un incrocio tra un videogioco e una raccolta punti del supermercato. «Your performance is continually monitored and assessed». Monitorare e valutare. Punire solo come ultima ratio. Soprattutto premiare: per far rispettare le regole, per aumentare la produttività, per migliorare le prestazioni. I like dei clienti danno diritto a delle ricompense: monetarie, ma soprattutto relazionali. Ad esempio, la penna nel taschino è indice di un certo numero di apprezzamenti. Costituisce dunque, tra i colleghi e nell’azienda, l’indicatore di uno status particolare.

Si viene pagati un po’ in base all’orario e un po’ a cottimo. Nel senso: un fisso non esiste; sono retribuite solo le ore di volo; si percepisce il 10% su ogni prodotto venduto (…adesso lo capite il perchè di tanto rumore?). Il contratto è registrato in Irlanda o UK. Si hanno delle agevolazioni sui viaggi in aereo.

Il salario mensile dovrebbe oscillare tra 900 e 1.400 euro lordi, in base al luogo di ricollocamento. «We try to keep the wages homogeneous among our workers». Bella l’uguaglianza, quando non schiaccia tutti verso il basso… penso io. Viene poi fatto cenno a un periodo annuale in cui non si lavora e non si ricevono soldi: da uno a tre mesi. Ma il selezionatore ci assicura che questa pausa non supera (quasi) mai i 30 giorni.

Fino a qui, niente di eccezionale. Ma il rapporto premi-punizioni è più complesso e configura per intero il sistema di retribuzione. Ovviamente, se i diritti diventano premi e i doveri debiti, tutto cambia. Non si parla di tredicesima e/o quattordcesima, ma di bonus, che si ricevono solo il primo anno. 300 euro il primo mese di lavoro, altrettanti il secondo, il doppio il sesto. Chi va via prima della conclusione dei primi 12 mesi, però, deve restituire questi bonus. Inoltre, la divisa (quella bella di cui sopra) costituisce un costo esternalizzato al lavoratore: il primo anno sono 30 euro al mese scalati direttamente dalla busta paga; successivamente pare si ricevano dei soldi, ma non si capisce bene per cosa, se per lavarla o non perderla. Per ultimo, il famoso corso di formazione per diventare hostess o steward si rivela qualcosa di più di un parco giochi in cui fare festini con altri esponenti multikulti della generazione Erasmus. Principalmente, si rivela un’enorme spesa. Se all’inizio era stato comunicato che, in via eccezionale, le registration fees del corso erano dimezzate a 250 euro, è alla fine che viene fuori il vero prezzo da pagare. Ci sono due modalità differenti: 2.649 euro se paghi prima dell’inizio e tutto in un colpo; 3.249 se decidi di farti scalare il costo dallo stipendio del primo anno (299 euro dal secondo al decimo mese, 250 gli ultimi due).

Si aprono le domande. Dopo alcune irrilevanti su sciocchezze burocratiche, alzo la mano. «Ci avete parlato di un massimo di ore di volo a settimana, ma mai delle ore totali di lavoro. Quante sono?», chiedo. «Voi siete pagati in base alle block hours, cioé le ore calcolate dalla chiusura delle porte prima del decollo, all’apertura dopo l’atterraggio. I tempi di preparazione dell’aereo, prima e dopo il volo, possono variare». Varieranno pure, ma di sicuro non vengono pagati, nonostante siano tempi di lavoro.

Alza la mano quello dietro di me. «Scusi la domanda, ma ho bisogno di fare dei conti. Diciamo che uno stipendio per una destinazione non troppo cara è di 1.000 euro. Ve ne devo restituire 330 al mese tra corso e divisa. Ne rimangono 670. Dovrò prendere una stanza in affitto, diciamo 300 euro. Ne rimangono 370. In più avrò bisogno di pagare un abbonamento ai mezzi per raggiungere l’aeroporto e coprire almeno le spese della casa anche nella pausa annuale in cui non si lavora. Diciamo che, se va bene, rimangono 300 euro. E non ho scalato le tasse, perché non so come si calcolano in Irlando o UK. Secondo lei, con questi soldi si può vivere?». Sbem.

Il selezionatore della società di recruitment, fino a quel momento cordiale e spiritoso, accusa il colpo. Deglutisce. Tossisce. Arrosisce. Si butta sulla fascia, prova un diversivo. «With this work you don’t get rich, but it’s in accordance with your capacity and affords your lifestyle». Alla fine, anche qui le nostre capacità valgono poco più di un pacchetto di sigarette al giorno. Chissà, invece, come ha calcolato il nostro stile di vita!

Finito il video, io e gli altri candidati usciamo e andiamo a mangiare insieme. Da come siamo vestiti, sembriamo un gruppo di giovani businessmen in carriera, lanciati alla conquista del mercato e pronti a scalare colossi finanziari. Invece siamo lì per un colloquio che, se va bene, ci farà guadagnare meno della persona che ci serve la pizza.

Comunque, i calcoli veloci del ragazzo che ha fatto la domanda dopo di me hanno sciolto l’iniziale freddezza tra i candidati. In molti hanno perso interesse per questo lavoro. Anche per questo, si scherza e si chiacchiera. Alcuni hanno appena finito la scuola superiore, altri l’università. Altri ancora hanno già diversi anni di precarietà e i capelli brizzolati. Tra loro…

Rimango fino all’intervista, per sport. Mi capita la collaboratrice del selezionatore. Legge il mio curriculum. Niente di eccezionale, però insomma… neanche da buttare. Tutti i titoli di studio con il massimo dei voti, laurea e due master, cinque lingue, numerose esperienze di lavoro materiale e immateriale, in Italia e all’estero. «Are you sure you want to do this work?», mi chiede. Bleffo: «Eeeeeh. Why not?». «Do you know people working for us?». «No». «So, what do you know about this work?». «What you told me today», rispondo. Lei arriccia il labbro inferiore e muove la testa dal basso verso l’alto e poi in senso inverso, fissandomi con gli occhi corrucciati. Ho l’impressione che stia pensando sardonicamente “devi essere proprio una volpe, tu!”.

Saluto, me ne vado. Sulla vespa faccio i conti: due caffé al bar dell’albergo = 3 euro; un pezzo di pizza e una bottiglia d’acqua = 4 e 50; giri vari alla ricerca di vestito, cravatta e scarpe e poi fino al colloquio = almeno 5 euro; stirare la camicia = 2 euro; stampare 7 fogli di curriculum dal cristiano-copto su via di Torpignattara, che sembra sapere quando non puoi dirgli di no = 2,10 euro. Barba e capelli costo zero, taglio autoprodotto in casa. Alla fine, non mi è andata nemmeno tanto male. Qualcuno è arrivato in treno da lontano, spendendo molto di più. Per l’ennesima offerta di lavoro precario e sottopagato.

Almeno una cosa l’ho capita: nella compagnia aerea, quel low che precede il cost non è riferito soltanto ai prezzi dei biglietti, ma anche al costo del lavoro.

Così marcisce Serracchiani

Il buongiorno di oggi è un pessimo giorno. Debora Serracchiani (ve lo ricordate?) era quella che avrebbe dovuto ringiovanire il Pd, tempo addietro, con spirito fresco e nuovo. Ha raccolto migliaia di preferenze, stupendo tutti (chissà perché il “nuovo” è di per sé un valore, ma questo è un discorso lungo) e ci si aspettava che potesse davvero svecchiare le più vecchie liturgie. E invece no. Anzi: e invece peggio.

Ha cambiato davvero il corso del Pd, ma verso il dirupo della destra mascherata. Basta leggere le sue parole. Ecco qui. Comunicato stampa di ieri (è qui):

Udine, 10 maggio – “La violenza sessuale è un atto odioso e schifoso sempre, ma risulta socialmente e moralmente ancor più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza nel nostro Paese”.

Lo ha affermato la presidente del Friuli Venezia Giulia Debora Serracchiani, commentando il tentativo di stupro subìto da una minorenne ieri sera a Trieste da parte di un cittadino iracheno richiedente asilo.

Per Serracchiani “in casi come questi riesco a capire il senso di rigetto che si può provare verso individui che commettono crimini così sordidi. Sono convinta che l’obbligo dell’accoglienza umanitaria non possa essere disgiunto da un altrettanto obbligatorio senso di giustizia, da esercitare contro chi rompe un patto di accoglienza. Per quanto mi riguarda, gesti come questo devono prevedere l’espulsione dal nostro Paese, ovviamente dopo assolta la pena. Se c’è un problema di legislazione carente in merito – ha aggiunto Serracchiani – bisogna rimediare”.

 

(continua su Left)

Ma i 180 milioni di euro che la Lega ha preso (e speso indebitamente) da Roma ladrona?

(Un pezzo di Francesco Giurato e Antonio Pitoni per Il Fatto Quotidiano)

Dalla Lega Lombarda alla Lega Nord, transitando dalla prima alla seconda repubblica a suon di miliardi (di lire) prima e milioni (di euro) poi generosamente elargiti dallo Stato. Dal 1988 al 2013sono finiti nelle casse del partito fondato da Umberto Bossi e oggi guidato da Matteo Salvini, dopo la parentesi di Roberto Maroni, 179 milioni 961 mila. L’equivalente di 348 miliardi 453 milioni 826 mila lire. Una cuccagna, sotto forma di finanziamento pubblico e rimborsi elettorali, durata oltre un quarto di secolo. Ma nonostante l’ingente flusso di denaro versato nei conti della Lega oggi il piatto piange. Ne sanno qualcosa i 71 dipendenti messi solo qualche mese fa gentilmente alla porta dal Carroccio. Sorte condivisa anche dai giornalisti de “La Padania”, storico organo ufficiale del partito, che ha chiuso i battenti a novembre dell’anno scorso non prima, però, di aver incassato oltre 60 milioni di euro in 17 anni. Insomma, almeno per ora, la crisi la pagano soprattutto i dipendenti. In attesa che la magistratura faccia piena luce anche su altre responsabilità. A cominciare da quelle relative allo scandalo della distrazione dei rimborsi elettorali, che l’ex amministratore della Lega Francesco Belsito avrebbe utilizzato in parte per acquistare diamanti, finanziare investimenti tra Cipro e la Tanzania  e per comprare, secondo l’accusa, perfino una laurea in Albania al figlio prediletto del Senatùr, Renzo Bossi, detto il Trota. Vicenda sulla quale pendono due procedimenti penali, uno a Milano e l’altro a Genova.

MANNA LOMBARDA Fondata nel 1982 da Umberto Bossi, è alle politiche del 1987 che la Lega Lombarda, precursore della Lega Nord, conquista i primi due seggi in Parlamento. E nel 1988, anno per altro di elezioni amministrative, inizia a beneficiare del finanziamento pubblico: 128 milioni di lire (66 mila euro). Un inizio soft prima del balzo oltre la soglia del miliardo già nel 1989, quando riesce a spedire anche due eurodeputati a Strasburgo: 1,03 miliardi del vecchio conio (536 mila euro) di cui 906 milioni proprio come rimborso per le spese elettorali sostenute per le elezioni europee. Somma che sale a 1,8 miliardi lire (962 mila euro) nel 1990, per poi scendere a 162 milioni (83 mila euro) nel 1991 alla vigilia di Mani Pulite. Nel 1992 la Lega Lombarda, diventata proprio in quell’anno Lega Nord, piazza in Parlamento una pattuglia di 55 deputati e 25 senatori. E il finanziamento pubblico lievita a 2,7 miliardi di lire (1,4 milioni di euro) prima di schizzare, l’anno successivo, a 7,1 miliardi (3,7 milioni di euro). Siamo nel 1993: sulla scia degli scandali di tangentopoli, con un referendum plebiscitario (il 90,3% dei consensi) gli italiani abrogano il finanziamento pubblico ai partiti. Che si adoperano immediatamente per aggirare il verdetto popolare, introducendo il nuovo meccanismo del fondo per le spese elettorale (1.600 lire per ogni cittadino italiano) da spartirsi in base ai voti ottenuti. Un sistema che resterà in vigore fino al 1997 e che consentirà alla Lega di incassare 11,8 miliardi di lire (6,1 milioni di euro) nel 1994, anno di elezioni politiche che fruttano al Carroccio, grazie all’alleanza con Forza Italia, una pattuglia parlamentare di 117 deputati e 60 senatori. Nel 1995 entrano in cassa 3,7 miliardi (1,9 milioni di euro) e altri 10 miliardi (5,2 milioni di euro) nel 1996.

RIMBORSI D’ORO L’anno successivo, nuovo maquillage per il sistema di calcolo dei finanziamenti elettorali. Arriva «la contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici», che lascia ai contribuenti la possibilità di destinare il 4 per mille dell’Irpef(Imposta sul reddito delle persone fisiche) al finanziamento di partiti e movimenti politici fino ad un massimo di 110 miliardi di lire (56,8 milioni di euro). Non solo, per il 1997, una norma transitoria ingrossa forfetariamente a 160 miliardi di lire (82,6 milioni di euro) la torta per l’anno in corso. E, proprio per il ’97, per la Lega arrivano 14,8 miliardi di lire (7,6 milioni di euro) che scendono però a 10,6 (5,5 milioni di euro) iscritti a bilancio nel 1998. Un campanello d’allarme che suggerisce ai partiti l’ennesimoblitz normativo che, puntualmente, arriva nel 1999: via il 4 per mille, arrivano i rimborsi elettorali (che entreranno in vigore dal 2001). In pratica, il totale ripristino del vecchio finanziamento pubblico abolito dal referendum del 1993 sotto mentite spoglie: contributo fisso di 4.000 lire per abitante e ben 5 diversi fondi (per le elezioni della Camera, del Senato, del Parlamento Europeo, dei Consigli regionali, e per i referendum) ai quali i partiti potranno attingere. Con un paletto: l’erogazione si interrompe in caso di fine anticipata della legislatura.

ELEZIONI, CHE CUCCAGNA Intanto, sempre nel 1999, per la Lega arriva un assegno da 7,6 miliardi di lire (3,9 milioni di euro), cui se ne aggiungono altri due da 8,7 miliardi (4,5 milioni di euro) nel 2000 e nel 2001. E’ l’ultimo anno della lira che, dal 2002, lascia il posto all’euro. E, come per effetto dell’inflazione, il contributo pubblico si adegua alla nuova valuta: da 4.000 lire a 5 euro, un euro per ogni voto ottenuto per ogni anno di legislatura, da corrispondere in 5 rate annuali. E per la Lega, tornata di nuovo al governo nel 2001, è un’escalation senza sosta: 3,6 milioni di euro nel 2002, 4,2 nel 2003, 6,5 nel 2004 e 8,9 nel 2005. Una corsa che non si arresta nemmeno nel 2006, quando il centrodestra viene battuto alle politiche per la seconda volta dal centrosinistra guidato da Romano Prodi: nonostante la sconfitta, il Carroccio incassa 9,5 milioni e altri 9,6 nel 2007. Niente a confronto della cuccagna che inizierà nel 2008, quando nelle casse delle camicie verdi finiscono la bellezza di 17,1 milioni di euro.

CARROCCIO AL VERDE E’ l’effetto moltiplicatore di un decreto voluto dal governo Berlusconi in base al quale l’erogazione dei rimborsi elettorali è dovuta per tutti i 5 anni di legislatura, anche in caso discioglimento anticipato delle Camere. Proprio a partire dal 2008, quindi, i partiti iniziano a percepire un doppio rimborso, incassando contemporaneamente i ratei annuali della XV e della XVI legislatura. Nel 2009 il partito di Bossi sale così a 18,4 milioni per toccare il record storico con i 22,5 milioni del 2010. Anno in cui, sempre il governo Berlusconi, abrogherà il precedente decreto ponendo fine allo scandalo del doppio rimborso. E anche i conti della Lega ne risentiranno: 17,6 milioni nel 2011. La cuccagna finisce nel 2012 quando il governo Monti taglia il fondo per i rimborsi elettorali del 50%. Poi la spallata finale inferta dall’esecutivo di Enrico Letta che fissa al 2017 l’ultimo anno di erogazione dei rimborsi elettorali prima della definitiva scomparsa. Per il Carroccio c’è ancora tempo per incassare 8,8 milioni nel 2012 e 6,5 nel 2013. Mentre “La Padania” chiude i battenti e i dipendenti finiscono in cassa integrazione.

FINANZIAMENTI E RIMBORSI ELETTORALI ALLA LEGA NORD

(1988-2013)

1988 € 66.249,25 (128.276.429 lire)
1989 € 536.646,25 (1.039.092.041 lire)
1990 € 962.919,55 (1.864.472.246 lire)
1991 € 83.903,87 (162.460.547 lire)
1992 € 1.416.991,83 (2.743.678.776 lire)
1993 € 3.707.939,87 (7.179.572.723 lire)
1994 € 6.125.180,49 (11.860.003.225 lire)
1995 € 1.915.697,39 (3.709.307.393 lire)
1996 € 5.207.659,00 (10.083.433.932 lire)
1997 € 7.648.834,36 (14.810.208.519 lire)
1998 € 5.518.448,11 (10.685.205.533 lire)
1999 € 3.947.619,62 (7.643.657.442 lire)
2000 € 4.539.118,41 (8.788.958.807 lire)
2001 € 4.511.422,19 (8.735.332.610)
2002 € 3.693.849,60
2003 € 4.284.061,62
2004 € 6.515.891,41
2005 € 8.918.628,37
2006 € 9.533.054,95
2007 € 9.605.470,43
2008 € 17.184.833,91
2009 € 18.498.092,86
2010 € 22.506.486.93
2011 € 17.613.520,09
2012 € 8.884.218,85
2013 € 6.534.643,57

TOTALE 179.961.382,78

Beni confiscati nel Lazio

“Confiscati Bene” è un progetto partecipativo per l’apertura dei dati sui beni confiscati, nato da un’idea della comunità Spaghetti Open Data e sviluppato da Dataninja.it, in collaborazione con Monithon.it e Twinbit.it.
Il gruppo di lavoro ha estratto, “ripulito” ed analizzato i dati ufficiali sparsi sul sito dell’Agenzia Nazionale per i Beni Sequestrati e Confiscati (Anbsc) e in altri dataset istituzionali, raccogliendoli inunico catalogo dati raggiungibile dal portale www.confiscatibene.it liberamente scaricabile e riutilizzabile. Sul sito del progetto i dati sono navigabili su mappa open source. Lo scorso settembre i Dataninja, in collaborazione con le testate locali del gruppo Repubblica-l’Espresso, hanno coordinato un’inchiesta di datajournalism per presentare i dati sui beni confiscati in dieci Regioni italiane.

Con 645 beni confiscati censiti dall’Anbsc, il Lazio è la sesta Regione italiana per presenza di beni sottratti alla criminalità organizzata. Sale quinta nel ranking nazionale, superando Sicilia, Campania, Lombardia e Calabria, se si considera il numero di aziende confiscate, 140: oltre l’8% delle aziende italianesottratte ai boss è qui.

I dati delineano l’ampiezza del fenomeno criminale e danno un’idea, seppur lontana dalla consistenza effettiva, di quali siano gli investimenti mafiosi nella Regione, concentrati in diversi settori economici: edilizia, ciclo del cemento, appalti, ristorazione, turismo, commercio, distribuzione di prodotti ortofrutticoli, usura e compro oro.

Una presenza sistematica e capillare sul territorio: dal sud pontino nel basso Lazio, lungo il litorale tirrenico, fino all’area metropolitana della capitale e più a nord, nel Lazio settentrionale. In queste zone Cosa nostra, ‘ndrine calabresi, clan camorristici e gruppi “autoctoni” (tra cui le “rimanenze” della banda della Magliana), si spartiscono affari milionari in maniera più o meno cooperativa, a seconda della convenienza del momento. Penetrano nel tessuto economico della regione, grazie alla copertura della cosiddetta area grigia dei colletti bianchi, rimettendo in circuito nell’economia legale gli ingenti capitali accumulati dalle attività illecite, legate in primis al traffico di stupefacenti e all’usura.

I dati della Dia relativi al numero di procedimenti di confiscaconfermano la tendenza: sono 85 nel biennio 2012-2013, erano 32 nel biennio precedente (+53), un dato che fa del Lazio la quinta regione per procedimenti dopo le quattro regioni del sud, storicamente interessate dal fenomeno mafioso. A livello di distretti giudiziari, nel 2013 sono 69 i nuovi procedimenti a Roma, che sale in classifica seconda dopo Palermo (e il dato è parziale: aggiornato al 30 settembre 2013).

Il Lazio sotto assedio: i dati dell’Anbsc Provincia per Provincia

In ambito nazionale Roma è la settima provincia, con 479 beni confiscati, di cui 118 sono aziende: quasi l’85% delle imprese confiscate in Lazio è nella sola provincia capitolina. Simbolo di come la metropoli, cuore politico ed economico del Paese, sia da decenni crocevia di investimenti e interessi criminali. La maggior parte dei beni (335, il 52% del totale regionale) è concentrata a Roma, che nella classifica dei comuni italiani sale al terzo posto dopo Milano e Palermo, e nei comuni dell’hinterland, la zona dei Castelli Romani. Qui lo Stato ha sottratto immobili un tempo nella disponibilità di cosche calabresi, clan camorristici e boss della banda della Magliana.

Ad Ardea e ad Anzio sono state confiscate due lussuose ville ad Enrico Nicoletti, ex cassiere della banda della Magliana, mentre a Grottaferrata, il terzo comune dei Castelli più interessato dalle confische, dopo Monterotondo e Pomezia, i beni appartenevano per la maggior parte all’ex re delle bische clandestine, Aldo de Benedettis. Un solo bene risulta confiscato a Nettuno, il primo ed unico comune del Lazio sciolto per infiltrazioni da parte della ‘ndrangheta nel 2005. A Roma le confische più significative colpiscono ristoranti, alberghi e caffè dai nomi prestigiosi, “lavanderie” intestate a prestanome che le mafie utilizzano come copertura per ripulire ingenti capitali illeciti. È il caso del celebre Café de Paris, storico simbolo della dolce vita felliniana: il bar era controllato dalla famiglia calabrese degli Alvaro di Cosoleto. Così come il noto ristorante George’s, sempre nella disponibilità degli Alvaro, o l’antico Caffè Chigi, confiscato in via definitiva ad un’altra famiglia ‘ndranghetista. L’elenco purtroppo è sconfinato, destinato a crescere: recentissima è la confisca del Caffè Fiume, a due passi da via Vittorio Veneto, eseguita dalla Dia di Roma.

La presenza delle mafie, e della camorra in particolare, risulta più strutturata e consolidata nella zona del sud pontino: Latina, con 93 beni, è la seconda provincia laziale per beni confiscati. Gaeta e Fondi (il primo consiglio comunale “non sciolto” per mafia, nonostante il pesante condizionamento da parte della ‘ndrangheta sull’attività amministrativa fosse stato dimostrato dal processo “Damasco 2”) sono i comuni più interessati dalle confische: a Fondi c’è uno dei più grandi mercati ortofrutticoli d’Europa, centro di grandi interessi commerciali e di lucrosi affari mafiosi. Gaeta detiene un piccolo record: qui, secondo l’Anbsc, il 100% dei beni risulta destinato e consegnato. Recentemente una confisca disposta dal Tribunale di Latina ha sottratto a clan camorristici operanti tra Napoli e Latina beni per un ammontare di quasi 50 milioni di euro.

Spostandoci nel Frusinate, terza provincia laziale per beni confiscati con 67 immobili e aziende, sono le note località di Anagni e Fiuggi (la città delle terme, eletta dal boss Cutolo a rifugio per la sua latitanza), ad essere più colpite dalle confische. La provincia è terra soprattutto di riciclaggio dei proventi illeciti in mano alla camorra, derivanti in gran parte dal traffico illegale dei rifiuti. Resta Viterbo, con soli 6 beni confiscati, la Provincia meno interessata dalle confische. Questo dato, purtroppo, non è garanzia di “immunità” dalle infiltrazioni mafiose: secondo le indagini il viterbese è infatti frontiera delle ecomafie.

 

Ancora poche le destinazioni

Nel Lazio sono 264 i beni destinati e consegnati agli enti, solo il 41% del totale, a fronte di una media nazionale del 54%. Beni, tuttavia, spesso lasciati all’incuria e all’abbandono, o gestiti con finalità che appaiono lontane dal riuso a fini sociali: la destinazione, infatti, non sempre è sinonimo di riutilizzo.Una problematica che la stessa Agenzia conosce direttamente: solo recentemente, dopo anni e molte fatiche, la sezione romana dell’Agenzia è stata trasferita nella sua attuale sede, in un grande appartamento confiscato in via definitiva. L’immobile era stato occupato abusivamente da un avvocato e da un centro benessere, costringendo l’Agenzia a versare per anni quasi 295.000 euro l’anno d’affitto per la vecchia sede, di proprietà della Provincia. Una beffa tutta italiana.

(link)

Ha parlato Spatuzza: quando Ostia era Cosa Nostra

Ne parlavamo ieri. E oggi stiamo sul pezzo:

L’uomo che ha demolito le sentenze sulla strage di via d’Amelio torna a parlare della mafia a Roma. Gaspare Spatuzza racconta di quando a Ostia, sul litorale, comandavano i clan Triassi e Fasciani, che “avevano il paese nelle loro mani”. Boss locali legati alle potenti famiglie mafiose siciliane Cuntrera-Caruana. Vicende degli anni ’90 ma per gli inquirenti ancora attuali, raccontate dal pentito al processo scaturito da decine di arresti compiuti a luglio dello scorso anno. Una clamorosa operazione di polizia contro la mafia nella capitale. Spatuzza, ‘u tignusu’ (il pelato), che ha riscritto con le sue rivelazioni la storia dell’eccidio di Paolo Borsellino e della sua scorta, parla di un periodo in cui era ancora libero (è in carcere dal ’97). L’ex mafioso risponde in video conferenza al pm della procura di Roma Ilaria Calò e dice che “sul litorale romano comandavano loro, avevano il paese di Ostia nelle loro mani”. “Dalla Sicilia, nel 1995, in qualità di reggente e capo del mandamento di Brancaccio, mi mandarono per una missione di morte al fine di scovare e uccidere pentiti di mafia – racconta Spatuzza, tra i massimi responsabili degli attentati del ’93 a Firenze, Roma e Milano -. Arrivato a Roma incontrai un corleonese trapiantato nella capitale che mi confermò che i Triassi ad Ostia erano i padroni e che andavano eliminati. Chiesi consiglio ad un’altra persona e decisi di non fare nulla perché capii che il clan Caruana-Cuntrera, cui erano legati i Triassi, era troppo potente”. Un potere che secondo gli investigatori si sarebbe conservato fino ad oggi, tra usura, gioco d’azzardo, traffico di droga e di armi. Secondo la Procura, tra i Triassi e il clan Fasciani venne siglato, anni dopo, un accordo di non belligeranza per la spartizione degli affari nella zona del litorale. Un accordo che sarebbe durato due decenni. L’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia (Dda) capitolina ha portato all’arresto, nel luglio scorso, di 51 persone tra le quali i capi famiglia Carmine Fasciani e Vincenzo Triassi. Nel processo sono 52 gli imputati, accusati di numerosi reati tra cui l’associazione mafiosa. Tra loro l’intera famiglia-holding dei Fasciani, il capo del clan Carmine, i fratelli Nazzareno, Giuseppe e Terenzio, nonchè Vincenzo e Vito Triassi e Francesco D’Agati, esponente dell’omonimo clan.
Vincenzo Triassi é stato arrestato in Spagna ed estradato ad agosto dell’anno scorso. Per i pm e la squadra mobile c’era una ‘cupola’ mafiosa a controllare il territorio, a Ostia ma non solo. E le parole di Spatuzza sembrano oggi avvalorarne quanto meno la genesi, 20 anni fa.

(ANSA)

Malagrotta, Cerroni e i sette re di Roma

120370583Sette persone sono state arrestate dai carabinieri del Noe di Roma nell’ambito dell’inchiesta sulla gestione dei rifiuti del Lazio. Tra questi anche l’imperatore dei rifiuti di Roma, “l’ottavo re” che ha vissuto negli anni di centrodestra e centrosinistra come il padrone, il monopolista nella gestione del pattume sia nella capitale che nel Lazio: Manlio Cerroni, proprietario dell’area della discarica di Malagrotta, è finito ai domiciliari. Un’inchiesta, quella della Procura di Roma, che scompagina un sistema di potere giocato in forza del controllo della catena di comando a rischio di lasciare la Città eterna inondata di rifiuti. Sistema che ha fatto comodo alla politica, incapace di scelte e di governare il ciclo.   Con Cerroni agli arresti domiciliari altre 6 persone: imprenditori, ma anche funzionari pubblici. Si tratta in questo caso dei dirigenti regionali Luca Fegatelli (“l’uomo dei 10 incarichi”) e Raniero De Filippis. Agli arresti Francesco Rando, uomo di fiducia dell’avvocato e gestore della Pontina Ambiente. Rando gestisce anche la E.giovi srl che, insieme al Consorzio Co.la.ri., è tra le aziende principali dell’avvocato che fatturano in media 150 milioni di euro all’anno. Non è l’unico collaboratore di Cerroni coinvolto nell’inchiesta: anche altri due storici assistenti dell’avvocato sono finiti ai domiciliari, Pino Sicignano (direttore della discarica di Albano Laziale) e Piero Giovi. Associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti e truffa sono tra i reati contestati a vario titolo agli indagati. La Guardia di Finanza di Roma ha nel frattempo sequestrato beni mobili ed immobili per 18 milioni di euro.   L’inchiesta da Velletri 
Ne ha fatta di strada Cerroni, una vita in sella dai tempi della sindacatura nel piccolo paese di Pisoniano, in provincia di Roma, anni Cinquanta – quando si faceva immortalare vicino a Giulio Andreotti – fino all’ascesa da imprenditore. Cerroni ha costruito un impero controllando la mega discarica di Malagrotta che per 30 anni ha ingoiato i rifiuti di Roma, di Fiumicino e della città del Vaticano. Società in tutta Italia e anche all’estero, un patrimonio sconfinato e impianti costruiti in mezzo mondo. Ora l’epilogo dei domiciliari.   L’inchiesta è partita nel 2009, condotta dai carabinieri del Noe di Roma agli ordini del colonnello Ultimo e del capitano Pietro Rajola Pescarini. La Procura di Velletri, pm Giuseppe Travaglini, aveva chiesto gli arresti, ma il gip nell’aprile 2012 ha trasferito gli atti per competenza alla Procura capitolina. Sotto accusa era finita la gestione del polo industriale di Albano Laziale, dove Cerroni, con la Pontina Ambiente, gestisce una discarica e un Tmb, impianto di produzione del cdr, le balle dei rifiuti da incenerire. Secondo l’accusa veniva prodotto cdr in misura inferiore rispetto a quanto veniva poi fatto pagare ai Comuni conferitori, con risparmio per il privato che spendeva di meno per smaltirlo in discarica, che in tanto si esauriva prima, piuttosto che per incenerirlo. I Comuni pagavano per un servizio che non ricevevano procurando così un vantaggio alla società di Cerroni. L’inchiesta per competenza si è spostata a Roma, i pm Alberto Galanti e Maria Cristina Palaia sotto la guida del procuratore Giuseppe Pignatone, hanno chiesto le misure cautelari, accolte dal gip Massimo Battistini.   Il funzionario a disposizione Se c’è l’imprenditoria non può mancare il funzionario regionale, anche lui ai domiciliari, si tratta di Luca Fegatelli. Notizie riguardo l’indagine, che oggi ha portato all’esecuzione delle misure cautelari, erano già state pubblicate eppure Fegatelli, anche quando Nicola Zingaretti è stato eletto presidente della Regione, è rimasto in sella con una sfilza di incarichi (ilfattoquotidiano.it ne contò 10). Tra questi anche quello di direttore dell’agenzia regionale per i beni confiscati. Fegatelli è stato dirigente della direzione regionale energia e rifiuti fino al 2010 prima di passare a capo del dipartimento istituzionale e territorio, ruolo che oggi ricopre. Per gli inquirenti è stato a disposizione del gruppo imprenditoriale, è risultato il vero regista, l’uomo chiave della strategia “cerroniana” in Regione. Insieme a Cerroni ai domiciliari finiscono i suoi uomini di sempre, i fedelissimi che da anni sono stati ai vertici della galassia di imprese dell’avvocato.   Poi c’è Raniero De Filippis. Prima direttore del dipartimento del territorio (dal 2007 al 2010), poi attualmente alla guida della direzione regionale ambiente e politiche abitative. De Filippis, con Fegatelli, fu tra i “fortunati” che vide il suo incarico prorogato da Renata Polverini in extremis del suo mandato da governatrice (che stava esaurendosi sotto i colpi degli scandali). E lo stesso funzionario si è “distinto” anche per la coincidenza di avere come collega – funzionario in Regione Lazio – il nipote Alessandro. Anche De Filippis è stato confermato da Zingaretti nonostante tutto. Nonostante la Corte dei Conti lo avesse condannato a risarcire la Regione accertando un danno erariale di 750mila euro. E nonostante nel 2002 avesse già patteggiato 5 mesi per abuso d’ufficio e falso ideologico per vicende legate ad una comunità montana di cui era stato commissario liquidatore.   L’assessore al telefono 
Ai domiciliari anche Bruno Landi, ex presidente della Regione Lazio negli anni Ottanta, craxiano di ferro, presidente di Federambiente Lazio, che ha ricoperto diversi ruoli nelle società dell’avvocato da Viterbo a Latina. Landi è stato il punto di contatto con il mondo della politica. Quella politica che ha sempre acconsentito alle richieste dell’avvocato per lo spettro della spazzatura in strada e l’incapacità dei partiti di avviare un ciclo di gestione dei rifiuti. Negli atti, l’informativa dei carabinieri del Noe inviata alla Procura di Velletri, anche una telefonata con l’attuale assessore regionale Michele Civita (estraneo all’inchiesta), quando era assessore in Provincia. Conversazioni che raccontano il ruolo e il potere di Cerroni. Era il 2010. I carabinieri scrivono nell’informativa: “L’assessore, sebbene in un primo momento sembra tenere testa alle pretese dell’avvocato, alla fine soccombe dietro la paura di creare un problema igienico-sanitario simile a quello vissuto dalla città di Napoli, così come paventato dal Cerroni stesso”. Un potere e un ruolo che hanno affascinato anche Goffredo Sottile (pure lui estraneo all’indagine), ultimo commissario per l’emergenza rifiuti a Roma, che anche in pubblico aveva espresso apprezzamenti per l’avvocato. Nonostante l’indagine in corso a carico di Cerroni – nota già dallo scorso anno – Sottile ha insistito per affidargli la gestione della nuova discarica che avrebbe servito Roma dopo Malagrotta. Ipotesi poi tramontata. Tramontata come la rete di potere dell’anziano avvocato.

Di N. Trocchia su Il Fatto Quotidiano

Il Lazio dei fuochi

Molto peggio è andata a don Cesare Boschin, un sacerdote di 81 anni trovato incaprettato e ucciso la mattina del 30 marzo 1995 sul letto della canonica dove stava organizzando i fedeli contro i veleni che ogni notte i camion scaricavano nell’invaso di Borgo Montello e contro l’acquisto a suon di minacce, da parte del clan dei Casalesi, dei terreni circostanti la discarica.   Fu detto che il parroco era stato ucciso per motivi personali, ma non ci ha mai creduto nessuno. Del resto, il pentito Schiavone ha spiegato che «dagli anni ’80 quella discarica era roba nostra: pagavamo decine di soldati, davo loro tre milioni di lire al mese per sorvegliare la zona dal Garigliano fino a Roma». Don Cesare parlava con i contadini, che gli sussurravano dei viaggi che i figli disoccupati effettuavano coi camion di notte verso l’Emilia Romagna e la Toscana: partivano vuoti, tornavano carichi di misteriosi bidoni maleodoranti. E con 500 mila lire in tasca.   Di delitti senza colpevoli in zona se ne ricordano troppi. Mario Maio, avvocato, ucciso il 78 luglio 1990 ad Aprilia. L’avvocato Enzo Mosa, ucciso a Sabaudia il 2 febbraio 1998. In molti sono convinti che a farli morire sia stata la mafia dei rifiuti fuorilegge. Qui, se non muori, te la passi assai male. Ad Antonio Turri, ex poliziotto e ora dirigente dell’associazione Libera, hanno fatto esplodere una bomba davanti all’abitazione. Carla B., 20 anni, aveva montato una tenda nel giardino di casa sua, che sta di fronte alle sette buche maleodoranti della discarica di Borgo Montello. Aveva issato anche striscioni di protesta contro i rifiuti illegali. La Regione Lazio le ha offerto 1400 euro di indennizzo «per il disturbo». Che lei ha rifiutato. «Di notte», ha raccontato, «sentivo il rumore dei bidoni tossici che rotolavano nelle scarpate».

L’articolo è  di ASUD, con Antonio Turri avevamo parlato in una puntata di RadioMafiopoli, per il resto ora si aspetta la “presa di coscienza” laziale, eh.