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magistratura

Bonifica Caffaro a un’impresa indagata per i fondi neri a Nicoli Cristiani

Un’impresa coinvolta nell’inchiesta sui fondi neri a Nicoli Cristiani si occuperà della bonifica di un’area Caffaro. Per la bonifica dei giardini di via Nullo, contaminati da diossine e Pcb, lo scorso 29 novembre il Comune di Brescia ha incaricato la ditta “Vezzola” di Lonato, il cui consigliere delegato, Stefano Vezzola, è indagato dai magistrati di Brescia per aver versato illecitamente 20mila euro all’ex vicepresidente del Consiglio Regionale del Pdl Franco Nicoli Cristiani. La “Vezzola” è una delle imprese impegnate nella costruzione dell’autostrada “Brebemi”, per cui starebbe effettuando lavori per un appalto superiore ai 50 milioni di euro. Ora si dovrà occupare di asportare terreno contaminato da Pcb fino a 140 volte oltre i limiti su un’area di 7mila mq accanto all’industria chimica “Caffaro”. La bonifica dei giardini di via Nullo era già stata fermata dalla magistratura nel 2009, perché la ditta “Moviter”, incaricata dal Comune, falsificava le bolle di trasporto per smaltire illegalmente il terreno in una cava nella bassa bresciana. L’amministratore della “Moviter” è stato poi condannato per smaltimento illecito di rifiuti, e del caso si è occupata nel maggio scorso anche la Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta dall’onorevole Gaetano Pecorella. Dopo il caso “Moviter” era stato chiesto al Comune di non affidare i lavori a chi offre il massimo ribasso sull’importo dell’asta pubblica: ma il nuovo appalto è stato vinto dalla “Vezzola” grazie a un’offerta al ribasso del 28%, addirittura superiore al 25% offerto a suo tempo dalla “Moviter”.

Andrea Tornago

Radio Popolare, Notizie da Milano e dalla Lombardia, 10-12-12

Memento Rostagno semper

In questi giorni sto lavorando ad un pezzo su Mauro Rostagno (il sociologo e giornalista italiano, come lo definisce wikipedia, ucciso dalla mafia il 26 settembre 1988) per l’evento a Milano che lo vuole ricordare 24 anni dopo. In molti campi Mauro è stato un innovatore pagandone il dazio come spesso succede con l’isolamento che concima l’attentato e poi innaffia il silenzio. Appartengo ad una generazione che su Rostagno ne sa poco, che vede il ’68 come un lungo happy hour molto floreale e che ha bisogno di poche ma rassicuranti vittime di mafia. Con morti certi, assassini identificati e un certo analfabetismo sui mandanti.

Ho ritrovato un pezzo uscito su Il Manifesto ormai più di un anno fa che traccia bene della morte di Rostagno la confusione e la banalizzazione successive. Mi colpisce quella solita zona molle e grigia che una certa semplificazione anche politica oggi cerca di dissipare in questo sempiterno gioco di buoni da una parte e cattivi dall’altra, di Stato in perenne lotta contro la mafia e mai pezzi di Stato consapevolmente o meno al suo servizio. Vale la pena rileggerlo, sul serio:

In fondo, anche quella dell’uccisione di Mauro Rostagno è stata una storia semplice. Cosa Nostra uccise, nel lontano settembre 1988, a Trapani, un giornalista perché le faceva molta paura. Molti erano al corrente che questa sarebbe stata la sua sorte e si adoperarono per facilitare il compito di Cosa Nostra, prima e dopo l’uccisione.
Tra questi, diversi esponenti dell’arma dei carabinieri; magistrati; uomini politici, leader dell’opinione pubblica. Ora che, a distanza di 23 anni, si celebra finalmente un processo contro mandanti ed esecutori, alcune delle circostanze vengono fuori e confermano quanto, in Sicilia, la dissimulazione sia sempre stata un’abitudine; la menzogna ben accetta; la connivenza con la mafia ben più vasta e profonda di quanto sia logico immaginarsi. Per il lettore del manifesto, che è sicuramente già molto informato, riassumo qui alcuni passaggi simbolo della vicenda.

Mauro Rostagno: una storia semplice

SUBITO PRIMA DEL DELITTO

Nel 1988 Mauro Rostagno, una delle icone del ’68, gestisce alle porte di Trapani una comunità per il recupero di tossicodipendenti e alcolisti. A questa attività associa quella di giornalista televisivo, con trasmissioni in cui cui si parla di mafia e corruzione politica, come mai è stato fatto in Sicilia (e non sarà mai fatto dopo): nomi e cognomi, filmati, inchieste vanno in onda ogni giorno dell’emittente locale RTC con ascolti altissimi. All’inizio dell’anno Rostagno è andato dai carabinieri di Trapani a denunciare quanto ha appreso su Licio Gelli e una potentissima loggia massonica in cui convivono i capimafia, i politici e le istituzioni della città e ha ottenuto che la sua denuncia fosse trasmessa in Procura. E’ andato a Palermo a parlare di altre sue scoperte (traffico d’armi all’aeroporto di Kinisia) con il giudice Giovanni Falcone, e a Roma alla direzione del Pci.
Nel luglio 1988, Leonardo Marino, il “pentito” che i carabinieri del colonnello Umberto Bonaventura istruiscono da settimane, dichiara che Mauro Rostagno, insieme ad altri, era al corrente del delitto Calabresi avvenuto nel 1972 ad opera di Lotta Continua. L’attività antimafia di Rostagno viene così resa pubblica, la sua immagine pubblica pesantemente colpita. In tutto il lunghissimo processo Calabresi si scoprirà che, da parte degli inquirenti, non ci fu mai nulla che giustificasse quell’avviso di garanzia. Rostagno chiede inutilmente di essere interrogato. Il 26 settembre 1988 viene ucciso.

IL DELITTO

E’ un agguato in una strada di campagna. L’illuminazione pubblica è stata tagliata. L’automobile usata è stata rubata mesi prima a Palermo e subito dopo viene trovata bruciata. Per la polizia, guidata dal vicequestore Rino Germanà capo della Squadra mobile, ovviamente si tratta di un delitto di mafia. Movente: far tacere Rostagno. Per i carabinieri di Trapani, invece, la mafia non c’entra per nulla. Rostagno è rimasto vittima di spacciatori di droga, oppure di una faccenda di corna. Per la magistratura di Trapani, in città la mafia non esiste (e dire che tre anni prima a venti chilometri di distanza è stata scoperta la raffineria d’eroina più grande d’Europa). All’obitorio, i carabinieri diffondono la voce che nella macchina di Rostagno c’erano rotoli di dollari e siringhe per eroina.

A TRAPANI, SUBITO DOPO

Il capitano dei carabinieri Elio Dell’Anna del Reparto Operativo invia alla procura trapanese un rapporto riservato in cui afferma che il giudice istruttore Lombardi (inchiesta per il delitto Calabresi) gli ha comunicato, a Milano, che «il Rostagno era al corrente di tutte le motivazioni, compresi esecutori e mandanti, concernenti l’omicidio Calabresi; il Rostagno aveva rotto i ponti con i suoi ex compagni di lotta e forse aveva intenzione di dire la verità».
La sua informativa verrà riscontrata come falsa.

A MILANO, CINQUE ANNI DOPO

Nel novembre del 1993 al processo d’appello per l’omicidio Calabresi (dove Sofri. Bompressi e Pietrostefani verranno assolti), l’avvocato di parte civile Luigi Ligotti dichiara: «… Mauro Rostagno non è morto per lupara … è stato fatto tacere dai suoi compagni di un tempo, loro sì mafiosi». (Luigi Li Gotti diventerà poi senatore per l’Italia dei Valori e sottosegretario alla Giustizia nel secondo governo Prodi).

A TRAPANI, OTTO ANNI DOPO

Il procuratore capo Gianfranco Garofalo convoca, gioioso e spavaldo, una conferenza stampa per annunciare la risoluzione del «caso Rostagno». L’ha fatto uccidere la sua compagna Chicca Roveri, che viene arrestata come mandante, per questioni adulterio, gelosie e traffici di droga. «Cosa Nostra non doveva essere gratuitamente incolpata» afferma solennemente. La sua inchiesta crolla miseramente in due settimane, ma questo non impedisce la pubblicazione di un libro di un certo successo: «Rostagno, un delitto in famiglia», edizioni Mondadori.
Se l’iniziativa del procuratore fosse ispirata alla malafede, o semplicemente frutto della sua vanità, o della sua insipienza, ancora oggi non è dato sapere.

A PALERMO, DICIANNOVE ANNI DOPO

Il pubblico ministero Antonio Ingroia chiede il rinvio a giudizio di Vincenzo Virga, capo mafia di Trapani come mandante dell’omicidio; e di Vito Mazzara, suo killer di fiducia, come esecutore. L’accusa presenta una inequivocabile perizia balistica; rivela il movente attraverso le dichiarazioni dei maggiori esponenti di Cosa nostra (Brusca,Siino, Sinacori); rivela che l’uomo che tagliò la luce quella sera, tale Vincenzo Mastrantonio operaio Enel e autista di Virga, venne ucciso nel 1989 «perché sapeva troppo». Mostra che le armi in dotazione a Mazzara hanno ucciso altre persone, oltre a Rostagno.
Ricorda che il filone giusto fu quello della polizia di Stato, che subito indicò la pista mafiosa e che Rino Germanà fu oggetto di un attentato nel 1992, dal quale si salvò con coraggio rispondendo al fuoco. Per quanto riguarda Vincenzo Virga, egli è un ex contadino diventato imprenditore, monopolista del cemento trapanese, proprietario della più grande gioielleria della città. Sodale di Marcello Dell’Utri, per cui agisce come «recupero crediti»; fondatore del primo club di Forza Italia, latitante dal 1994, in carcere dal 2001.
All’udienza di ieri sono stati ascoltati l’allora capo del reparto operativo dei Carabinieri di Trapani, oggi generale, Nazareno Montanti e l’allora brigadiere dei CC, oggi responsabile degli stessi a Buseto Palizzolo (Tp), Beniamino Cannas.
Non si ricordavano quasi nulla, nemmeno le cose che si ricordano tutti.
Anche per loro era stata una storia piuttosto semplice. Routine.

Tangenti/ Credibilità azzerata: adesso Formigoni si dimetta

COMUNICATO STAMPA

L’arresto del vicepresidente Nicoli Cristiani è l’ennesimo caso che si aggiunge all’elenco ormai insopportabilmente lungo di rilievi giudiziari riguardanti il Consiglio e la Regione.

Dai festini a luci rosse alla malasanità, dai rapporti con la ‘ndrangheta al traffico illecito di rifiuti, ce n’è davvero per tutti nel centrodestra lombardo, anche nelle posizioni istituzionali di maggior rilievo.

I filoni di indagine aperti sono molteplici e coinvolgono o in qualche modo riguardano consiglieri, assessori e dirigenti regionali di alto livello. E poi anche amici e parenti stretti.

Abbiamo fiducia nel lavoro della magistratura. Ma da subito occorre rilevare il dato politico: Formigoni, la sua Giunta, la sua maggioranza e la loro azione di governo non hanno più alcuna credibilità, progressivamente minata e a questo punto frantumata da una sequenza di inchieste impressionante.

A breve, per esempio, Regione Lombardia dovrà legiferare sulle cave. Viene da chiedersi, a fronte di quanto sta emergendo, con quale legittimità possa farlo. E il discorso vale ugualmente per tutto il resto, dal piano casa ai provvedimenti nel settore socio-sanitario.

Non è più accettabile alcuna mediazione. Non ci si può accontentare della rinuncia a un ruolo. Perché in discussione ci sono l’onorabilità e l’attendibilità dell’istituzione tutta.

Le ombre sono ormai troppe e troppo dense. Formigoni, peraltro sostenuto da un’alleanza che a livello nazionale non esiste più, ne prenda atto. E la parola torni agli elettori.

OPERAZIONE "COMPENDIUM" CONTRO COSCA GELA; 41 ORDINI CUSTODIA CONTROLLAVANO APPALTI, PIZZO E TRAFFICO DROGA ANCHE AL NORD

gelaLa polizia sta eseguendo 41 ordini di custodia cautelare nei confronti di altrettanti esponenti della cosca mafiosa degli Emmanuello di Gela, nell’ambito di una vasta operazione antimafia tra la Sicilia, la Lombardia, il Friuli Venezia Giulia, la Liguria e la Toscana. I provvedimenti sono stati emessi dal gip del tribunale di Caltanissetta, Giovanbattista Tona, su richiesta della Dda nissena. Gli arrestati devono rispondere, a vario titolo, di associazione mafiosa finalizzata al controllo illecito degli appalti e dei subappalti, intermediazione abusiva di manodopera, traffico di stupefacenti, ricettazione, estorsione, danneggiamenti, riciclaggio di denaro sporco, detenzione e porto abusivo di armi e munizioni. Tra le armi (pistole, fucili ed esplosivo) sequestrati dagli uomini della squadra mobile di Caltanissetta, del commissariato di Gela e delle altre questure che hanno partecipato all’operazione denominata «Compendium», c’è anche una colt calibro 45 che, secondo una perizia balistica, sarebbe stata usata in due omicidi compiuti a Gela, durante la guerra di mafia: quello di Antonio Meroni, nell’89, e quello di Francesco Dammaggio, nel febbraio del 91. La cosca Emmanuello aveva messo in piedi al Nord una ramificata organizzazione, con base a Parma, che controllava imprese, appalti e manodopera in cinque regioni. Tre suoi esponenti si erano persino candidati nella lista Udeur-Popolari alle elezioni comunali di Parma, il 27 e 28 maggio del 2007, senza però essere eletti. L’inchiesta si è avvalsa della collaborazione di una donna tedesca, ex convivente di uno dei fratelli Emmanuello, Alessandro. Una conferenza stampa è stata convocata dagli inquirenti in mattinata nella questura di Caltanissetta.

Sono 40 le ordinanze di custodia cautelare eseguite fino ad ora in tutta Italia dalla polizia, nell’ambito dell’operazione «Compendium» contro la cosca mafiosa degli Emmanuello di Gela (Caltanissetta). Uno solo degli indagati, infatti, è riuscito a sfuggire alla cattura. Questi i nomi degli arrestati. Carmelo Alabiso, 32 anni di Gela detto «u Mongolo»; Nunzio Alabiso, 30 anni di Gela ma residente a Varano Melegari (Parma); Francesco Aprile, 63 anni, di Niscemi detto «u Vecchiu»; Rocco Ascia, di 34 anni, Giuseppe Salvatore Bevilacqua, di 42, Giuseppe Billizzi, di 37, Massimo Carmelo Billizzi, di 34, Maurizio Bugio, di 39, Emanuele Caltagirone, di 33, Marco Gino Carfà, di 31, tutti di Gela; Rosario Cascino, 43 anni, nato a Gela e residente a San Zeno Naviglio (Brescia); Angelo Eugenio Di Bartolo, 32 anni nato a Gela e residente a Parma; Gianfranco Di Natale, 36 anni di Gela; Andrea Frecentese, 33 anni di Pordenone; Raimondo Gambino, 25 anni, Gianluca Gammino, di 35 e Salvatore Gravagna, di 27, tutti di Gela; Claudio Infuso, 31 anni nato a Gela e residente a Parma; Fabio Infuso, 37 anni di Gela; 39 anni di Gela ma residente a Parma; Nunzio Mirko Licata inteso Barboncino, 32 anni di Gela ma emigrato a Ghedi (Brescia); Claudio Lo Vivo 34 anni di Gela ma domiciliato a Pordenone; Crocifisso Lo Vivo, 44 anni di Gela; Marco Maganuco, 33 anni, Francesco Martines di 26, e Sandro Vissuto, di 21 anni, tutti di Gela; Claudio Parisi, 54 anni, domiciliato a Genova; Gianluca Pellegrino, 25 anni e Alessandro Piscopo, di 35, e Giuseppe Piscopo, di 33, tutti di Gela; Tommaso Placenti, 33 anni di Gela ma residente a Parma; Paolo Portelli, 41 anni di Gela; Bruno Salvatore Quattrocchi, 30 anni, di Gela, Nunzio Quattrocchi 34 anni di Gela residente a Sesto Fiorentino; Calogero Sanfilippo, 34 anni di Mazzarino; Gabriele Giacomo Stanzà, 39 anni nato a Capizzi (Messina) e residente a Valguarnera (Enna); Salvatore Terlati, 35 anni di Gela inteso «Ciap Ciap», Daniele Turco, 40 anni, Francesco Vella, di 34 anni e Domenico Vullo, di 33, anche loro di Gela.

Nell’ambito dell’operazione la Squadra mobile di Caltanissetta e gli uomini del Commissariato di Gela hanno anche trovato un arsenale vero e proprio, Tra le armi rinvenute ci sono pistole, fucili e persino esplosivo. Sequestrata anche una colt calibro 45 che, secondo una perizia balistica eseguita dalla Polizia, sarebbe stata usata in due omicidi compiuti a Gela durante la guerra di mafia. In particolare, l’omicidio di Antonio Meroni, nell’89, e quello di Francesco Dammaggio, nel febbraio del 91.

Il clan Emmanuello era in possesso di una grande quantità di armi e munizioni. Durante le varie perquisizioni sono stati sequestrati un fucile a canne mozze, mezzo chilo di esplosivo, una decina di pistole e numerose munizioni. Dalle perizie balistiche, una delle pistole è risultata già usata in due omicidi di mafia, quello di Antonio Meroni, nell’89, e quello di Francesco Dammaggio, nel ’91. Ma nelle attività illecite c’era spazio anche per le ricettazioni. I malviventi rubavano ciclomotori da rivendere o da restituire agli stessi proprietari dietro pagamento di riscatto. Come covo usavano una vecchia casa del centro storico, dove nascondevano i proventi dei vari furti e dove si riunivano per programmare la loro attività criminale. L’organizzazione mafiosa non tralasciava alcun affare. Nei suoi traffici illeciti c’erano spazio anche per la ricettazione di reperti archeologici di età greca, tra cui un vaso e delle monete, definite di rilevante interesse storico-culturale.

CODICE DEONTOLOGICO PARTITI A GELA

«Un codice di autoregolamentazione e deontologico dei partiti a Gela in vista delle prossime elezioni contro la mafia». A suggerirlo  è stato il procuratore aggiunto della Dda di Caltanissetta, Domenico Gozzo. Il pubblico ministero parlando della «eccessiva drammatizzazione della situazione gelese al punto da proporre il ritorno dell’esercito in città» ha ribadito «il ruolo naturale ed insostituibile nella lotta alla mafia delle forze dell’ordine e della magistratura». Gozzo ha detto: «non condivido la battaglia e la contrapposizione politica tra destra e sinistra sul fronte della lotta alla mafia, piuttosto sarebbe opportuno che in vista delle prossime amministrative tutti si mettano d’accordo per tempo sull’azione politica contro la mafia».

LUMIA (PD), STRAORDINARIO COLPO A CLAN

«Un’importante operazione, un colpo straordinario inferto al clan Emanuello e alle sua rete di collusioni con i sistemi imprenditoriale e politico ramificati in tutta Italia». Così il senatore Giuseppe Lumia, componente del Pd in Commissione antimafia, commenta le 41 ordinanze di custodia cautelare eseguite nell’ambito dell’operazione Compendium della Dda della Procura di Caltanissetta. «Nessuno si illuda che a Gela l’azione antimafia si sia esaurita – aggiunge l’esponente del Pd – il cammino avviato dall’ex sindaco Rosario Crocetta e delle associazioni antiracket andrà avanti con maggiore intensità e determinazione. Non bisogna abbassare la guardia perchè le nuove leve sono pronte a prendere il posto dei capi colpiti duramente, in quest’ultimo periodo, dalle forze dell’ordine e dalla magistratura»

La vendita dei beni confiscati e l'etica in insalata

Calpestare il senso più profondo della legge 109/96 è una vigliaccheria che piuttosto che finire con tante scuse nel lavandino in un momento di impunità (anche culturale) si è presa la briga di diventare legge.

Il riuso sociale dei beni confiscati alle mafie non è un particolare attuativo di un codicillo per collezionisti; quanto piuttosto il profumo fresco di una rapina a cuore armato compiuta ai danni del rapinatore. Se ci fosse la follia di pesare la bellezza in cui galleggiano le leggi, il riuso sociale delle porcilaie mafiose trasformate in castelli dagli stracci dei “guardiani del faro” che spolverano la vergogna sarebbe un fiore da tenere tra i capelli.

Monetizzare la bellezza è un rutto da papponi che mandano sul marciapiede la dignità di una nazione; è “mettere nel conto” il lavoro della magistratura e delle forze dell’ordine e riportare lo scontrino ai boss, coperto e pane incluso; è sedersi sulla tomba di Pio La Torre e bisbigliargli all’orecchio che è stato tutto uno scherzo; è ridurre la cura amorevole e dolorosa di un padre adottivo alle coordinate per un bonifico; è lasciare, ancora una volta, una legge di bellezza a marcire fuori dal frigo.

Ci dovrebbero raccontare perché, in un paese in cui la moralità si conta in biglietti da 100, i beni confiscati non dovrebbero rifinire nelle mani delle mafie. Ci dovrebbero spiegare quando si è deciso che l’etica dei modi e e dei mezzi sia stata abolita senza che ce ne siamo accorti.

Le mafie nella propria pochezza culturale sono sempre state le regine obese al ballo dei simboli e dei segnali; il maxi emendamento presentato dal governo alla Legge Finanziaria che l’Aula del Senato ha approvato a maggioranza il provvedimento che introduce la possibilità di vendere i beni confiscati alla criminalità mafiosa (Emendamento 2.3000, relatore Maurizio Saia, PDL) e che stabilisce che se trascorsi i 90 giorni che devono intercorrere tra la data della confisca e quella dell’assegnazione – previsti dalla legge 575/65 – i beni non sono stati assegnati, essi possono essere venduti è una polka di riapertura verso la criminalità.

Per apparecchiare una tavolata con meno prodotti di LIBERA TERRA, ma per secondo un bel piatto di etica in insalata.

FIRMA L’APPELLO

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