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Perché von der Leyen ha incontrato Erdoğan, esecutore materiale della folle politica europea

Fa ancora discutere la sedia non concessa alla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen mentre il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel invece si godeva il suo posto d’onore con il sultano turco Recep Tayyip Erdoğan. Quello sgarbo è stata anche l’occasione di ricordare al mondo come il leader turco stia progressivamente fiaccando i diritti delle donne nel suo Paese, partendo da quel 2016 in cui disse che le donne fossero “da considerarsi prima di tutto delle madri”, relegandole al loro medievale scopo riproduttivo e poi fino ai giorni scorsi in cui il suo governo ha annunciato tronfio il ritiro dalla Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.

In Turchia tra l’altro si contano in media circa due femminicidi al giorno e le donne, complice anche la pandemia, hanno sempre minor accesso al mondo del lavoro e alla politica. Insomma, quello sgarbo ha radici profonde e ben venga quella sedia che è mancata per ricordarcelo. Nella discussione generale però sembra scomparso il motivo per cui l’Ue ha scelto di incontrare Erdoğan e il fatto non è secondario perché il sultano turco evidentemente può permettersi certi atteggiamenti, forte del suo ruolo internazionale. Allora bisognerebbe avere il coraggio di dirlo, di scriverlo che Erdoğan altro non è che l’esecutore materiale della folle politica europea che ha delegato alla Turchia l’esternalizzazione delle frontiere europee per controllare il flusso migratorio in modi anche poco leciti.

Nel 2016, in piena crisi migratoria, Bruxelles, su spinta soprattutto della Germania, ha firmato un accordo che garantiva 6 miliardi di euro alla Turchia per trattenere i migranti nei propri confini (si stima che siano almeno 4 milioni di persone) e grazie a quell’accordo tutti i migranti irregolari che arrivavano sulle isole greche attraverso il confine turco sono stati riportati in Turchia. Quei soldi hanno lo stesso odore di quelli che arrivano alla cosiddetta Guardia costiera libica (sì, proprio quella che Draghi ha blandito pochi giorni fa) per fare da tappo in Africa. Soldi che rendono ancora più forti governi che non hanno nulla di democratico e che non hanno nulla da spartire con i valori europei eppure tornano utili per essere i sicari dell’Unione europea. C’è qualcosa di più di quella sedia che manca. Giusto un anno fa, a marzo del 2020, Erdoğan ha ricattato l’Europa sulla gestione dei flussi per alcune partite geopolitiche come quella siriana e per reclamare altri soldi.

La Grecia aveva denunciato la Turchia di “spingere” verso la sua frontiera i migranti e alla fine l’Ue per garantire la propria “fortezza” ha deciso di continuare a foraggiare la Turchia: la presidente garantisce «la continuità dei fondi. E se la Turchia rispetta gli impegni, previene le partenze, prevede i rientri dalla Grecia, i fondi Ue garantiranno ancor più opportunità», dice la nota ufficiale. Del resto già a settembre Bruxelles aveva inserito un passaggio significativo nella sua proposta su asilo e immigrazione scrivendo nero su bianco che lo stanziamento di fondi alla Turchia «continua a rispondere a bisogni essenziali. Essenziale sarà perciò che l’Ue dia alla Turchia un sostegno finanziario continuativo». Su quella stessa linea si è assestato anche Mario Draghi che fin dal suo primo discorso pubblico a febbraio disse che gli accordi per esternalizzare le frontiere (che tradotto significa pagare anche Erdoğan) erano fondamentali per controllare l’immigrazione.

Da tempo diverse organizzazioni umanitarie, tra cui anche Amnesty International, giudicano la politica europea sulle frontiere disumana oltre che totalmente fallimentare eppure nessuno è mai riuscito a mettere in discussione questo modello che si annuncia valido anche per il futuro. Ad Ankara l’Ue ha manifestato anzi la volontà di rafforzare i legami economici con la Turchia, ha concesso la revisione del sistema di visti in ingresso nell’Ue e un’unione doganale per favorire il passaggio delle merci. Quando a von der Leyen è stato chiesto dei diritti calpestati in Turchia la presidente ha risposto: «I diritti umani non sono negoziabili. Vorremmo che la Turchia rivedesse la decisione di uscire dalla convenzione di Istanbul e che rispettasse i diritti umani». Insomma, siamo alle raccomandazioni per quanto riguarda il rispetto dei diritti e ai soldi fumanti invece per contenere i disperati. Forse se Erdoğan fa il bullo non è solo colpa sua.

L’articolo Perché von der Leyen ha incontrato Erdoğan, esecutore materiale della folle politica europea proviene da Il Riformista.

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L’equilibrista

Ci sono alcune novità dopo la conferenza stampa di ieri di Mario Draghi. Draghi, l’abbiamo capito bene, è uno con la stoffa democristiana, uno che le conferenze stampa le sa gestire provando ad accontentare tutti ma soprattutto stando attento a non scontentare nessuno, rimanendo sempre in bilico su quell’area di grigio che può essere scambiata per meritevole equilibrio oppure per inutile furbizia. Ognuno si costruirà la sua opinione, ognuno gli concederà la sua porzione di stima.

Draghi ha seppellito Salvini. E ha fatto bene, una volta per tutte: dire «ho voluto io Speranza nel governo e ne ho molta stima» significa togliere una volte per tutte dalle mani di Salvini e compagnia cantante la vecchia scusa di essere con Draghi ma contro Speranza, di fare opposizione a un pezzo del governo continuando a restare nel governo. Non sarà facile ora per il leader leghista raccontarlo ai suoi. Ci sarà da ridere e fa piacere che un presidente del Consiglio (ancora una volta) metta Salvini di fronte alla sua patetica doppia faccia.

Draghi durissimo su Erdogan: «Con questi dittatori, di cui però si ha bisogno per collaborare, bisogna essere franchi per affermare la propria posizione ma anche pronti a cooperare per gli interessi del proprio Paese, bisogna trovare l’equilibrio giusto». Chiamare un dittatore “dittatore” è sempre una bella notizia, cooperare con un dittatore rientra in quella realpolitik che può piacere o meno.

Ma se qualcuno è felice per la stoccata al sultano turco, allora dovrebbe ascoltare però le giustificazioni piuttosto flebili sulla Libia. Perché Draghi ha parlato di corridoi umanitari che non esistono, al di là di qualche sparuta persona e perché ha parlato di “superamento dei centri di detenzione libici” che sono proprio quel “salvataggio” per cui aveva ringraziato la Libia. No, proprio no. Non ci siamo.

Quindi un colpo di qua e un colpo di là. Non accontentare nessuno e non scontentare tutti. Come gli equilibristi, quelli che ti stupiscono per i primi metri sulla corda e poi annoiano tantissimo, e riescono a essere pericolosi per sé e per gli altri.

Buon venerdì.

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Migliori anche a leccare chi viola i diritti umani

Ieri il presidentissimo Mario Draghi si è recato in Libia. Ogni volta che qualche esponente di qualche nostro governo passa dalla Libia non riesce a evitare di tornare con le mani sporche di sangue per un qualsiasi atteggiamento riverente verso i carcerieri sulle porte d’Europa, come se fosse una tappa obbligata per poter frequentare i salotti buoni per l’Europa e anche il “migliore” Draghi è riuscito a non stupirci rivendicando con orgoglio l’amicizia, la stima e la vicinanza ai libici che violano i diritti umani. Ogni volta è stupefacente: negare la realtà di fronte ai microfoni della stampa internazionale deve essere il risultato di un corso speciale che viene inoculato ai nostri rappresentanti. E ogni volta fa schifo.

«Sul piano dell’immigrazione noi esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa nei salvataggi e nello stesso tempo aiutiamo e assistiamo la Libia», ha detto ieri Draghi, con quella sua solita soffice postura con cui ripete le stesse cose dei suoi predecessori aggiungendoci un filo di zucchero a velo. Sarebbe curioso chiedere a Draghi cosa si intenda esattamente per “salvataggio” poiché i libici (questo è un fatto accertato a livello internazionale) si occupano principalmente di respingimenti, di riportare uomini e donne nei lager dove continuano le torture, gli stupri e lo schiavismo, poiché i libici sono quelli che il 10 ottobre del 2018 hanno sparato a una motovedetta italiana, poiché i libici sono gli stessi che il 26 ottobre 2019 hanno sparato sulla nave Alan Kurdi per impedire il soccorso dei migranti, poiché i libici sono gli stessi che il 28 luglio dell’anno scorso hanno sparato contro i migranti uccidendone 3. Solo per citare qualche esempio, ovviamente, dato che quel pezzo di mondo e di mare continua a rimanere sguarnito, anche questo per precisa volontà politica.

Caro presidente Draghi, siamo contenti che lei si senta barzotto per questo tipo di salvataggi ma le auguro di non essere mai “salvato” così. Del resto legittimare quella combriccola di assassini che vengono educatamente chiamati Guardia costiera libica è un esercizio retorico che dura da anni: anche su questo il governo dei migliori continua spedito. Considerare la Libia un partner affidabile significa accettare la sistematica violazione dei diritti umani: come si chiamano coloro che elogiano in pubblico un’attività del genere facendola passare per doverosa? Ognuno trovi comodamente la risposta.

E mentre Draghi si è occupato di proteggere gli affari dell’italiana Eni in Libia, di farsi venire l’acquolina in bocca per l’autostrada costiera al confine con Bengasi (che riprende il tragitto della strada inaugurata nel 1937 da Benito Mussolini e conosciuta anche come “via Balbia”, evocando le azioni di Italo Balbo), di continuare a foraggiare la Guardia costiera libica per essere il sacchetto dell’umido dell’umanità nel Mediterraneo e di riassestare e ristrutturare la Banca centrale libica, i diritti e i dolori delle persone rimangono sullo sfondo come semplice scenografia dei barili di petrolio per cui i canali sono invece sempre aperti.

Del resto secondo il leader libico Abdul Hamid Dbeibah, Italia e Libia «soffrono e devono affrontare una sfida comune che è l’immigrazione clandestina, un problema che non è solo libico ma internazionale e riguarda tutti, come il terrorismo e il crimine organizzato». Solo che in questo caso sono chiarissimi gli autori di questo “problema”: Libia, Europa, Italia e la nuova spinta di Mario Draghi.

L’eccelso Mario Draghi insomma è il vassoio di cristallo delle solite portate, schifose uguali ma dette con più autorevolezza: avrebbe dovuto essere “il competente” e invece non è riuscito nemmeno a leggere un rapporto dell’Onu prima di andare in gita. E ovviamente non ha nemmeno fatto un giro nei campi di concentramento, non sia mai, si sarebbe sporcato il polsino.

Buon mercoledì.

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Lo Stato di diritto (e di rovescio)

Non sta facendo il clamore che dovrebbe il fatto che in Italia la giornalista Nancy Porsia, esperta di Libia, sia stata illegalmente intercettata nell’inchiesta di Trapani sulle Ong nel 2017. Partiamo da un punto fermo: Nancy Porsia non è mai stata indagata eppure un giudice, su richiesta della polizia giudiziaria, ha deciso che si potesse scavalcare la legge: nel documento di 22 pagine – datato 27 luglio 2017, firmato Sco, squadra mobile e comando generale della Guardia costiera – ci sono fotografie, contatti sui social, rapporti personali e nomi di fonti in un’area considerata tra le più pericolose dell’Africa del nord. La notizia è stata data dal quotidiano Domani che racconta come indirettamente, oltre a Porsia, siano stati ascoltati anche il giornalista dell’Avvenire Nello Scavo, conversazioni della giornalista Francesca Mannocchi con esponenti delle Ong, il cronista di Radio Radicale Sergio Scandurra mentre chiedeva informazioni ad alcuni esponenti di organizzazioni umanitarie impegnate in quei mesi nei salvataggi dei migranti, Fausto Biloslavo de Il Giornale e Claudia Di Pasquale di Report.

Primo punto fondamentale: in uno Stato di diritto che non venga rispettato il diritto per intercettare giornalisti che parlano con le loro fonti (nel caso di Porsia addirittura vengono intercettate anche telefonate con l’avvocata Ballerini, la stessa che si occupa della vicenda Regeni) significa che il potere giudiziario (su mandato politico, poi ci arriviamo) scavalca le regole per controllare coloro che per mestiere controllano i poteri per una sana democrazia. È un fatto enorme. E non funziona la difesa di Guido Crosetto (il destrorso “potabile” che è il braccio destro di Giorgia Meloni) quando dice che anche i politici vengono intercettati: si intercetta qualcuno dopo averlo iscritto nel registro degli indagati e soprattutto in uno Stato di diritto si proteggono le fonti dei giornalisti, con buona pace di Crosetto e compagnia cantante.

C’è un altro aspetto, tutto politico: in quel 2017 gli agenti di sicurezza presenti a bordo della nave Vos Hestia dell’Ong Save the Children portano foto e prove (che poi si sono rivelate più che fallaci visto che tutto si è concluso in una bolla) prima a Matteo Salvini, prima ancora che alle autorità giudiziarie. È scritto nero su bianco che proprio Salvini su quelle informazioni ci ha costruito tutta la sua campagna elettorale. Un giornalista, Antonio Massari, racconta la vicenda su Il Fatto Quotidiano e costringe Salvini ad ammettere di avere avuto contatti, prima delle forze dell’ordine, proprio con i due vigilantes che puntavano a ottenere in cambio qualche collocazione, magari politica. Salvini, conviene ricordarlo diventerà ministro all’Interno.

Rimaniamo sulla politica: l’ordine di indagare sulle Ong parte dal ministero dell’Interno dell’epoca di cui era responsabile Marco Minniti. Ci si continua a volere dimenticare (perché è fin troppo comodo farlo) che proprio da Minniti parte la campagna di colpevolizzazione delle Ong che verrà poi usata così spregiudicatamente da Salvini e compagnia. Ad indagare sull’immigrazione clandestina viene applicato il Servizio centrale operativo (Sco) della polizia di Stato, il servizio di eccellenza degli investigatori solitamente impegnato in indagini che riguardano le mafie. Anche questa è una precisa scelta politica.

Rimane il sospetto insomma che politica e magistratura si siano terribilmente impegnate per legittimare una tesi precostituita. Di solito (giustamente) ci si indigna tutti di fronte a una situazione del genere e invece questa volta poco quasi niente. Anzi, a pensarci bene la narrazione comunque è passata.

È gravissimo e incredibile eppure accade qui, ora.

Buon martedì.

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“Avete superato la capienza della nave poiché salvate troppe persone dalla morte”, l’assurdo motivo con cui la Guardia costiera blocca la Sea Watch

Di questa storia, fidatevi, ne leggerete poco in giro perché l’anestesia istituzionale sul tema degli immigrati è roba che ci trasciniamo dal governo giallorosso e che non accenna a modificarsi. Dopo il primo governo con Conte alla presidenza del Consiglio e Salvini a urlare nelle vesti di ministro, l’atteggiamento dello Stato nei confronti delle Ong si è modificato nella forma ma non nei contenuti: dalla prosopopea dei porti chiusi rilanciata dappertutto si è passati a un ostruzionismo verso le navi di soccorso nel Mediterraneo che si è avvalso di carte bollate e di un po’ di insana burocrazia, senza dirlo troppo in giro. Nella desertificazione del Mediterraneo la ministra Lamorgese è riuscita ad ottenere risultati addirittura migliori di Salvini pur mantenendo le carte a posto e, chissà perché, apparendo perfino più “umana” del predecessore.

L’ultima penosa scena è accaduta porto di Augusta, domenica mattina, quando l’Ufficio di sanità marittima e di frontiera ha autorizzato la nave Sea-Watch 3 a lasciare il porto dopo la quarantena di 16 giorni. Era tutto pronto per ripartire ma due ufficiali della Guardia costiera hanno voluto effettuare un’ispezione straordinaria (che nonostante il nome è diventata di sconcertante ordinarietà per le navi delle Ong) contestando due mancate comunicazioni di arrivo in porto, la mancata sicurezza sul conferimento dei rifiuti, uno sversamento dei olio da una gru e soprattutto l’incredibile accusa di avere salvato “troppe” persone: i 363 naufraghi salvati dalle onde dalla nave hanno portato al superamento della capienza della nave. Sì, avete letto bene: per non irretire i burocrati della Guardia costiera evidentemente bisognava salvarne meno, contare i salvati fino al numero massimo consentito e poi lasciare gli altri in balia delle onde. Forse sarebbero morti, è vero, ma almeno sarebbe stato tutto meravigliosamente regolare.

Puntuale come sempre è arrivata anche la contestazione kafkiana di non possedere la certificazione per svolgere una regolare attività di salvataggio: anche questa è una scena che si continua a ripetere e tutte le volte tocca riscrivere e ricordare che non esista nessun tipo di certificazione né nell’ordinamento italiano e tantomeno nell’ordinamento tedesco a cui la Sea-Watch 3 fa riferimento battendo bandiera tedesca. Come nelle commedia all’italiana dove ci sono vigili che chiedono documenti che non esistono così succede nei nostri porti. Peccato che non faccia ridere nessuno e che intanto la gente continui a morire.

Tra le carte del controllo si scorge anche un’altra gravissima irregolarità che deve avere allarmato i solerti ispettori: un tubo di gomma intralciava un’uscita di sicurezza della sala macchine e anche se è bastato dargli un colpo con un piede per rimetterlo a posto, il grave delitto è stato prontamente verbalizzato. Diciotto irregolarità in tutto che ovviamente complicano il ritorno in mare. Per quanto riguarda la mancata certificazione Sar da parte dello stato di bandiera il Tar di Palermo in realtà si è già pronunciato sospendendo il freno di un’altra nave (la Sea-Watch 4) ma evidentemente le sentenze contano solo se tornano utili.

È il sottile gioco della burocrazia usata come clava che il governo Draghi perpetua in perfetta continuità con il governo precedente, con la ministra Lamorgese in testa ma anche con la collaborazione (anche questa sempre poco raccontata) del ministero della Salute (guidato da Roberto Speranza che con il suo partito dell’accoglienza ne fa pure un vanto) che mette tutte le navi delle Ong in quarantena a differenza di ciò che accade con le navi commerciali (anche quando queste ultime compiono salvataggi con migranti perfino positivi) e del ministero dei Trasporti che ha la responsabilità delle ispezioni della Guardia costiera. A proposito: ministro dei Trasporti è proprio quel Enrico Giovannini che fino a poco tempo fa sedeva nel direttivo di una Ong (Save The Children) e chissà che lui, almeno lui, non abbia qualcosa da dire.

L’articolo “Avete superato la capienza della nave poiché salvate troppe persone dalla morte”, l’assurdo motivo con cui la Guardia costiera blocca la Sea Watch proviene da Il Riformista.

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Lamorgese peggio di Salvini, il Pd scelga: Travaglio o accoglienza?

Tenetevi forte perché manca poco al ritorno dello spettro dei migranti clandestini, degli sbarchi sconsiderati e di tutta quell’orrenda narrazione contro le Ong nel Mediterraneo lasciato sguarnito in modo criminale dall’Europa. E preparatevi perché se è vero che conosciamo già perfettamente alcuni personaggi in commedia, a partire da quel Salvini che già da qualche giorno è tornato sull’argomento per provare a frenare lo scontento tra quei suoi elettori affamati di cattivismo e ancora di più incattiviti dalla pandemia, e a ruota ovviamente Giorgia Meloni per occupare quello spazio politico, soprattutto tornerà alle origini quel Movimento 5 Stelle che si è ammantato di solidarietà per incastrarsi nel secondo governo Conte ma che ora è pronto al ritorno delle sue radici peggiori.

La tromba della carica l’ha suonata ovviamente Marco Travaglio in uno dei suoi editoriali che sostituiscono da soli le assemblee di partito e che ha usato tutto l’armamentario del razzismo con il colletto bianco per puntare il dito contro le Ong, per irridere le “anime belle” (che per Travaglio sono la categoria di tutti quelli che non la pensano come lui ma che non possono essere manganellati con qualche indagine trovata in giro) e mischiando come al solito le accuse con le sentenze, gli indagati con i colpevoli, le ipotesi dei magistrati come “fatti” e gli stantii pregiudizi come acute analisi. Così la chiusura delle indagini della procura di Trapani per un presunto reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nel caso Iuventa basta al suggeritore dei grillini per richiamare tutti alle armi: picchiamo sui migranti, bastoniamo le Ong e chissà che non si riesca spremere qualche voto anche da qui.

E fa niente che sia dimostrato dai dati (e da anni) che “gli angeli delle Ong” (come li chiama Travaglio per mungere un po’ dalla vecchia accusa di “buonismo”) non “attirano e incoraggiano il traffico di esseri umani”: Travaglio trova terribilmente sospetto che delle organizzazioni dedite al soccorso in uno spicchio di mare conoscano perfettamente quel mare e i luoghi dei naufragi. La competenza del resto da quelle parti è vista con diffidente apprensione. Ma agli osservatori più attenti, quelli che semplicemente non si sono fatti infinocchiare dallo storytelling del Conte bis, forse non sarà sfuggito che Di Maio sia proprio quel Di Maio che discettava allegramente delle Ong come “taxi del mare” quando c’era da accarezzare l’alleato Salvini e Giuseppe Conte sia proprio quel Giuseppe Conte, nessuna omonimia, che partecipava allegramente alla televendita dei Decreti Sicurezza che andarono alla grande durante la stagione della Paura.

Ovviamente nessuna parola sull’omesso soccorso in violazione del Diritto internazionale del Mare che è un crimine di cui il governo italiano e l’Europa si macchiano almeno dal lontano 2014 quando il governo Renzi decise di stoppare l’operazione Mare Nostrum della nostra Marina militare e niente di niente su quella Libia (e qui invece ci sono tutte le prove e tutte le condanne per farci una decina di numeri di giornale) che è un enorme campo di concentramento a forma di Stato, così amico del governo italiano. Ma la domanda vera è chissà cosa ne pensa il Pd, questo Pd che ci promette tutti i giorni che domattina si risveglierà più umano e attento ai diritti e che è sempre pronto (giustamente) per opporsi sul tema a Salvini ma che è stato così terribilmente distratto con i tanti Salvini travestiti che ci sono qui intorno.

Il Pd che ci ha indicato come “punto di riferimento riformista” il presidente del Consiglio che fece di Salvini il più splendente Salvini, il Pd che ancora fatica a riconoscere le responsabilità del “suo” ministro Minniti, il Pd che con il precedente governo prometteva “un cambio di passo” sui diritti dei migranti fermandosi solo alla sua declamazione, mentre la ministra dell’Interno del Conte bis, lo racconta il ricercatore dell’Ispi Matteo Villa, bloccava contemporaneamente ben sette barche delle Ong tra il 9 ottobre e il 21 dicembre 2020 riuscendo a fare meglio perfino di Salvini, rispettando in tutto e per tutto la linea d’azione del leader leghista stando con la semplice differenza di non rivendicarla sui social insieme a pranzi e gattini.

Se il nuovo Pd di Letta vuole recuperare credibilità forse è il caso che ci dica parole chiare su questa irrefrenabile inclinazione dei suoi irrinunciabili alleati perché alla fine Salvini rischia di risultare onestamente feroce in mezzo a tutti questi feroci malamente travestiti.

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San Fatturato

La sentite l’aria che tira? A volte basta mettere insieme un po’ di pezzi, provare a ricomporre le tessere per farsi un’idea del punto in cui siamo, anche perché la preoccupante uniformità di pensiero che si respira ottunde le sensazioni e non c’è niente di meglio delle sensazioni ottuse per inseguire interessi particolari che così sfuggono più facilmente.

Ricapitoliamo: a inizio pandemia si sviluppa un pericoloso focolaio nella bergamasca che provoca una strage di cui abbiamo memoria per i camion militari costretti a trasportare le bare. Ci si interroga (anche la magistratura) sul perché non sia stata istituita per tempo una “zona rossa” che avrebbe potuto limitare i danni e Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia, rilasciò una sconcertante intervista in cui disse testualmente che erano «contrari a fare una chiusura tout court così senza senso» e di averne parlato direttamente con la Regione: «Ci siamo confrontati, ma non si potevano fare zone rosse. Non si poteva fermare la produzione», disse.

Poi, pensateci: in un anno di pandemia abbiamo visto puntare il dito un po’ contro tutti, siamo passati dagli anziani che pisciano il cane ai corridori agli spiaggiati agli aperitivisti alle scuole – presumibilmente saremmo passati anche ai cinema e ai teatri, ma sono chiusi da un’eternità – e chi poi ne ha più ne metta. Niente su fabbriche e pochissimo sui pendolari. Il mondo del lavoro (soprattutto quello produttivo) sembra immune al virus, se fate la rassegna stampa di quest’anno.

In compenso certa stampa si è lanciata in un piuttosto ridicolo sforzo per dirci che fare il rider è un lavoro bellissimo: ve li ricordate quei giorni in cui si leggevano articoli che favoleggiavano di ciclisti che guadagnavano 4mila euro al mese (poi si scoprì che non era vero) tanto per convincerci che chi non trova lavoro è uno sfaticato e chi è povero è un fallito? Ecco, tenetelo a mente.

Poi. Qualche giorno fa Bonomi ha rilasciato un’intervista da brividi in cui ha chiesto di avere più possibilità di licenziare per rilanciare il lavoro. E nessuno che gli ha riso in faccia, pensa te.

Poi ve la ricordate Letizia Moratti che chiedeva di vaccinare in base al Pil? Prese gli applausi dei soliti turboliberisti ma poi fece un po’ marcia indietro. Bene: ieri Regione Lombardia (la disastrosa regione che non riesce a vaccinare poco più di qualche manciata di anziani che dovrebbero essere una priorità) ha annunciato in pompa magna di avere stretto un accordo con Confindustria (questa volta alla luce del sole) per vaccinare i dipendenti nelle aziende. Qualcuno ha fatto notare che forse ci sono altri problemi a cui dedicarsi e loro hanno risposto che sì, sì ma hanno fatto la conferenza stampa solo così per dire.

Tutto questo mentre ci si prepara per l’ennesima volta al lockdown che ci permetterà di uscire per andare a lavorare, di respirare aria aperta per tornare indietro e addirittura di avere una libera uscita per andare a comprare cibo.

Straordinario.

Buon giovedì.

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Eccoli i migliori /3

La sottosegretaria alla Cultura che non legge libri, quello all’Interno che rivendica i decreti Sicurezza e quello all’Istruzione che scambia Topolino per Dante. Ecco a voi la pattuglia delle nuove nomine leghiste

Ormai frugare tra l’elenco dei migliori nel governo dei migliori rischia di diventare una rubrica quotidiana ma ci tocca e lo facciamo. Ieri c’è stata una sorta di presentazione alla stampa dei sottosegretari leghisti, capeggiati da un Salvini euforico che nel frattempo continua indisturbato a fare opposizione al governo di cui fa parte, come se nulla fosse, portando avanti la sua prevedibilissima strategia che continuerà irresponsabilmente a usurare il governo per non farsi usurare troppo da Giorgia Meloni. Anche questo purtroppo è uno dei tanti nodi di un governo che tiene dentro quasi tutti e quindi lascia la libertà di non tenere dentro praticamente nessuno a livello di responsabilità.

C’era ovviamente Lucia Borgonzoni, di cui tanto si sta scrivendo e si sta parlando in queste ore, quella che è diventata sottosegretaria alla Cultura e che candidamente ammette di non leggere libri. Meglio: nel luglio 2018 ammise di averne letto uno in tre anni e probabilmente con questa media è risultata la più assidua lettrice di tutto il suo partito e per questo è stata messa lì. Del resto il mondo della cultura, già in sofferenza acuta per la pandemia, ormai è pronto a tutto: per loro la prima ondata non è mai finita.

C’era Stefania Pucciarelli, andata al ministero della Difesa, già presidente della commissione Diritti umani del Senato, già travolta dalle polemiche per un like lasciato a un commento pubblicato sulle sue pagine social e nel quale si inneggiava ai forni crematori per i migranti che richiedevano una casa popolare. Ieri ha detto di non avere fatto altri errori facendo intendere di sentirsi assolta. A posto così. Del resto per loro il razzismo è un problema solo se sbrodola in giro, mica se si porta con fierezza.

Viceministro delle Infrastrutture e trasporti è Alessandro Morelli, quello che si definisce “aperturista” perché vuole riaprire tutto ma non si capisce bene come vorrebbe fermare il contagio, ex direttore de La Padania e de Il Populista: si ritroverà a lavorare a fianco a fianco con Teresa Bellanova (un’altra grande esperta di infrastrutture, immagino) e ha già rilanciato l’idea del ponte sullo stretto di Messina. «Noi abbiamo utilizzato per tanto tempo lo slogan delle ruspe, oggi le ruspe servono per costruire», ha detto ieri. Che ridere, eh?

Nicola Molteni è sottosegretario al ministero dell’Interno. Ieri ha detto: «Rivendico i decreti Sicurezza con orgoglio e dignità perché sono stati strumenti di legalità e di civiltà». Vedrete che (brutte) sorprese in tema di solidarietà.

Sottosegretario all’Istruzione è Rossano Sasso. Sasso nel 2018 partecipò a un flash mob contro i migranti a Castellaneta Marina. Una ragazza era stata violentata e il nuovo sottosegretario aveva già trovato il colpevole, uno straniero definito un «bastardo irregolare sul nostro territorio». Peccato che sia stato assolto con formula piena. Per non farsi mancare niente pochi giorni fa era convinto di citare Dante scrivendo una frase di una versione della Divina Commedia a fumetti apparsa su Topolino. All’istruzione, per capirsi. «Può capitare, è stato uno scivolone, sono sincero non sapevo che si trattasse di Topolino – ha detto ieri – vorrà dire che dovrò approfondire i miei studi classici e se mi sentisse il mio professore del liceo mi tirerebbe le orecchie».

Sottosegretario all’Economia è Claudio Durigon, il padre di Quota 100 nonché il cantore della Flat tax, a proposito di equità fiscale, che quando serve diventa addirittura “progressiva”. «Sappiamo che questo è un governo tecnico e non politico», ha detto ieri. Chissà come se la rideva intanto sotto i baffi.

Buona fortuna e buon venerdì.

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La mattanza non percepita

Provate a immaginare cosa scriverebbero certi giornali se dei terroristi, meglio ancora se islamici ché funzionano meglio, ogni 5 giorni ammazzassero qualcuno in Italia…

Provate a immaginare se dei terroristi, meglio ancora se islamici ché funzionano meglio, ogni 5 giorni ammazzassero qualcuno in Italia. Ogni 5 giorni esce una notizia sulle pagine di cronaca contro questa violenza che, sono sicuro lo scriverebbero così, “mette in pericolo il nostro Paese”. Oppure immaginate un’etnia, preferibilmente nera ché funziona meglio, che ogni 5 giorni uccida una donna, una “nostra” donna come scriverebbero sicuramente certi giornali e provate a prevedere cosa direbbe la politica, certa politica. Oppure immaginate di mettere certe morti tutte in fila, una dopo l’altra. Così:

11 gennaio: Sharon ha 18 mesi e vive a Cabiate, in provincia di Como. Muore per una stufa che le cade addosso in casa. La Procura di Como scopre che la bimba però era stata maltrattata e violentata e ha disposto l’arresto del compagno della madre, Gabrile Robert Marincat, che ora si trova in carcere. La madre nutriva dei sospetti.

16 gennaio: Victoria Osagie, 34 anni, è stata uccisa dal marito nel tardo pomeriggio all’interno della propria abitazione a Concordia Sagittaria in provincia di Venezia. L’uomo l’ha colpita più volte con un coltello al termine di un litigio. I tre figli hanno assistito alla scena.

24 gennaio: Roberta Siragusa. Il corpo della diciassettenne al momento del rinvenimento si presentava parzialmente carbonizzato e nudo nella parte alta, con i pantaloni abbassati, il volto tumefatto, il cranio ferito e parte dei capelli rasati (da stabilire se di proposito o a causa delle bruciature).‍ Per recuperare i resti della ragazza sono dovuti intervenire sul posto i Vigili del fuoco. È stato arrestato Pietro Morreale, 19 anni, fidanzato della vittima. I due litigavano spesso: un mese prima la vittima aveva un occhio tumefatto.

29 gennaio: Teodora Casasanta, 39 anni e il figlio Ludovico di 5 anni sono stati uccisi dal marito e padre Alexandro Vito Riccio a Carmagnola. Il gesto sarebbe stato premeditato, poiché sul posto è stato ritrovato un biglietto su cui il trentanovenne avrebbe espresso l’intenzione di togliere la vita alla coniuge e al bambino. Lei aveva espresso la volontà di separarsi. L’esame autoptico ha rilevato circa 15 fendenti sul corpo della moglie e 8 su quello del figlio. L’aggressore avrebbe prima accoltellato le vittime nel letto, poi si sarebbe accanito su di loro pestandoli con diversi oggetti presenti in casa, tra cui il televisore.‍

1 febbraio: Sonia Di Maggio, 29 anni, è stata uccisa a Minervino di Lecce. La vittima si trovava in strada, nella frazione di Specchia Gallone, insieme al fidanzato quando all’improvviso è stata aggredita da un individuo: era Salvatore Carfora, 39 anni, ex compagno della giovane. Armato di coltello, ha sferrato numerosi fendenti alla ventinovenne. Il fidanzato ha tentato di difenderla, ma nulla ha potuto contro la furia dell’aggressore. Sonia si è accasciata al suolo in un lago di sangue. Vani i tentativi dei sanitari giunti sul posto che hanno provato a rianimarla, ma le lesioni erano troppo gravi.

7 febbraio: Piera Napoli, cantante di 32 anni e madre di tre figli, è stata uccisa la mattina del 7 febbraio 2021 all’interno dell’abitazione in cui risiedeva a Palermo, nel quartiere Cruillas. Il marito della donna, Salvatore Baglione, 37 anni, dipendente di una ditta che trasporta carni, intorno alle ore 13.00 si è costituito dai Carabinieri alla caserma dell’Uditore per confessare il delitto. Circa un mese prima la donna aveva richiesto l’intervento della Polizia dopo un’ennesima lite in casa con il coniuge, ma alla fine non se l’era sentita di sporgere denuncia.

7 febbraio: Luljeta Heshta, 47 anni, è una donna originaria dell’Albania, da 10 anni in Italia e regolare sul territorio, morta nel pomeriggio del 7 febbraio 2021 all’ospedale Humanitas di Rozzano in provincia di Milano. È stato arrestato il convivente della donna. Il gesto sarebbe stato compiuto a causa della presenza di un presunto amante nella vita della donna. La stessa nei giorni precedenti avrebbe lasciato l’abitazione che condivideva con il compagno per separarsi da lui.

12 febbraio: Lidia Peschechera, 49 anni, è stata trovata morta durante il pomeriggio del 17 febbraio 2021 all’interno della sua abitazione in zona Ticinello a Pavia. In carcere c’è il suo ex convivente Alessio Nigro. Il ventottenne, senza fissa dimora, si definiva un clochard e aveva problemi legati alla dipendenza dall’alcol. La donna si era offerta di aiutarlo, ospitandolo anche in casa, ma l’individuo non aveva fornito segnali di ripresa, anzi, in un’occasione lei aveva anche dovuto chiamare la Polizia per sedare una lite, al termine della quale non se l’era sentita di denunciare. Successivamente però la stessa aveva intimato al giovane l’intenzione di volerlo mandare fuori dall’abitazione a causa dei suoi comportamenti violenti, sfociati poi nell’omicidio.

19 febbraio: Genova. Clara Ceccarelli, 69 anni, è stata uccisa dall’ex compagno Renato Scapusi, 59 anni. Si parla di circa 100 coltellate. La donna è stata uccisa al termine del proprio turno di lavoro. All’inizio del 2020 si erano lasciati e da quel frangente sarebbero iniziate una lunga serie di aggressioni e persecuzioni messe in atto dall’uomo. La donna da giorni si era pagata il funerale e aveva provveduto a organizzare l’assistenza per il padre anziano e il figlio disabile. Sapeva di morire.

Ieri, 22 febbraio: Deborah Saltori, 42 anni, è stata uccisa in località Maso Saracini a Cortesano, frazione della città di Trento. La vittima sarebbe stata colpita con un’accetta dall’ex marito Lorenzo Cattoni, 39 anni, in una zona di campagna dove lui stava lavorando. Ad allertare i soccorsi sarebbe stato un passante che, durante il pomeriggio, ha notato i corpi esanimi dei due ex coniugi, riversi al suolo (l’uomo avrebbe infatti tentato di togliersi la vita). Secondo le prime ricostruzioni, Cattoni era già stato ammonito due volte dal questore della città per violenza domestica, anche verso la sua precedente compagna. Lo stesso era sottoposto agli arresti domiciliari a casa dei genitori nel comune di Terre d’Adige (Trento) perché, nel corso degli ultimi anni, era ricorso più volte a violenze fisiche e psicologiche nei confronti della vittima.

Sempre ieri, 22 febbraio: Rossella Placati, 51 anni, è stata trovata morta e sanguinante nel suo appartamento di Bondeno, Ferrara. Per ora non ci son arresti ma il suo compagno si è presentato in caserma raccontando di una discussione avvenuta la sera precedente e di essersi allontanato.

Questo è il punto in cui siamo.

Buon martedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Gli Schwazer dimenticati: ogni anno in Italia distrutta la vita a mille innocenti

Tra le vittorie di Alex Schwazer, il marciatore italiano che stava sulla cima del mondo ed è rotolato nel fango per un reato che non ha mai commesso, ce n’è una che non gli garantirà nessuna medaglia ma che potrebbe essere una lezione universale. Essere prosciolti da un’accusa ingiusta costa: costa in termini economici, costa per i traguardi bruciati, pesa per tutto il vilipendio feroce che si scatena ogni volta già nel momento dell’accusa ma soprattutto ferisce per il tempo. Sanguinano quei cinque anni che Schwazer ha passato per ottenere giustizia e che non gli verranno restituiti, mai. Forse potrebbero anche essere risarciti: ma voi fareste cambio per soldi del vostro tempo che non avete vissuto, della fama rovinata?

Sui giornali di ieri, nelle trasmissioni e sui social è un coro unanime di sdegno misto a vergogna in soccorso del marciatore altoatesino e rimbomba l’invocazione “giustizia” in modo bipartisan, ci sono dentro quelli considerati troppo garantisti e ci sono dentro anche quelli che solitamente agitano il cappio e invece questa volta si sciolgono di fronte allo sportivo che rende la vicenda fascinosamente epica, pronta per farci un editoriale cardiaco e per coniugare le fatiche della marcia, la linea del traguardo, la fatica di una rincorsa lunga: una narrazione troppo golosa per non buttarcisi a pesce.

Solo che in Italia siamo pieni di Schwazer. Non indossano divise e non finiscono sui quotidiani sportivi, hanno compiuto imprese senza il riconoscimento del podio e le loro marce contro la giustizia hanno gli stessi relitti: famiglie distrutte, rapporti professionali perduti, carriere che sono deragliate e poi non sono più ripartite, piccole gogne locali che hanno la stessa bile di quelle grandi e nazionali, la sensazione inumana di subire un’ingiustizia e di non trovare il modo per dirlo, lo stesso meccanismo turpemente lunghissimo per riuscire ad ottenere una sentenza che riabilita sulla carta ma che non riesce a rimetterti in piedi, la consapevolezza che la giustizia che deraglia sia il più grosso crimine che si possa vivere in un Paese democratico.

Per gli Schwazer senza scarpe da corsa la proclamazione della loro innocenza è un pacca sulla spalla che rimbomba per il vuoto che si è creato intorno, spesso non finisce nemmeno su quegli stessi giornali che li hanno crocifissi ed è una misera consolazione che non si riesce a condividere. Nemmeno da assolti spesso si riesce a urlare la propria innocenza. I dati delle vittime di ingiusta detenzione e di chi subisce un errore giudiziario sono mostruosi: dal 1991 al 31 dicembre 2019 sono 28.893 persone, 996 all’anno. E il costo di questa pandemia sotterranea che si fatica a proporre al dibattito pubblico non è solo sociale e umano ma è costato in 28 anni 823.691.326,45 euro: sono circa 28 milioni e 400mila euro all’anno.

La stragrande maggioranza di loro tra l’altro ha dovuto sopportare molto di più di un processo in giusto e della gogna: dal 1992 (anno da cui parte la contabilità ufficiale delle riparazioni per ingiusta detenzione nei registri conservati presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze) al 31 dicembre 2019 28.702 persone sono finite in custodia cautelare da innocenti, 1025 innocenti ingiustamente detenuti ogni anno, quasi tre al giorno.

Allora forse varrebbe la pena trasformare in un’occasione tutta questa giusta indignazione per il caso Schwazer in una riflessione generale, nell’impegno dello Stato di garantire il margine minimo di errore ma soprattutto in un principio di cautela (sprezzantemente chiamato “garantismo”) che dovrebbe indurci a riflettere su quante volte i carnefici siano quelli che stigmatizzano qualsiasi dubbio in un giudizio.

A Schwazer sono in molti a dover chiedere scusa, non solo i tribunali, per il marchio a fuoco che gli hanno impresso addosso e che ora in modo un po’ patetico cercano di spolverargli via. Siamo pieni di Schwazer in giro per strada, persone che incrociamo indifferenti convinti che non ci possa capitare. E quando capita si finisce dentro il buco. Questa sarebbe la medaglia da perseguire.

L’articolo Gli Schwazer dimenticati: ogni anno in Italia distrutta la vita a mille innocenti proviene da Il Riformista.

Fonte