Mafie Maschere e Cornuti
Recitare, scrivere, viaggiare: io sono qui
Sono in Sardegna. A Macomer. Questa sera siamo in scena con Mafie Maschere e Cornuti ed è l’ora in cui si annusano gli angoli della stanza che ti spetta per provare a farci amicizia, per capire da che parte si abita. Quando viaggio e arrivo in hotel mi accorgo che il mio primo gesto è cercare i luoghi che mi sono famigliari: dove scrivere, dove fare esplodere la valigia, dove trovare uno scorcio dove fare pascolare la fantasia, conto le prese, cerco un bicchiere, scelgo secondo imponderabili giudizi il lato del letto su cui dormirò e i martello in testa la scaletta della giornata, partendo dalla scaletta dello spettacolo e poi a ritroso la cena, il pomeriggio che ho davvero a disposizione, le prove, le luci come vanno piazzate, il palco come va riempito e poi salto all’ora in cui devo ripartire.
In pratica faccio la regia della mia giornata, ripasso il copione del vivere e del recitare, mischiandoli insieme. E poi mi dico “ma davvero ma sei proprio matto a farti la regia”. E non riesco mica a smettere.
Mafie Maschere E Cornuti: la recensione di Diego Mesi
(fonte)
Ridere per non avere paura, per infrangere gli specchi dell’autorappresentazione. Ridere per contestare, per mettere in discussione un sistema di potere – più o meno legittimo – e indurre alla riflessione lo spettatore, chiamarlo in causa partendo dalla coscienza. Come un giullare moderno, l’attore Giulio Cavalli ha coinvolto e conquistato la platea cremasca con Mafie maschere e cornuti, in scena venerdì 16 marzo al san Domenico di Crema.
Ridere, antiracket culturale
Doppia replica per il pubblico cremasco: la mattina dedicata alle scuole, la sera per tutti gli interessati. Più che uno spettacolo, un’analisi collettiva per provare a comprendere il fenomeno della criminalità organizzata attraverso i volti e i nomi che ne hanno costituito la narrazione, fino ai giorni nostri. Cavalli scardina icone e stereotipi giocando la carta della comicità, “perché ridere di mafia è un antiracket culturale. E le mafie, come tutte le cose terribilmente serie, meritano di essere derise”.
Verso il 21 marzo
L’evento promosso dal presidio Libera Cremasco in collaborazione con la Pro Loco, il Comune e il Comitato per la promozione dei principi costituzionali conclude la rassegna Cento passi verso il 21 marzo. Il prossimo appuntamento sarà proprio la giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Mercoledì 21 marzo alle 18.30 Libera sarà in piazza Duomo per leggere i nomi di chi ha perso la vita per mano della criminalità organizzata, da nord a sud.
Due parole su “Mafie Maschere e Cornuti” con Il Fatto Quotidiano
Mafie Maschere e Cornuti continua a viaggiare felice su e giù per l’Italia. E io felice con lui. Ne ho parlato con Il Fatto Quotidiano. Ecco qui:
SondaLife recensisce lo spettacolo Mafie Maschere e Cornuti
(fonte)
(Visto il 28 novembre 2017 al Teatro della Cooperativa)
Di e con Giulio Cavalli
UNA RISATA CHE SBRICIOLA
Il Teatro Cooperativa prosegue, con la giullarata antimafiosa Mafie, maschere e cornuti di e con Giulio Cavalli, nel presentare pièces di solido teatro civile.
Giulio Cavalli, attore e autore teatrale da tempo minacciato, e quindi protetto dalle forze dell’ordine, per la sua attività antimafia, è giullare dell’oggi e senza l’ausilio di costumi e scenografie recupera proprio dalla tradizione giullaresca, rinverdita e rinvigorita negli ultimi decenni del XX secolo da Dario Fo, uno dei modi cardini del teatro popolare: porre alla berlina i potenti con lazzi e sberleffi per smitizzare tutto quello che ”ci fanno credere invincibile ed invece non lo è”. Lavorando soprattutto sulla parola Cavalli, che è fermamente convinto, a ragione, che la parola contro la mafia funziona, propone un teatro diretto che dà fastidio. Nomi, cognomi, fatti e fattacci, aneddoti snocciolati uno dietro l’altro proposti con irriverente ironia che fanno ridere ma inchiodano lo spettatore a riflettere.
Tutto lo spettacolo gira attorno a una potente considerazione di Mark Twain, citata da Cavalli durante lo spettacolo: “Non bisogna avere paura di ciò che non si conosce ma bisogna temere ciò che crediamo vero e invece non lo è”. Figure/figuri, da Riina a Provenzano, ai loro epigoni e uomini della politica e della finanza contigui alla mafia, sono sbriciolati attraverso il suscitare risate. Anche una risata fa male ai potenti o ritenuti tali.
Lo spettacolo si conclude con un finto e sollecitato bis dedicato alla figura poco nota ai più, scrivente compreso, dimenticata, e ancora da chiarire, di Bruno Caccia, magistrato ucciso a Torino nel 1983 nell’attimo di libertà, allontanata la scorta, in cui passeggiava col cane. A ragione Cavalli propone questo ricordo staccato dal resto del corpo della giullarata proponendo un momento intenso, quasi lirico, di teatro tout court.
Affianca Giulio Cavalli il bravo fisarmonicista Guido Baldoni in realtà sottoutilizzato in uno spettacolo, che forse ha bisogno di qualche limatura, ma che è da non perdere.
Mafie, maschere e cornuti rimarrà in scena al Teatro della Cooperativa fino al 6 dicembre.
(Adelio Rigamonti)
MAFIE MASCHERE E CORNUTI – Intervista a Radio Popolare
In occasione del debutto milanese di MAFIE MASCHERE E CORNUTI Ira Palmieri intervista Giulio Cavalli nel programma CULT di Radio Popolare.
Tra Bonifacio VIII e Totò Riina: Inchiostro recensisce lo spettacolo “Mafie maschere e cornuti”
Il giornale degli studenti di Pavia (che ringrazio) recensisce il mio spettacolo “Mafie maschere e cornuti“. Con un articolo che è uno spettacolo, appunto. Ecco qui (fonte):
Quando si parla di mafie, generalmente, gli atteggiamenti sono due.
Il primo cede alla commozione, memore delle vite spezzate dalla piovra del crimine organizzato, e si scaglia in rituali requisitorie contro l’ingiustizia con toni che, per quanto umanamente condivisibili e sacrosanti nella sostanza, rischiano di risultare melensi.
È, in parte, la via dello spettacolo Dieci storie proprio così, di cui già si era parlato ai tempi (http://inchiostro.unipv.it/2017/01/25/laltra-faccia-di-gomorra-dieci-storie-proprio-cosi/).
Il secondo, vantante uno spessore ben inferiore ma forse una maggiore immediatezza, si risolve in un caleidoscopio di espressioni casuali, orribilmente storpiate da palati non natii, che invogliano l’ascoltatore a «stare senza penzier» oppure a ordinare un numero pari di «frittur».
Esso, semplicemente, sospende il giudizio. Il male viene minimizzato e forse sfatato dall’influsso di un prodotto televisivo di tutto rispetto, ma l’impegno viene meno.
Mafie, Maschere e Cornuti, cosiddetta «Giullarata antimafiosa» di Giulio Cavalli (attore, giornalista, politico, fine conoscitore di pizzerie e un sacco di altre apposizioni – il tutto sotto protezione, alla Saviano), cerca una terza via.
La via del ridicolo, della smitizzazione. La via che, tramite l’irriverenza e la risata, conferisce dei volti alle eminenze grigie che si aggirano furtive dietro il velo della malavita: volti farseschi, patetici, risibili. Maschere cornute, calzanti ciabatte di plastica fuori misura con cui evitano a malapena lo sterco di capra che ricopre i loro pavimenti; esaltate al crimine organizzato da colonne sonore ispirate alle loro stesse malefatte.
È il territorio della presa in giro più feroce, rovesciamento carnevalesco di uno statusche il potente malvagio detiene nell’ombra, invisibile ma pesante come una coltre di ferro. Con un giullare Cavalli che, per quanto diverso dal modello affermato dall’imprescindibile tradizione di Dario Fo,[1] compie un lavoro egregio: mise casual, capello importante, voce secca risuonante nella nostra familiare Aula del ‘400,[2] voglia di giocare cogli spettatori e abolizione di qualunque barriera tra diegetico ed extra-diegetico, tra spettacolo effettivo e benigne frecciate al pubblico e all’organizzazione.
Un’esperienza che, come affermato dal suo stesso artefice, non è strettamente teatrale, e che dunque si mostra priva di tutti gli orpelli tradizionalmente associati al teatro. Niente scenografia, niente trovate sceniche, nessuna roboante introduzione alla Fo. Solo un giullare in borghese con il suo bagaglio di esperienze, la sua indignazione e tanta voglia di far ridere; accompagnato dalla fisarmonica espressiva del suo accompagnatore lungo varie scene ritraenti i grandi volti della mafia. Esasperati tutti, dal primo all’ultimo, nella loro ridicola umanità.
Con una nota di malinconia qua e là, impercettibile quanto poetica, per ricordarci di coloro che non hanno potuto fisicamente ridere con noi.
Speriamo vi siate comunque fatti una risata, guardandoci dall’alto.
…
Cazzo, sapevo che sarei andato a parare nella commozione.
Che volete farci.
Du frittur.
Ringraziamo l’UDU pavese per averci offerto questa bella occasione; oltretutto a costo zero. Siamo poi loro grati per aver fornito a Cavalli un leggio – per quanto debitamente nascosto sul palco – e persino dell’acqua a metà spettacolo (permettendo quindi la fluida continuazione dello stesso).
Insostituibili.
[1] Inutile e infruttuoso qualunque tentativo di trovare un aggettivo. Il più dignitoso “foiano”, nella mia ricerca priva di spunti, è infine andato degenerando in “foyer”.
[2] Per quanto, a mio parere, l’acustica non fosse delle migliori; aspetto che personalmente mi ha impedito di sentire alcune battute.
Non che sentendole avrei avuto la garanzia di capirle, ma vabbè.
Il (video)diario di tournée. Mafie Maschere e Cornuti.
Facciamo il lavoro più bello del mondo. Su e giù per l’Italia, questa volta con “Mafie Maschere e Cornuti”. Perché ridere è curativo. Ed è un antiracket culturale. Anche.
Mentre ci siete potete anche iscrivervi al canale YouTube (qui). Torneremo a renderlo vivo. E da lì faremo le prossime dirette. Ecco il video:
Faccio il lavoro più bello del mondo. E non sopporto lo sventolio della scorta.
Anche stasera. A San Didero, che è un comune a forma di gioiello pendente appeso al collo della Val di Susa. Qui dove la montagna è una religione laica da indossare con un certa fierezza. Essere montanari significa avere a cuore la propria terra, qui. La questione TAV non è una disquisizione tra tifosi, qui ti mangia il giardino e, se ti va male, la casa, anche.
Siamo andati in scena con Mafie Maschere e Cornuti davanti a un pubblico che non si aspettava mica uno spettacolo che schiaffasse in faccia quello che non vediamo per stare tranquilli. Qui, anche qui, si aspettavano di vedere “l’animale minacciato”, un tipico esemplare di personaggio televisivo che facesse il triste. E invece no.
In fondo, ci pensavo adesso che sto andando a dormire, faccio il lavoro più bello del mondo: racconto storie e mi diverto nell’appoggiarle in modo inaspettato. Dall’inaspettato, se siamo bravi, si accende la sorpresa e poi la sorpresa partorisce la meraviglia.
Non so dire bene quando mi sono messo intesta di smetterla di fare “l’uomo lupo”, prodotto circense da portare in tournée per sfruttare il filone degli scortati.
Io sono io. Non sono le mie minacce (ho provato a raccontarlo in Santamamma). E ogni volta che qualcuno, sorpreso, mi dice che lo spettacolo è stato un bello spettacolo e che lo spettacolo non ero io mentre lo recitavo mi convinco di avere reso onore al privilegio che mi è capitato: raccontare storie.
E niente. Ve ne sono grato. Ecco. E fanculo le minacce e la scorta. Tutto qui.
Huffington Post recensisce “Mafie maschere e cornuti”
(di Milene Mucci, fonte, la scheda dello spettacolo è qui)
Il teatro di Giulio Cavalli, un’amara risata sulla Mafia per una matura riflessione
A pochi metri dal palco, seduti in platea le “parole” ti piovono addosso. Dirette, come missili, come schegge di verità che, altrove, devi intravedere e faticosamente cercare. Ecco, questo realizzi immediatamente mentre ascolti Giulio Cavalli dire sul palcoscenico che “la parola contro le mafie funziona”. Questo realizzi quando ascolti che il teatro fa paura, il teatro dà fastidio.
Il suo teatro, dà fastidio. Perché il teatro, quello fatto cosi, è diretto, senza mediazione, senza nessun possibile, conciliatorio, tramite. Noi in platea e lui sul palco, che racconta. Non “solo” nomi e cognomi, verissime storie. Racconta di parole che ci hanno “portato via”, snaturandole, come “onore”per esempio.
Racconta di parole come armi, “antimafia culturale” per smontare e deridere quello che ci fanno credere invincibile ed invece non lo è.
“Non bisogna avere paura di ciò che non si conosce ma bisogna temere ciò che crediamo vero e invece non lo e'” ci dice, citando Mark Twain, inoltrandosi come un giullare del ‘500 contro il potere, nello smontare icone mafiose, da Riina a Provenzano. Facendoci capire così, fra un sorriso ed una battuta, che quello che appare non è che dietro, neanche molto distante, niente è a caso e il quadro è molto, molto più grande.
Ci fa capire che “commemorare” è praticare memoria ed è praticare memoria ciò che dà fastidio, così come dà fastidio riderne di mafia e di boss perché “la risata sbriciola ciò che ci hanno fatto sempre credere vero”, compresi certi miti.
Così scopriamo che Provenzano quando viene arrestato viveva in mezzo a cacche di capre, pentolini incrostati, collezioni di santini, pasta senza glutine e non nel bunker di Guerre Stellari che l’immaginario ci farebbe credere.
O che è inutile parlare di minacce ricevute perché fa, invece, bene sorridere, demolendola, sulla bara inviata in teatro e rivenduta perché lui, Giulio il destinatario, non sapeva dove sistemare.
Insomma, durante questa “giullarata” di “Mafie, maschere e cornuti” che sta andando in scena con ascolti storie che sono cresciute da sole, nonostante il silenzio complice e ignavo di Stato, silenzio che tutti tranquillizza e rassicura.
Storie come il funerale “oscenamente privato” di Ambrosoli a Milano, sepolto in fretta d’estate solo con la moglie, i figli e l’amico maresciallo della Guardia di Finanza, o quella dei nomi che non si possono fare nelle storie dei mercati ortofrutticoli o quella dimenticata, e ancora da chiarire, di Bruno Caccia, magistrato ucciso a Torino nel 1983 nell’attimo di libertà in cui passeggiava col cane.
Storie come quella di Denise, figlia di Lea Garofalo o di altri testimoni di giustizia, gente che in Italia troppo spesso deve sparire, mimetizzarsi, dimenticare la propria vita invece di poterla riprendere orgogliosamente in mano, come sarebbe naturale dopo tanto coraggio.
Perché “siamo un paese che si innamora delle fragilità sbagliate”, che non sa proteggere chi merita,un paese che ci fa intendere le intercettazioni come pratica brutale contro la privacy dei potenti “, un paese dove “se hai uno spettacolo antimafia non esci neanche sul gazzettino della parrocchia, mentre se sei al 41 bis ti ascoltano”.
Insomma, il tempo passa veloce mentre Giulio e Francesco Spina, il suo musicista, sono sul palco.
Passa veloce mentre ti scorrono nella mente le immagini della tua città, delle tante città in Italia dove vedi materiaizzati quei soldi di cui sta raccontando, quei “soldi che non devono avere più la forma di soldi”, che diventano ristoranti inspiegabilmente sempre vuoti, centri commerciali stranamente uno accanto all’altro, bar, casermoni di appartamenti deserti o file di capannoni fantasma in aeree industriali di città impoverite.
Ritornano a bomba queste parole nella nostra mente e ci toccano proprio per la semplicità estrema, la forza con cui sono dette. La stessa con cui dobbiamo trattenerle. Perché è un dovere farlo, un dovere portarsele a casa.
Un dovere ricordare quella seconda parte, dimenticata e così poco in luce, dell’art. 4 della nostra Costituzione che ci viene ricordata.
Quella sommersa dalla prima, così fondamentale sul valore del lavoro ma in cui si recita straordinariamente che come cittadini abbiamo il dovere di svolgere secondo le nostre possibilità “un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”!
Il dovere. Insomma, dove ci viene detto chiaramente che “l’indifferenza è incostituzionale” e che è un dovere, quindi ,essere di parte, scegliere da che parte stare. Essere “partigiani”, sempre ,ancora, nel senso autentico della parola.
Essere partigiani chiedendosi cosa abbiamo fatto e cosa facciamo, alla fine, per Denise, per Lea e per tutte queste altre storie che commemoriamo e che ci sono state raccontate.
Si ritorna a questo teatro, che poi teatro alla fine poi non è, perché vivo vero, irridente e demolitore. A questo teatro che ” funziona solo se ce ce lo portiamo a casa”.
Le luci si spengono, la platea si svuota, la convinzione che Giulio ce l’abbia fatta anche stasera a lasciare ancora qualcosa. La capacità di deridere quello che ci fanno vedere e di cercare, invece, seriamente ed ogni giorno quello che ci nascondono.
Insieme all’immagine evocata che, prima o poi, dal fondo della platea si alzi Denise, la figlia di Lea, che salutandoci serena possa dire: “Io sono qui. E sono IO”.
Semplicemente.