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I nostri “alleati” libici frustano i migranti. Bene così.

(fonte)

“L’Unione europea aumenterà gli aiuti per sostenere la stessa entità ripresa nel video”. La denuncia pesante e drammatica arriva da Msf, la Ong umanitaria che, insieme ad altre associazioni, punta il dito e critica fortemente il recente accordo europeo con la Libia per ridurre i flussi di migranti nel Mediterraneo e contrastare scafisti e trafficanti. Questi gli obiettivi, a fronte dei quali Bruxelles e l’Italia si impegnano a versare fondi e a dare sostegno tecnico e tecnologico alla Guardia costiera libica. L’entità chiamata a mettere in sicurezza le vite dei migranti che fuggono dalla guerra e, in più, ad accompagnarli nei rimpatri.

La realtà però, come mostrano le immagini del video (di cui pubblichiamo solo un frame) ritweettato da Msf e pubblicato dal quotidiano inglese Times è ben altro. Nel video si vedono alcuni miliziani della Guardia costiera libica che frustano uomini a bordo di un gommone, presumibilmente appena intercettato in mare, a poche miglia da Sabratha. La spiaggia libica, quartier generale degli scafisti e da cui partono gommoni e barconi stracarichi di migranti.

Le immagini mostrano miliziani senza scrupoli, uomini impauriti e donne. Tante donne e anche bambini. E’ solo uno spezzone del reportage realizzato da Ross Kemp, “Libya’s migrant hell” che andrà in onda su Sky1 Uk martedì prossimo.

“L’Ue aumenterà il proprio sostegno a questa stessa entità. Ripensiamoci” denuncia Msf Sea, invitando a rivedere l’accordo.

Tutto bellissimo. Ma la “Guardia Costiera libica” non esiste.

Perché sapere è importante? Perché almeno ci si rende conto di come la mistificazione serva per oliare la propaganda e perché, magari, si possano avere elementi utili per sobbalzare ogni volta che qualcuno (Minniti in testa) dice di avere trovato “accordi” con la Guardia Costiera libica.

Ecco cosa scrive (giustamente) Il Post:

I giornali italiani e internazionali hanno raccontato in diverse occasioni di incidenti e violazioni di diritti umani da parte degli agenti libici; hanno raccontato di speronamenti e colpi di armi da fuoco verso le navi delle ONG che soccorrono i migranti, ma anche di maltrattamenti subiti dai migranti colpiti con armi da fuocofruste e bastoni. L’aggressività della Guardia costiera libica – che è stata anche uno dei principali motivi per cui molte delle ONG coinvolte nei soccorsi hanno sospeso le loro attività – non è comunque un fenomeno così recente.

In un rapporto di inizio giugno commissionato dall’ONU e relativo alla transazione politica in Libia (PDF), si denuncia il fatto che la Guardia costiera libica «sia direttamente coinvolta in gravi violazioni dei diritti umani» dei migranti, insieme alle reti dei trafficanti e ai gestori dei centri di detenzione per migranti (dove i diritti umani vengono sistematicamente violati). Nei casi più gravi, le operazioni della Guardia costiera sembrano confondersi con quelle delle milizie armate, che secondo Nancy Porsia, giornalista esperta di Libia, fanno parte di un sistema che «permea tutta la struttura della società» libica.

Il ruolo di queste milizie è diventato così rilevante che alcuni analisti ipotizzano persino che non esista un solo corpo di Guardia costiera, ma due, tre, oppure tante quante sono le milizie che controllano le città costiere. Nessuna di loro, nemmeno quella più legata al governo di unità nazionale, controlla più di qualche decina di chilometri di costa. Quindi, quando si dice di addestrare la Guardia costiera libica, chi si sta addestrando esattamente?

Per approfondire continua qui.

La Guardia Costiera libica chiede “il pizzo” per i salvataggi. A proposito di legalità.

Un pezzo importante di Umberto De Giovannangeli. Da leggere e far leggere:

 

Non solo abbordati, minacciati, mitragliati. Ma ora anche taglieggiati. Nasce il “pizzo” sul salvataggio di migranti. Gestito da ufficiali della Guardia Costiera di Tripoli. È questa, confidano all’HuffPost fonti vicine ad Ong spagnole e tedesche, una delle ragioni, oltre quella della sicurezza, che hanno portato a una scelta estremamente grave. La sicurezza al primo posto, certo, ma fuori dall’ufficialità, il mondo delle Ong dà conto di una “sindrome di accerchiamento” che ogni giorno si alimenta di nuovi elementi che, messi insieme, ricostruiscono una situazione ormai insostenibile.

La Guardia Costiera di Tripoli, legata al Governo guidato da Fayez al-Serraj, detta la sua legge. E costringe le Ong che non si piegano ai suoi diktat ad abbandonare il campo. Vincendo le ragionevoli titubanze, i rischi di finire ammazzati sono altissimi, e con la garanzia dell’anonimato, c’è chi racconta ad HuffPost l’esistenza di un vero e proprio “tariffario”: per un gommone “lasciato salvare” vengono chiesti dai 45 ai 60mila euro.

La merce umana viene cosi “prezzata” due volte: per imbarcarsi e per avere una chance in più di non finire in fondo al mare. È un sistema dell’illegalità che si “legalizza” nel momento in cui a tirare le fila di questi (sporchi) affari milionari sono personale governativo, uomini in divisa, funzionari locali che arricchiscono i loro conti bancari all’estero, con la foraggiata complicità dei “colletti bianchi” che in qualche paradiso fiscale riciclano i proventi dei traffici.

Per mettere fine a questo sistema, il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, nemico giurato di Serraj, ha posto il suo di tariffario all’Europa: 20 miliardi di euro per trasformarsi, come e più del turco Erdogan, nel “Gendarme” del Mediterraneo. E se non si accetta di pagare il pizzo alla Guardia Costiera di Tripoli, allora il mare diventa off limits e la sicurezza una chimera. Così dopo Medici senza Frontiere (MsF) e l’Ong tedesca Sea Eye, anche Save the Children sospende i soccorsi ai migranti nel Mediterraneo. Le decisioni sono determinate dalla volontà della Libia di istituire una zona Sar, “limitando l’accesso delle Ong in acque internazionali” e a un ‘rischio sicurezza’ segnalato dal Mrcc (Maritime Rescue Coordination Centres) “dovuto a minacce della guardia costiera libica”. La Ong tedesca rilancia la denuncia di MsF: “Ci troviamo costretti a questa decisione a causa della mutata situazione di sicurezza nel Mediterraneo”, “non possiamo più continuare il nostro lavoro, non possiamo garantire la sicurezza degli equipaggi”, “l’espansione delle acque territoriali libiche e le minacce alle Ong non ci lasciano altra scelta”, si legge in una serie di tweet.

Come documentato nei giorni scorsi da HuffPost, la Guardia Costiera di Tripoli si è fatta sempre più aggressiva, diventando di fatto parte integrante del “caos” organizzato che da anni sta marchiando il Paese nordafricano. Ufficiali libici gestiscono il traffico di esseri umani in combutta con le organizzazioni criminali ed ora, dopo aver fissato il listino prezzi per essere imbarcati in una carretta del mare, rotta Mediterraneo, hanno anche avviato un’altra attività lucrosa e criminale: il pizzo per il salvataggio.

Le autorità libiche hanno dichiarato pubblicamente di aver istituito una zona di ricerca e soccorso (Sar) e limitato l’accesso delle navi umanitarie nelle acque internazionali al largo delle coste libiche. Subito dopo, il Centro di Coordinamento del Soccorso Marittimo (Mrcc) di Roma ha allertato Medici Senza Frontiere (Msf) di un rischio sicurezza legato alle minacce pronunciate pubblicamente dalla Guardia Costiera Libica contro le navi di ricerca e soccorso umanitarie impegnate in acque internazionali. A seguito di queste ulteriori restrizioni all’assistenza umanitaria indipendente e dell’aumento dei blocchi che costringono i migranti in Libia, MsF ha deciso di sospendere temporaneamente le attività di ricerca e soccorso della propria nave, la Prudence. L’equipe medica di MsF continuerà a supportare le attività di soccorso a bordo della nave Aquarius, di Sos Méditerranée, che al momento sta pattugliando le acque internazionali.

 

“Cari amici, oggi abbiamo deciso a malincuore di sospendere temporaneamente le nostre missioni di salvataggio nel Mediterraneo” scrive su Twitter il direttore di Sea-Eye, Michael Busch Heuer. Analoghe le ragioni. “Il motivo è la mutata situazione di sicurezza nel Mediterraneo occidentale, dopo che il governo libico ha annunciato una proroga a tempo indeterminato e unilaterale delle acque territoriali, in relazione ad una minaccia esplicita contro le ong private”, afferma il direttore della Ong tedesca, spiegando che queste condizioni rendono impossibile portare avanti il lavoro di salvataggio. “Sarebbe irresponsabile nei confronti dei nostri equipaggi”, sottolinea Busch Heuer, ricordando come negli ultimi giorni anche altre Ong, compresa Msf, abbiano annunciato il loro ritiro temporaneo dalla zona di ricerca e salvataggio fuori dalla costa libica. “Nei prossimi giorni e settimane – conclude – analizzeremo attentamente la mutata situazione di sicurezza sulle coste libiche e discuteremo la nostra azione futura”.

Stop anche per Save the Children. “Il nostro team di esperti a bordo della nave Vos Hestia – spiega Save the Children in un comunicato – è preoccupato che in questa nuova situazione le imbarcazioni dei migranti saranno costrette a tornare in Libia e molti bambini e adolescenti moriranno prima di lasciare la nuova zona SaR libica. Secondo quanto riportato, infatti, le autorità libiche avrebbero spostato la loro zona di competenza Sar dalle 12 miglia nautiche alle 70 miglia dalla costa libica e le imbarcazioni su cui viaggiano i migranti sono di gomma molto leggera, imbarcano facilmente acqua e non possono portare abbastanza carburante». L’Ong afferma che “in questo momento non è chiaro se entrando in quella zona, l’operazione di ricerca e salvataggio di Save the Children potrebbe essere a rischio, ma ciò che è chiaro è che molte vite potrebbero essere messe in pericolo, con la diminuzione della capacità di soccorso e salvataggio in quel tratto di mare”. Save the Children è “pronta a riprendere le proprie operazioni nella zona di salvataggio, ma abbiamo il dovere di garantire la sicurezza del team e l’efficacia delle operazioni”, si ribadisce nella nota. “Prima di poter riprendere la missione dobbiamo avere rassicurazioni in particolare sulla sicurezza del nostro personale, Se non le avremo saremo costretti a considerare la sospensione delle operazioni, anche se speriamo di non doverlo fare”, afferma Rob MacGillivray, direttore delle operazioni di Save the Children. L’Ong “è inoltre molto preoccupata per l’attuale diminuzione della capacità di salvataggio in mare, dovuta alla sospensione delle attività di altre Organizzazioni presenti nel Mediterraneo”. “Capiamo e rispettiamo – afferma ancora MacGillivray – tutte le Ong che come noi in questo momento si trovano a dover prendere una difficile decisione. La pausa delle operazioni delle navi mette infatti a rischio vite umane e diminuisce la capacità di salvataggio e per questo è necessario poter continuare riprendere appena possibile”.

“I libici oramai possono fare quello che vogliono con il sostegno dell’Europa e dell’Italia – afferma Stefano Argenziano, coordinatore dei progetti di migrazione di Medici senza frontiere – noi di MsF non vogliamo essere cooptati in questo meccanismo illegale, perverso e disumano”, sottolinea Argenziano, secondo cui “il codice di condotta è solo una distrazione, non ha alcuna base legale. Chi rispetta la legalità siamo noi, come abbiamo sempre fatto. Sono illegali, invece, gli accordi con la Libia, che fanno proliferare gli scafisti e le mafie. Le crisi migratorie si risolvono solo con la gestione ragionata dei flussi. Riprenderemo le nostre attività in mare solo – conclude – se si tornerà alla legge e al diritto internazionale”.

 

“Ci saranno più morti in mare e più persone intrappolate in Libia” aveva detto ieri Loris De Filippi, presidente di Medici senza Frontiere Italia. “MsF rifiuta di essere cooptata in un sistema che mira, a qualunque costo, a impedire alle persone di cercare sicurezza”, rilancia Brice de le Vingne, direttore delle operazioni. “Chiediamo alle autorità europee e italiane di smettere di attuare strategie letali di contenimento che intrappolano le persone in un Paese in guerra, senza nessuna considerazione dei loro bisogni di protezione e assistenza. Servono urgentemente delle vie sicure e legali per migranti e rifugiati, per ridurre inutili sofferenze e morti”, ha aggiunto. Ma smantellare il sistema di collusione sedimentatosi in Libia attorno al traffico di migranti è una impresa sempre più difficile da realizzare.

Un abitante di Zawiya, uno dei punti di maggior traffico di migranti, ha riferito ad “Al Jazeera” che il capo dei miliziani “è pagato direttamente dal governo con il compito di monitorare le attività al porto. Dovrebbe lavorare con i funzionari della marina, ma invece è il boss del traffico di esseri umani. Non solo gestisce quello che accade al porto, ma controlla direttamente anche diversi centri di detenzione”. L’agenzia Askanews riporta che una fonte del ministero dell’Interno libico, contattata da al Jazeera, ha confermato il racconto dell’abitante di Zawiya: “Le guardie costiere corrotte danno i migranti ai miliziani e i miliziani li tengono in centri di detenzione illegali. Qui iniziano a ricattare i migranti. Gli prendono i soldi, i telefoni, i documenti. Con i numeri che trovano sui telefoni, i trafficanti chiamano le famiglie per chiedere un riscatto per lasciarli andare. I miliziani li vendono anche ai caporali della zona che li usano come forza lavoro gratuita. Contrastarli è quasi impossibile, anche per la polizia”. Intanto la marina libica difende la sua decisione di vietare l’ingresso alle navi straniere nella sua zona appena istituita di ricerca e salvataggio. “Tutti i Paesi hanno le proprie zone di ricerca. La decisione è stata presa in base alle leggi e i regolamenti internazionali – ha detto all’agenzia Dpa il portavoce della marina libica, Ayoub Qasim – ciò fa parte del lavoro della marina libica. Lo abbiamo notificato alle agenzie delle Nazioni Unite”.

Sempre per capire: ecco perché Medici Senza Frontiere non ha firmato

(dal sito di MSF)

Nel corso di queste ultime settimane MSF ha avuto una serie di scambi e discussioni aperte e costruttive con il Ministero dell’Interno sul Codice di Condotta. Durante questi incontri abbiamo espresso una serie di preoccupazioni sul documento, richiedendo chiarimenti su temi specifici e sollecitando sostanziali cambiamenti che ci avrebbero messo nelle condizioni di poterlo firmare.Riconosciamo che sono stati fatti sforzi significativi  per rispondere ad alcune delle osservazioni presentate da MSF e dalle altre organizzazioni, tuttavia dopo un’attenta valutazione della versione conclusiva del codice, permangono una serie di preoccupazioni e richieste lasciate inevase.

Dal nostro punto di vista, il Codice di Condotta non riafferma con sufficiente chiarezza la priorità del salvataggio in mare, non riconosce il ruolo di supplenza svolto dalle organizzazioni umanitarie e soprattutto non si propone di introdurre misure specifiche orientate in primo luogo a rafforzare il sistema di ricerca e soccorso.

Al contrario, riteniamo che per la formulazione ancora poco chiara di alcune parti, il Codice rischi nella sua attuazione pratica di contribuire a ridurre l’efficienza e la capacità di quel sistema. Le linee di riferimento e l’impianto generale del Codice sono rimasti sostanzialmente immutati e, per questa ragione, con enorme dispiacere  riteniamo che allo stato attuale non sussistano le condizioni perché MSF possa sottoscrivere il Codice di Condotta proposto dalle autorità italiane.

Quali sono le principali preoccupazioni di MSF riguardo al codice?

Prima di entrare nel merito delle motivazioni che sono alla base di questa decisione è importante sottolineare che le operazioni di ricerca e soccorso di MSF sono sempre state condotte nel rispetto delle leggi nazionali e internazionali e sotto il coordinamento della guardia costiera italiana (MRCC di Roma).

1) Non riafferma con sufficiente chiarezza la priorità del salvataggio di vite in mare

La responsabilità di organizzare e condurre le operazioni di ricerca e soccorso in mare risiede – come è sempre stato – negli Stati. L’impegno di MSF nelle attività di ricerca e soccorso mira a colmare un vuoto di responsabilità lasciato dai governi che auspichiamo sia solo temporaneo. Non a caso da tempo chiediamo agli stati UE di creare un meccanismo dedicato e preventivo di ricerca e soccorso che integri gli sforzi compiuti dalle autorità italiane. Dal nostro punto di vista il codice di condotta non riafferma con sufficiente chiarezza la priorità del salvataggio in mare, non riconosce il ruolo di supplenza svolto dalle organizzazioni umanitarie e soprattutto non si propone di introdurre misure specifiche orientate in primo luogo a rafforzare il sistema di ricerca e soccorso.

2) Le limitazioni al trasbordo su altre navi riducono l’efficienza e la capacità di salvare vite in mare

La richiesta delle autorità italiane che le navi di soccorso concludano le loro operazioni provvedendo allo sbarco dei naufraghi nel porto sicuro di destinazione, invece che attraverso il loro trasbordo su altre navi, riduce l’efficienza e la capacità di salvare vite in mare. In questo modo si crea un sistema di andata e ritorno di tutte le navi di soccorso verso i luoghi di sbarco, che avrà come conseguenza una minore presenza di quelle navi nella zona di ricerca e soccorso. Le stesse Linee guida per il Trattamento delle persone soccorse in mare raccomandano che le navi impegnate in operazioni SAR portino a termine il soccorso il più presto possibile, anche attraverso i trasferimenti ad altre navi se necessario.

3) Principi umanitari a rischio

Il codice inoltre non fa alcun riferimento ai principi umanitari e alla necessità di mantenere la più assoluta distinzione tra le attività di polizia e repressione delle organizzazioni criminali e l’azione umanitaria, che non può essere che autonoma e indipendente. Il rigoroso rispetto dei principi umanitari riconosciuti a livello internazionale è per noi un presupposto irrinunciabile. Essi rappresentano la sola garanzia di poter accedere alle popolazioni in stato di maggiore necessità ovunque nel mondo, assicurando allo stesso tempo ai nostri operatori un sufficiente livello di sicurezza. Ogni compromesso su questi principi è potenzialmente in grado di ridurre la percezione di MSF come organizzazione medico‐umanitaria effettivamente indipendente e imparziale.

4) L’inserimento del Codice nel contesto attuale del Mediterraneo

Le strategie messe in atto dalle autorità italiane ed europee per contenere migranti e rifugiati in Libia attraverso il supporto alla Guardia Costiera Libica sono, nelle circostanze attuali, estremamente preoccupanti. La situazione in Libia è drammatica. Le persone di cui ci prendiamo cura nei centri di detenzione intorno a Tripoli e quelle che soccorriamo in mare condividono le stesse vicende di violenza e trattamenti disumani. La Libia non è un posto sicuro dove riportare le persone in fuga. Una volta intercettate, saranno condotte in centri di detenzione dove, come le nostre équipe che lavorano in quei centri testimoniano ogni giorno, sono a rischio permanente di essere detenute in modo arbitrario e indefinito, trattenute in condizioni disumane e/o sottoposte a estorsioni o torture, comprese violenze sessuali. Ovviamente le attività di ricerca e soccorso non costituiscono la soluzione per affrontare i problemi causati dai viaggi sui barconi e le morti in mare, ma sono necessarie in assenza di qualunque altra alternativa sicura perché le persone possano trovare sicurezza. Contenere l’ultima e unica via di fuga dallo sfruttamento e dalla violenza non è dal nostro punto di vista accettabile. Il recente annuncio dell’operazione militare italiana nelle acque libiche proposta nel momento in cui il Codice di Condotta è stato introdotto costituisce un elemento di ulteriore preoccupazione che ci ha confermato la necessità di marcare l’assoluta indipendenza delle nostre attività di soccorso in mare dagli obiettivi militari e di sicurezza.

MSF continuerà le sue attività di ricerca e soccorso in mare?

Si, MSF continuerà a salvare vite in mare. Anche se MSF non è nelle condizioni di poter firmare il Codice di Condotta, l’organizzazione rispetta le leggi nazionali e internazionali, coopera sempre con le autorità italiane e conduce tutte le operazioni in pieno coordinamento con l’MRCC e in piena conformità alle norme vigenti. Allo stesso tempo comunichiamo la nostra intenzione di continuare a rispettare quelle disposizioni del Codice che non sono contrarie ai punti problematici per MSF, tra cui quelle relative alle capacità tecniche, alla trasparenza finanziaria, all’uso dei trasponder e dei segnali luminosi. Confermiamo inoltre l’impegno a coordinare ogni nostra iniziativa con l’MRCC e anche a garantire l’accesso a bordo di funzionari di polizia giudiziaria, secondo quanto sopra espresso, così come la collaborazione costruttiva con le autorità italiane, nel pieno rispetto degli obblighi di legge.

La guardia costiera libica spara contro una nave italiana: «ci siamo sbagliati, pensavamo a una barca di migranti»

Raffiche di arma da fuoco contro la motovedetta italiana CP 288 della Guardia Costiera sarebbero state sparate da una imbarcazione della Guardia Costiera libica a 13 miglia al largo delle coste libiche. Lo dice Grnet.it, il sito web su questioni di Sicurezza e Difesa precisando che nessuno degli occupanti della motovedetta italiana sarebbe rimasto ferito.

Fonti qualificate interpellate a Roma hanno confermato l’ episodio, che è avvenuto tre giorni fa, e le successive scuse della guardia costiera libica. “La motovedetta libica – spiega Grnet – avrebbe ordinato via radio all’unità italiana di fermare le macchine ma la CP288 si sarebbe data alla fuga, provocando la reazione della controparte libica che avrebbe sparato una raffica di avvertimento a poppa sinistra della vedetta italiana, che riusciva però a distanziare gli inseguitori”.

Successivamente, dice il sito web, “sarebbe arrivata una telefonata di scuse da parte delle autorità libiche, diretta al Comando generale delle Capitanerie di Porto (Maricogecap), che ha ammesso l’errore dei militari libici, i quali avrebbero scambiato l’unità italiana per un barcone di immigrati“.

La vicenda appare però preoccupante. Sia per il rischio corso dai marinai italiani, sia per il fatto che in qualche modo si ammetta da parte libica di avere voluto sparare sui migranti. Si attendono precisazioni.

(fonte)

Così la politica lascia annegare 60 bambini (e 200 adulti). Il video.

Il sempre bravo Fabrizio Gatti, per l’Espresso (qui):

Nave Libra, il pattugliatore della Marina italiana, è ad appena un’ora e mezzo di navigazione da un barcone carico di famiglie siriane che sta affondando. Ma per cinque ore viene lasciata in attesa senza ordini. Il pomeriggio dell’11 ottobre 2013 i comandi militari italiani sono preoccupati di dover poi trasferire i profughi sulla costa più vicina. Così non mettono a disposizione la loro unità, nonostante le numerose telefonate di soccorso e la formale e ripetuta richiesta delle Forze armate maltesi di poter dare istruzioni alla nave italiana perché intervenga.

Il peschereccio, partito dalla Libia con almeno 480 persone, sta imbarcando acqua: era stato colpito dalle raffiche di mitra di miliziani che su una motovedetta volevano rapinare o sequestrare i passeggeri, quasi tutti medici siriani. Quel pomeriggio la Libra è tra le 19 e le 10 miglia dal barcone. Lampedusa è a 61 miglia. Ma la sala operativa di Roma della Guardia costiera ordina ai profughi di rivolgersi a Malta che è molto più lontana, a 118 miglia.

Dopo cinque ore di attesa e di inutili solleciti da parte delle autorità maltesi ai colleghi italiani, il barcone si rovescia. Muoiono 268 persone, tra cui 60 bambini. In questo videoracconto “Il naufragio dei bambini”, L’Espresso ricostruisce la strage: con immagini inedite, le telefonate mai ascoltate prima tra le Forze armate di Malta e la Guardia costiera italiana, e le strazianti richieste di soccorso partite dal peschereccio. In quattro anni, dopo le denunce dei sopravvissuti, nessuna Procura italiana ha portato a termine le indagini¢

Si va a fare un po’ di colonialismo in Libia

Libia

“Dopo aver giustamente ribadito per mesi che non avremmo mai mandato soldati in Libia senza l’invito di un governo di unità nazionale la situazione di stallo diplomatico e l’evoluzione della situazione militare sul terreno costringono il governo a cambiare idea e a decidere di intervenire senza richiesta di intervento da parte di un esecutivo libico, accordandosi con le tribù e le milizie dell’area di tradizionale interesse energetico italiano, ovvero la Tripolitania in cui si trova il terminal Eni di Mellitah, mentre le forze speciali francesi e inglesi sono schierate in Cirenaica a sostegno delle forze del governo di Tobruk. Una scelta di divisione del territorio per aree di influenza dal sapore neocolonialistico”.

Sono le parole di Leonardo Tricarico, già capo di stato maggiore dell’Aeronautica, e forse meriterebbero una discussione. No? (l’intervista è qui)

Niente da scrivere. Ora.

Quintali di parole. Quintali di carne morta. Quintali d’acqua. E ogni volta le parole che sono più o meno le stesse. E questa sensazione che non cambi niente, mai niente, con un’immobilismo che uccide più di un esercito.

Io, per ora, non ho niente di intelligente da dire, non so nemmeno che colore ha il mio dolore. Quindi niente da scrivere. Ora.

Ci saranno morti, molti morti

Mimmo Càndito racconta molto bene cosa potrebbe significare una guerra per l’Italia, oggi:

Sento parole di guerra, per la Libia. Vedo politici che alzano al vento del consenso proclami di impegno militare, muscoli in rodaggio, campagne africane sul bel suol d’amore. Calma, calma. Nessuna spedizione militare è possibile se, prima, non si definisce un obiettivo politico, e se una strategia militare non abbia il supporto di una coerenza di forze in campo.

1) Si dice che ormai non vi sia altra possibilità di soluzione che l’invio di una spedizione militare. A voler essere chiari, questo vuol dire non soltanto raid aerei ma anche, e soprattutto, invio di truppe combattenti sul terreno. E truppe sul terreno significa morti e feriti, e non in piccola quantità poiché si tratta di azioni che si spalmeranno in varie località: il conflitto non avrebbe un fronte unico, ma si torcerebbe negli scontri drammaticamente letali della guerriglia urbana, dove una eventuale supremazia tecnologica conta poco o niente e le trappole e le insidie inevitabili del battersi casa per casa hanno mostrato già in Somalia o in Cecenia quanto pesante sia il costo del guadagnarsi il controllo del territorio.

2) Si parla di creare una operazione di peace keeping. Ma, come le parole in inglese dicono in modo inequivocabile, queste operazioni si fanno quando la pace c’è già, e l’obiettivo è di mantenerla. Se invece la pace non c’è, come in Libia, allora bisogna avere la forza di dire che si fa una guerra vera e propria, o comunque, se si vuol tenere ancora il solito velo dell ipocrisia, che l’operazione è comunque di peace enforcement, cioè di strutturazione e consolidamento di un processo di pace tutto da realizzare. La diversità non è affatto nominalistica. C’è anzitutto il costo di vite umane, che nel PK è statisticamente assai meno elevato che nel PE; e questo conta parecchio, specie per il rapporto tra scelte politiche e consenso dell’opinione pubblica. E poi c’è il problema delle regole di ingaggio, molto più rigide e costrittive per i combattenti del PE: insomma, si fa una guerra e non una operazione più o meno di polizia.

3) Si dice guerra all’Is. Non c’è dubbio che sul terreno oggi l’Is si proponga come la formazione più operativa, con una dinamica di espansione molto accentuata. Ma la Libia postgheddafiana è nel caos attuale perché è mancata finora una forza (militare, non soltanto politica) capace di realizzare una credibile forza centrale, e lo stesso scontro continuo tra miliziani islamisti e miliziani diciamo laici è una definizione di comodo che non riesce a rappresentare la frammentazione estrema dei gruppi armati, migliaia più che centinaia, con identificazioni localistiche, tribali, claniche, gangsteristiche, e di settarismi d’ogni tipo.

4) Come hanno drammaticamente dimostrato la guerra in Afghanistan e quella in Iraq, la definizione di un nation building è fondamentale quanto la vittoria militare. Occorre cioè avere un piano preciso di politiche capaci di realizzare il “dopoguerra”: dunque, individuare le forze politiche e sociali che guideranno il tempo successivo alla fine della guerra, individuare il sistema istituzionale da impiantare, individuare i soggetti con cui relazionarsi già ora perché venga cancellata dall’operazione qualsiasi ombra di un atto di occupazione.

5) Chi guiderà l’operazione, e con quale identità. Posta la latitanza del Consiglio di sicurezza dellOnu, e poste le gelosie e anche gli interessi che sono coinvolti (gli stessi che portarono francesi, e poi inglesi, a lanciare l’attacco a Gheddafi), non appare facile dire quali saranno le forze militari chiamate a partecipare all’attacco e chi ne avrà il comando operativo. L’Italia ha già rivendicato a se’ la leadership, ma l’anticipo non è garanzia sufficiente.

Su questi cinque punti c’è finora il massimo della confusione e dell imbroglio nominalistico. Ma poiché si tratta di lanciare una guerra vera e propria, e poiché ci saranno morti, molti morti, è opportuno che si proceda con chiarezza, e che l’opinione pubblica venga informata di tutto e su tutto