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Licenziamento

Diritti di Cristello

Mi sembra che si parli molto poco, troppo poco, con quel silenzio cortese che si crea di solito per inzerbinarsi a qualche potente, della storia di Riccardo Cristello, che da 21 anni lavora all’ex Ilva di Taranto, che è stato operaio in magazzino e poi tecnico controllo costi dell’acciaieria, che ha aiutato anche in amministrazione per le fatture e che dopo una vita vissuta all’interno dell’azienda senza mai nemmeno una virgola fuori posto ora si ritrova disoccupato, licenziato per “giusta causa” solo che a guardarla da fuori la causa sembra tutt’altro che giusta.

La colpa di Cristello sarebbe quella di avere condiviso sul suo Facebook (e ci potete scommettere che Riccardo non sia propriamente un influencer capace di raggiungere milioni di persone) una lettera non sua, arrivata da un gruppo watshapp, in cui si invitava a seguire in televisione la fiction Svegliati amore mio (un programma con Sabrina Ferilli, eh, mica un pericoloso documentario di giornalismo di inchiesta) in cui si denunciano i danni che il siderurgico provoca in termini di salute pubblica. Sia chiaro: la serie televisiva non è sull’ex Ilva e non ha riferimenti su niente.

Seduto sul divano Riccardo Cristello e sua moglie devono avere pensato che valesse la pena sprecare una serata per un argomento così vicino alla loro vita e alla vita dei loro concittadini, in quella Taranto dove quasi tutti hanno un amico o un parente ucciso dalla gestione criminale dell’acciaieria, ben prima che arrivasse ArcelorMittal a gestirla.

«Dopo anni di rapporti umani vissuti nella fabbrica, mi hanno chiamato la domenica delle Palme dicendomi che c’era un problema di numero e che dovevo rimanere in cassa integrazione per una settimana. In verità mi stavano sospendendo per poi licenziarmi, senza nessun avvertimento, nessuna telefonata, se non la raccomandata col provvedimento», racconta in un’intervista a Repubblica Cristello. Licenziato così, su due piedi, per un post su Facebook che ha fatto rumore solo dopo il licenziamento. Una scelta di marketing tra l’altro che grida vendetta per stupidità e per cretineria.

Poi, volendo vedere, ci sarebbe anche quella vecchia questione dei diritti da rispettare, della politica che dovrebbe alzare la voce (almeno una parte) e di una violenza che ha distrutto la vita di una persona. «Ho l’impressione di essere il capro espiatorio. Lo spirito sembra sia quello di punirne uno per educarne cento. Non possiamo più parlare, non possiamo più commentare, dobbiamo stare zitti e basta», dice Cristello.

Viene da chiedersi se in questo periodo in cui alcuni vedono “dittatura” dappertutto non sia il caso di alzare la voce per una situazione del genere: c’è dentro il diritto al lavoro, il diritto alle proprie opinioni (che tra l’altro nulla c’entrano con l’azienda) e soprattutto c’è il diritto di dire forte che Taranto è stata devastata e sanguina ancora.

Aspettiamo con ansia.

Buon martedì.

Nella foto frame da una videointervista del Corriere della Sera

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Troppo Covid? Licenziato

Un dipendente di un supermercato nel lodigiano a febbraio si è ammalato e da allora ha avuto continue ricadute. Il 18 settembre riceve la lettera di licenziamento per aver superato i 180 giorni di malattia permessi da contratto. Ma il decreto Cura Italia esclude i casi di Covid

Mentre si è scatenata la caccia dei furbi del reddito di cittadinanza, opera utilissima per sparare nel mucchio contro le povertà che in questo Paese continuano a essere viste come una colpa da condannare e mica un problema sociale da risolvere continuano a rimanere taciute le pratiche dei furbetti dell’imprenditoria italiana che in tempo di Covid continua ad approfittarne per fare ciò che non potrebbe fare, in nome dell’emergenza. Lucrare sulla pandemia è un atto di cui si continua a parlare poco, troppo poco.

Una storia arriva da Casalpusterlengo, nel lodigiano, proprio a pochi chilometri da Codogno, zona rossa da cui è cominciato tutto. Lui si chiama Fabrizio Franchini, ha 60 anni e da 33 anni lavora dietro al bancone dei freschi di un supermercato, uno di quelli che ci inonda di pubblicità che raccontano i clienti come una grande famiglia. Il 21 febbraio l’Italia piomba nell’incubo Covid e Fabrizio Franchini racconta che ancora pochi clienti usavano la mascherina e i guanti, eravamo nel periodo in cui mancava ancora la consapevolezza. Otto giorni dopo il paziente 1 Fabrizio si ammala: tosse, febbre dolori e poi la fatica a respirare.

Fabrizio chiama l’ambulanza, passano 24 ore, poi corre al Pronto Soccorso di Crema, si sottopone al tampone e infine il risultato: Covid. Inizia il percorso di molti malati: ospedale, poi isolamento a casa, tutto in attesa del tampone finalmente negativo. Arriviamo ad aprile: finalmente il tampone è negativo ma i malesseri continuano, ancora controlli, gli dicono di mettersi in contatto con il medico del lavoro. Intanto, proprio a causa del Covid, Fabrizio finisce ancora ricoverato in ospedale: miocardite acuta. Gli viene prolungata la malattia fino al 12 ottobre ma lo scorso 18 settembre gli arriva una lettera dal suo datore di lavoro: licenziato. A La Stampa dice: «Sono devastato. Questo è un incubo in cui ho trascinato la mia famiglia. Per altri sei anni devo pagare il mutuo. Mia moglie lavora in una mensa scolastica e speriamo che non chiudano anche quella». L’azienda dice che Fabrizio abbia superato i 180 giorni di malattia permessi da contratto: che probabilmente si sia ammalato proprio sul luogo di lavoro e che il decreto Cura Italia dica chiaramente che il Covid non possa essere conteggiato nel periodo di comporto sembra non interessare.

C’è un altro aspetto interessante nella vicenda: da tempo il datore di lavoro “spingeva” Fabrizio a una pensione anticipata perché il suo era un contratto “pesante”. Lui aveva sempre rifiutato. Il Covid c’è riuscito. E la sua è solo una delle tante storie dei furbetti che hanno lucrato su licenziamenti, su cassa integrazione e sulla pandemia come occasione per snellire con poco rispetto dei diritti. Eppure è un tema enorme, qualcosa che meriterebbe anche una certa attenzione da certa politica. Oppure viene troppo comodo, come sempre, prendersela con i furbetti da pochi spicci. È più comodo, funziona.

Buon mercoledì.

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Licenziamento per ingiusta gravidanza

Giampiero Rossi sul Corriere della Sera racconta la storia di una donna che da quindici anni lavora per un’azienda, praticamente da sempre, e che si ritrova a essere relegata in un angolo, vessata e spinta alle dimissioni perché si è permessa di volere un secondo figlio.

«Dovevi dirmelo già quando tu e il tuo compagno avete deciso di avere un altro bambino», le dice il suo capo, con tutta quella buona dose di presunzione e anaffettività che qui da noi sono un vanto di certa classe dirigente imprenditoriale. Dal suo rientro al posto di lavoro Chiara ha iniziato a subire comportamenti che non aveva mai visto prima, dalle contestazioni per le cose più inutili fino al demansionamento che la porta a tritare carta, rispondere al citofono e poco altro. Anche quando cambiano i telecomandi per il cancello d’entrata in azienda lei non viene presa in considerazione.

Da responsabile di reparto alla fotocopiatrice, con il chiaro invito a accettare una buonuscita per dimettersi altrimenti, le dicono, «ti faranno morire».

Un mondo del lavoro che considera la gravidanza una colpa è la fotografia perfetta del calo della natalità in Italia, dove si spendono molte parole sulle famiglie (e spesso si sproloquia, anche) e ci si dimentica che l’uguaglianza invece ha bisogno di riforme vere e di tutele.

Chiara ha la colpa di avere voluto un figlio. Dicono che dovesse accontentarsi di averne già uno. È il lavoro che diventa padrone degli orari non lavorativi, degli affetti personali, delle scelte sulla maternità. Vivere per lavorare piuttosto che lavorare per vivere. Qualcosa di simile a una prigione.

Per non parlare delle migliaia di dimissioni estorte che gravano sui lavoratori e che non emergono dalle statistiche ufficiali. Non è solo un problema di produttività: è un problema di etica.

Buon mercoledì.

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Licenziato dopo un trapianto: bastardi al lavoro

Non è tanto la notizia a provocare la pelle d’oca quanto i commenti: sull’altare della produttività (presunta, tra l’altro, poiché non c’è progresso senza dignità) questo Paese sta scivolando in una patetica deriva di affezione e mitizzazione per i bastardi. E noi chissà se ce ne stiamo accorgendo.

I fatti: Antonio Forchione ha 55 anni e fa l’operaio alla Oerlikon Graziano, un’azienda metalmeccanica di Rivoli (Torino) con 700 dipendenti nella sede piemontese e ben 1500 in tutta Italia. Attenzione: la Oerlikon Graziano era già entrata nelle cronache (quelle melmose) per la “pause collettive” di nove minuti che concede ai propri dipendenti che avevano provocato già un certo disgusto. Ma torniamo a noi: Antonio qualche tempo fa si ritrova con in mano una brutta cartella clinica che gli racconta di un tumore dentro il suo fegato e pochi mesi di vita.

Per fortuna un trapianto riesce ad avere un insperato successo e a gennaio, dopo sei mesi di “malattia”, Antonio ha potuto rientrare in fabbrica. Gli chiedono di usare tutte le ferie arretrate. Accetta. Sa, Antonio, che non potrà rientrare nella sua posizione lavorativa abituale ed è pronto a un demansionamento pur di arrivare alla pensione. Del resto riciclarsi per tornare utili è l’unica strada per molti lavoratori della sua generazioni. L’azienda invece lo licenzia: “inabile al lavoro” c’è scritto nel suo foglio di via.

Inabile al lavoro oggi significa irrimediabilmente inutile. Non ci sono mediazioni. La dignità dell’uomo è tutta nella sua realizzazione. Anche professionale. Così Antonio oggi è ufficialmente “malato”, colpevole di essere guarito. Non c’è posto, tra mille e cinquecento persone, per un trapiantato. Che schifo.

(continua su Left)

Immagina una città di abitanti senza casa

Come un incubo kafkiano in cui la città diventa un enorme lazzaretto e la malattia è la povertà. Ci siamo abituati a leggere le cifre e ci siamo allenati a fare i conti con le statistiche con l’anaffettività dei matematici, ci concediamo di spaventarsi solo davanti a cifre iperboleche e abbiamo perso tutti i gradi intermedi di sdegno e pietà. Un bianco o nero, giusto sbagliato, vero o falso sui dolori che non ammette eccezioni come una sicumera che ha bisogno di essere inumana per esistere.

Così succede che vengano pubblicati i risultati di una ricerca sui “senza dimora” in Italia e i numeri vengano snocciolati con piglio scientifico:

In tutto sono 47648 persone: una città come Mantova per i certificati di mancato “residente della Repubblica”. I dati sono tutti in un articolo di Vladimiro Polchi:

Molti gli italiani. Le persone senza dimora sono per lo più uomini (86,9%), hanno meno di 45 anni (57,9%), nei due terzi dei casi hanno al massimo la licenza media inferiore e il 72,9% dichiara di vivere da solo. Tanti gli italiani, anche se la maggioranza è costituita da stranieri (59,4%): le cittadinanze più diffuse sono la romena (l’11,5%), la marocchina (9,1%) e la tunisina (5,7%). In media, le persone senza dimora dichiarano di trovarsi in tale condizione da 2,5 anni; quasi i due terzi (il 63,9%), prima di diventare senza dimora, viveva nella propria casa, mentre gli altri si suddividono tra chi è passato per l’ospitalità di amici o parenti (15,8%) e chi ha vissuto in istituti, strutture di detenzione o case di cura (13,2%). Solo il 7,5% dichiara di non aver mai avuto una casa.

Dove vivono? Più della metà delle persone senza dimora (il 58,5%) vive nel Nord (il 38,8% nel Nord-ovest e il 19,7% nel Nord-est), poco più di un quinto (il 22,8%) al Centro e solo il 18,8% vive nel Mezzogiorno (8,7% nel Sud e 10,1% nelle isole). Milano e Roma accolgono ben il 71% dei senzatetto. Dopo Roma e Milano, tra i 12 comuni più grandi quello che accoglie più persone senza dimora è Palermo. 

C’è anche chi lavora. Il 28,3% delle persone senza dimora dichiara di lavorare: si tratta in gran parte di lavoro a termine, poco sicuro o saltuario. I lavori sono a bassa qualifica nel settore dei servizi (l’8,6% lavora come facchino, trasportatore, addetto alla raccolta dei rifiuti, giardiniere, lavavetri, lavapiatti), nel settore dell’edilizia (il 4% lavora come manovale o muratore), nel settore produttivo (il 3,4% come bracciante, falegname, fabbro, fornaio) o nel settore delle pulizie (il 3,8%). In media, quelli che hanno un lavoro guadagnano 347 euro mensili. E ancora: tra le persone senza dimora, ben il 61,9% ha perso un lavoro stabile, a seguito di un licenziamento o chiusura dell’azienda. 

Perché si finisce per strada? La perdita di un lavoro risulta tra gli eventi più rilevanti del percorso di emarginazione che conduce alla condizione di senza dimora, insieme alla separazione dal coniuge e alle cattive condizioni di salute. Ben il 61,9% dei senzatetto ha perso un lavoro stabile, il 59,5% si è separato dal coniuge e dai figli e il 16,2% dichiara di stare male.

Dentro i numeri c’è il lavoro così precario da non garantire l’accesso ad un luogo in cui stare, c’è la famiglia (sempre osannata) che si sfalda demolendo la cittadinanza di uno dei due, c’è il Nord che è più disabitato del sud nonostante la retorica delle proprie eccellenze, ci sono le cattive condizioni di salute che lo Stato certifica come non sostenibili: sono gli esodati dal diritto di cittadinanza, i nuovi invisibili.

Tutto questo mentre il rapporto ONU sulla fame nel mondo presentato oggi scrive a chiare lettere:

La crescita è necessaria e importante, ma non sempre sufficiente, o rapida. Da qui la necessità di sistemi di protezione sociale per assicurare che i più vulnerabili non siano lasciati da soli ma possano invece partecipare, contribuire e beneficiare della crescita.  Per i più deboli, coloro che spesso non possono trarre immediato beneficio dalle opportunità offerte dalla crescita economica, sono necessarie misure come il trasferimento di denaro, come i buoni pasto o assicurazioni sanitarie.  Le reti di protezione sociale possa far migliorare la nutrizione dei bambini – un investimento che ripagherà nel futuro con adulti più robusti, più in salute e con migliori livelli d’istruzione.  Con reti di protezione sociale a complemento della crescita economica, fame e malnutrizione possono essere eliminate.

Che poi è il cuore politico.

Licenziamoli per giusta causa

La deroga all’articolo 18 non è solo l’ennesimo attacco alla Costituzione di un Governo che, morbido con gli amici, cerca di recuperare spessore affondando i lavoratori per mostrarsi muscolare e compatto. Le mani sull’articolo 18 preoccupano perché raccontano soprattutto cosa pensano di noi questi dirigenti politici, spostando ogni giorno di qualche metro più in là il confine di ciò che fino a qualche ora prima era universalmente considerato intollerabile. Perché la malattia più grave, oggi, è riconoscersi educati allo scippo: come se fosse l’inevitabile dazio da pagare per servire il Paese. E così abbiamo confuso fedeltà con servilismo, solidarietà con debolezza, stato sociale con sopravvivenza, confondiamo i diritti con i servizi e sviluppo con necessaria demolizione.

In questa marmaglia di mediocri, i nuovi moderati sono invece i nuovi mediatori dello scippo: quelli che non rincorrono il ladro per prenderlo a borsettate sul grugno, ma ci invitano a valutare come si potrebbe scippare in modo più indolore e più equo. Ci invitano a parlare di manovra come se fosse un atto politico e non per quello che è: la proterva eiaculazione di un vecchio ladro infeltrito che sbava contro le categorie nemiche come un bambino dispettoso. E insieme alla sua corte di gnomi può sorridere quotidianamente per avere superato ancora l’inosabile; può sperare di essere ancora credibile con i suoi amici (se non comprandoli come al solito) affogando gli avversari.
La parabola di Berlusconi è la parabola di due stati che si combattono: uno è lui in persona, l’altro è lo Stato.

Eppure educare un popolo allo scippo non gli è nemmeno stato difficile: gli è bastato coprire le macerie della degenerazione etica e morale con il sogno sempre acceso di una libertà individuale he ha assunto le forme di impunità pressoché garantita. E ogni volta che i suoi “avversari” politici (che mai nella storia della Repubblica sono stati così mansueti da sembrare semplicemente scenografici) si sono infilati nelle pieghe di impunità per salvarsi, il progetto politico di Berlusconi è apparso “inevitabile”.

Diceva Pasolini che “la Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratico-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline”Oggi il silenzio e deserto è anche il desiderio irrefrenabile di diritto all’impunità, l’accettazione di una rappresentanza che sa rappresentare nulla più che se stessa e l’indignazione che non riesce ad accendersi, strutturarsi e diventare coscienza collettiva.

In un bel post, Luca De Biase scrive: “La parola ‘rappresentare’ vive sia nell’ambito della politica che in quello dell’informazione. Se i politici ci rappresentano fanno qualcosa di più preciso di essere semplicemente eletti. E se i giornali ci rappresentano fanno qualcosa di più preciso di essere semplicemente letti. Perché ci sia rappresentanza occorre una sorta di corrispondenza tra quanto dicono, i politici e i giornali, e quanto accade davvero al loro rispettivo ‘pubblico’”. Se non si riconosce più la discrepanza, ci si è abituati allo scippo.

L’articolo 416 del nostro codice penale ci racconta come un’associazione a delinquere esista quando tre o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti, si riconoscono per la stabilità dell’accordo, per il vincolo associativo destinato a perdurare anche dopo la commissione di singoli reati specifici e per l’esistenza di un programma di delinquenza volto alla commissione di una pluralità indeterminata di delitti. Proviamo ad uscire dal recinto penale e rileggere l’articolo nel recinto delle opportunità civili e della sopportazione civile: finché respira ancora, l’articolo 18 sarebbe già una giusta causa per licenziarli.

DA IL FATTO QUOTIDIANO