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Massimo Carminati

«Iniziate a nominare gli avvocati merdosi a voi e la mafia»: così esulta il fratello di Carminati

L’ha segnalato Claudio Paudice per HP (qui):

Esulta, a modo suo, Sergio Carminati, fratello di Massimo, il principale imputato nell’inchiesta della Procura di Roma su Mafia Capitale. I giudici del Tribunale di Roma hanno emesso una raffica di condanne, la più alta per Massimo Carminati a 20 anni. Secondo i pm romani l’ex Nar era a capo dell’organizzazione di stampo mafioso al centro dell’inchiesta della procura di Giuseppe Pignatone. Secondo il Tribunale di Roma però non c’è associazione mafiosa per nessuno degli imputati nel maxi processo. I pm avevano chiesto per Carminati 28 anni.

Sergio, che da sempre difende il fratello attraverso i suoi canali social, ha accolto così la sentenza emessa dai giudici della X sezione penale: “Iniziate a nominare gli avvocati merdosi a voi e la mafia”, ha scritto su twitter riferendosi al fatto che è caduta l’accusa di associazione mafiosa, cardine dell’inchiesta di Mafia Capitale, e rivolgendosi presumibilmente ai giornalisti.

 

Mafia Capitale: dov’è il tesoro di Carminati

Un articolo da incorniciare de L’Espresso:

Al sicuro. Lontano da un processo che sta rivoltando le viscere di Roma, lontano dall’infedeltà dei luogotenenti e dalle inchieste dei magistrati.

È a Londra che si nasconde la cassaforte di Massimo Carminati, l’estremista di destra indicato come il capo di mafia Capitale, attualmente sotto processo con l’accusa di associazione mafiosa. Dietro l’angolo, sotto gli occhi di tutti fin dalle prime fasi delle indagini, il tesoro è protetto nella capitale finanziaria d’Europa da un complicato meccanismo di scatole societarie e dalla segretezza che tutela la finanza internazionale.

All’ombra dei grifoni della City, i soldi dell’organizzazione criminale si spostano tra paradisi fiscali e banche senza lasciare traccia, diventando di fatto ville, aziende immobiliari, ristoranti per un valore complessivo di milioni di sterline. Ma alcune “strisciate”, come le chiama Carminati nelle intercettazioni che lo hanno portato in carcere, restano. Muovere capitali in questo modo è un lavoro da professionisti, e per quanto cauto e furbo, “er cecato” non può certo farlo da solo. L’Espresso ha seguito da vicino alcune di queste piste, arrivando ai tesorieri più fidati che si trovano nella City.

L’ex estremista di destra per muoversi a Londra si appoggia a due vecchi amici e compagni di battaglie: Vittorio Spadavecchia e Stefano Tiraboschi. Entrambi già militanti in gruppi neofascisti attivi negli anni Settanta. I loro nomi ritornano nelle intercettazioni dell’inchiesta su mafia Capitale ogni volta che si parla del forziere inglese. Nei quasi quarant’anni che hanno passato nella capitale britannica, i due hanno dimostrato talento per gli affari e una coriacea resistenza alle rogatorie avviate dai magistrati della procura di Roma.

Spadavecchia sbarca a Londra nell’agosto del 1982. Non aveva idea, ha dichiarato, che la legge italiana lo ritenesse un fuggitivo. Eppure un sospetto avrebbe dovuto averlo, visto che neppure due mesi prima a Roma aveva assaltato, con un gruppo di camerati, la sede dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina di cui era presidente Arafat.

L’Espresso in edicola da domenica 23 aprile ricostruisce con un’inchiesta il giro del denaro dell’uomo accusato di essere il capo di Mafia Capitale e celato dietro scatole cinese e società offshore. Il cuore finanziario del suo impero? Londra

Durante la sparatoria, i nervi gli avevano ceduto, e mentre uno dei poliziotti di guardia cadeva sotto il piombo dei camerati, lui si era tolto i pantaloni per sembrare un passante impegnato a fare jogging.

Con la paura di quella notte ancora fresca, Spadavecchia lascia l’Italia per non farci più ritorno. C’è chi è pronto ad accoglierlo. Nei primi anni Ottanta la capitale inglese era il rifugio preferito dai camerati “in latitanza preventiva”. Erano i tempi delle indagini sul terrorismo nero e sulla strage di Bologna. Ma a Londra, lontano dal clamore, Roberto Fiore, fondatore di diversi movimenti neofascisti e del partito Forza Nuova, aveva stretto accordi con gruppi di estrema destra inglese come la League of St George, aiutando decine di estremisti neri italiani in fuga.

Fra i “neri in fuga” c’era già chi poi sarebbe diventato il più stretto socio in affari di Spadavecchia: Stefano Tiraboschi. Proveniente dal Fuan, l’organizzazione dei giovani universitari del Msi, aveva trovato nel gruppo londinese di Fiore un punto di riferimento ideologico e concreto per organizzare la sua vita a Londra. Arrestato nel 1981 da Scotland Yard, Tiraboschi doveva essere interrogato dalla polizia italiana per aver fatto parte del commando che il 15 marzo 1979 aveva svaligiato a Roma l’armeria Omnia Sport.

Arricchirsi in fretta
Nei primi anni Ottanta Spadavecchia e Tiraboschi a Londra sono ufficialmente studenti squattrinati, ma nel giro di poco tempo diventano ricchissimi, con proprietà di lusso e ristoranti per un valore complessivo di decine di milioni di sterline.

Per Spadavecchia, però, i problemi con la giustizia continuano. Almeno fino a giugno scorso, quando l’ultima decisione della corte di Westminster sembra assicurargli definitivamente sonni tranquilli sotto il cielo inglese.
I giudici infatti hanno avvalorato la tesi che Spadavecchia fosse all’oscuro di essere un ricercato e hanno ritenuto il processo in contumacia una violazione del suo diritto a un giusto processo. Eppure per la giustizia italiana, che l’ha condannato a 14 anni per crimini come terrorismo, rapina a mano armata e possesso illegale di armi da fuoco, è stata proprio la sua fuga a impedirgli di far valere le proprie ragioni di fronte a un tribunale. Del resto la sua condanna in primo grado risaliva già al 1986 e a quel verdetto il suo avvocato aveva fatto appello, dimostrando che almeno a partire da quell’anno Spadavecchia era ben cosciente delle accuse a suo carico.
Da allora l’Italia lo ha richiesto almeno sette volte, fra il 1991 e il 2016, ma Spadavecchia è rimasto a Londra libero di continuare a curare i suoi affari milionari e di brindare alla sua libertà con i ragazzi della squadra di rugby che gestisce l’Ealing Trailfinders Club, una società del West End londinese.

Non è chiaro come lui e il suo socio abbiano trovato il capitale iniziale per il loro business. Di certo Tiraboschi, senza lavoro e senza fissa dimora nei primi anni ’80, arriva ad avere nel 1995 la proprietà di un appartamento all’epoca valutato in 350mila sterline a Holland Road, nella prestigiosa area di Kensington, e di una villetta in stile vittoriano a due passi dal Tamigi.

Nel 1994 Spadavecchia e Tiraboschi aprono la loro prima azienda, la Action Accommodation. Il modello è quello della Easy London di Roberto Fiore che dagli anni Ottanta prometteva casa e lavoro a giovani italiani che volevano studiare inglese. Spadavecchia e Tiraboschi optano per offerte più di lusso, ma il concetto rimane lo stesso: fatturare affittando proprietà, costruendo un impero.

Verso la fine degli anni ’90, Action Accommodation viene sostituita da London Solutions, un nuovo brand che viene controllato prima da una società inglese e, successivamente, da un’italiana. Un periodo a cavallo del clamoroso furto a opera di Carminati nel caveau della banca che si trova nella città giudiziaria della Capitale. Quando il “Nero” riuscì a mettere le mani su parecchie delle cassette di sicurezza lì custodite.

Il quartier generale della società rimane a Londra. Il portfolio di immobili è molto ricco: almeno sedici proprietà con un valore di mercato che supera i dieci milioni di sterline.

La coppia è attiva anche nel settore della ristorazione. Tiraboschi gestisce almeno tre ristoranti, di cui due intestati al fratello. Tre trattorie italiane, tutte situate lungo Kensington Park Road, accanto al famoso mercatino di Portobello.

«I ristoranti che c’hanno st’amici miei, ce vanno tipo Madonna, la figlia del re, cioè… sta a Notting Hill» si vanta il “cecato” con un amico. «Guadagnano un sacco di soldi».

Per Carminati i camerati sono parte di una “famiglia”. «È normale che hai più feeling con un vecchio camerata, [..] sono tutta gente cresciuta in quell’ambiente e questi rapporti rimangono, e negli anni se devi chiede un favore, una cosa, è facile che hai rispondenze quando c’hai un appoggio di questo tipo», spiega il collaboratore Roberto Grilli al pm Giuseppe Cascini, uno dei titolari dell’indagine su mafia Capitale.

Spadavecchia e Tiraboschi non sono tra gli indagati dell’inchiesta “mondo di mezzo”, ma la loro importanza per gli affari di Carminati a Londra è un elemento che emerge con assoluta chiarezza nelle indagini antimafia. L’ex Nar va spesso nella capitale inglese e, secondo gli investigatori, è proprio negli incontri con i due camerati che pianifica i suoi investimenti. Vittorio Spadavecchia e Stefano Tiraboschi però, contattati da L’Espresso, preferiscono non commentare le vicende che li riguardano.

Nella City l’ex terrorista non è, come a Roma, un boss che tiene in scacco politici e imprenditori, ma un semplice investitore che può passare inosservato. «Là non ti guardano mai in faccia… là che cazzo ti frega… nessuno ti conosce», dice Carminati in una conversazione intercettata a maggio 2013. I carabinieri lo ascoltano anche quando illustra i vantaggi del nascondere soldi nelle isole del Commonwealth, come le Bahamas. Del fatto che l’arcipelago sia entrato nella “white list” dei paesi fiscalmente trasparenti, il boss può farsene beffe: «Ce sta il segreto bancario micidiale, perché gli inglesi so paraculi, davanti dicono una cosa, ma dietro…». Così gli affari possono prosperare.

Quando uno degli uomini a lui più vicini, Fabrizio Franco Testa, ex manager Enav e uomo chiave della galassia del “Nero”, dice di voler avviare due ristoranti a Kensington, Carminati lo porta a Londra a incontrare Spadavecchia e cerca anche di far entrare nell’affare suo figlio Andrea. Fabrizio Testa non è uno qualunque. I magistrati lo definiscono «testa di ponte dell’organizzazione nel settore politico e istituzionale».Tra lui e Spadavecchia (che lo ospiterà in casa propria) si creerà una connessione speciale. Per gli inquirenti è un’affinità di affari, ma Testa dichiara invece di essere stato ospitato solo per «questioni familiari».

(continua qui)

Il testimone si inventa un lutto per non testimoniare: la paura, a Roma.

carminati

È una storia che lascia spazio a molte riflessioni quella di Filippo Maria Macchi, l’imprenditore romano che nel 2014 era ricorso a Massimo Carminati per farsi prestare trentamila euro. Aveva tra le mani un affare di oro in arrivo dall’Africa (che poi sfumò) e pensò che un prestito “facile” dalla criminalità potesse essere la strada più semplice. Ma non fu così. E oggi Macchi, chiamato a testimoniare, si dimostra impaurito come ci si aspetterebbe in una storia di mafia del profondo sud di qualche decennio fa; e invece accade a Roma, nella capitale in cui il processo Mafia Capitale viene usato per scagliarsi addosso a qualche candidato sindaco ma in realtà scompare dalla cronaca. Così Macchi prima si inventa un lutto (mai esistito) e poi portato a forza davanti al magistrato nega di avere mai ricevuto le minacce. E attenzione: se non si riesce a dimostrare minacce e intimidazioni cade l’accusa di mafia, che è proprio l’obiettivo degli avvocati di Carminati e compagnia. Quando il pm ha fatto ascoltare in aula le parole che Macchi aveva pronunciato al maresciallo dei Ros che l’aveva contattato per testimoniare («Marescià, sappiamo che queste sono persone che si sò rivalse e che si rivalgono contro chi gli si rivolge contro…») l’imprenditore ha provato a balbettare una scusa, una mezza frase. E invece è la mafia con tutti i suoi effetti. A Roma.

Mafia Capitale: confiscati i beni al “povero” Diotallevi

3447786819Quote societarie, immobili a Roma e Olbia, un hotel a Fiuggi, conti correnti ed opere d’arte, per un ammontare di 25-30 milioni di euro, riconducibili a Ernesto Diotallevi, ritenuto dalla procura di Roma il referente locale di Cosa Nostra sono stati confiscati dalla sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Roma.

La decisione è stata presa in accoglimento di una richiesta dei pm Paolo Ielo, Luca Tescaroli e Giuseppe Cascini che, sotto la direzione del procuratore Giuseppe Pignatone, indaga sulla cosiddetta Mafia Capitale. Esclusi dalla confisca, con revoca del sequestro, si legge nel provvedimento di 110 pagine firmato dal collegio presieduto da Anna Criscuolo, il 50 percento della società «Lampedusa srl», alcuni quadri, una vettura, il 49% del patrimonio aziendale della «Gamma Re srl» e una decina di conti correnti con importi intorno ai 1.000 euro. Il tribunale ha anche rigettato i ricorsi di Banca Carim, Banca Sella e Banca Tercas, in relazione a contratti di mutuo e di apertura di credito, garantiti da ipoteca sugli immobili, stipulati in favore dei fratelli Diotallevi e di Carolina Lucarini, moglie di Ernesto, ritenendo che questi siano stati concessi in malafede.

La sentenza emessa dal tribunale di Roma, impugnabile da Diotallevi in corte di appello, apre la strada ad analoghe iniziative già sollecitate dalla procura per altri indagati nell’inchiesta su Mafia Capitale. Tra questi Massimo Carminati, accusato di essere il «dominus» dell’associazione per delinquere di stampo mafioso

L’ex terrorista (ora fascioleghista) della Lega Nord

Domenico Magnetta ai microfoni di Radio Padana
Domenico Magnetta ai microfoni di Radio Padania

Chi è l’uomo nero della Lega Nord amico di Massimo Carminati e Flavio Tosi Domenico Magnetta ai microfoni di Radio Padania
Dal boss di Mafia Capitale alla Lega Nord. Dal nero degli anni di piombo al più sfumato verde Carroccio. Dalla guerra allo Stato alle battaglie degli artigiani vessati da Equitalia. È la parabola di Domenico Magnetta, passato negli anni Ottanta attraverso rapine, armi ed eversione di estrema destra ed ora “fascioleghista” con tanto di trasmissione radiofonica sulle frequenze di “Radio Padania Libera”.

Cinquantasette anni, nato in provincia di Foggia ma trapiantato a Milano, oggi si è riciclato come gran capo di “P.i.u.”, l’associazione di professionisti e imprenditori uniti nata vent’anni fa per volere di Umberto Bossi e Roberto Maroni. Così, l’uomo nero della Lega Nord è diventato la voce nell’etere dei piccoli commercianti arrabbiati contro la burocrazia ingiusta, e dispensa consigli tutti i lunedì, ascoltando le storie di piccole e grandi ingiustizie.

Apre le telefonate con le invettive contro Equitalia, le cartelle esattoriali e poi alzando il tiro contro tutti i migranti. «Ci stanno togliendo anche le lacrime a noi lavoratori autonomi», tuonava Magnetta ai microfoni aperti nella puntata dello scorso 31 dicembre.

La passione politica però non è mai scemata ed eccolo rispuntare a fianco del sindaco di Verona, Flavio Tosi. L’occasione è il raduno degli ex camerati sulle sponde dell’Adige: sabato 7 febbraio si ritrovano all’Hotel Leon d’Oro per l’assemblea di “Progetto nazionale”, laboratorio politico degli orfani del defunto partito Movimento sociale italiano di Giorgio Almirante e diventato braccio operativo di Tosi. In platea per la giornata di idee e dibattiti intitolata “La destra che verrà” ci sono lo scrittore giornalista de “Il Foglio”, Pietrangele o Buttafuoco, il fondatore de “La Destra” e presidente dell’antimafia siciliana, Nello Musumeci, il capogruppo del Carroccio al Senato, Gian Marco Centinaio, e un manipolo di vecchi missini, nomi storici della destra sociale e sopratutto ex skinhead diventati uomini di fiducia del sindaco.

Un’alleanza “verde-nero” che ha dato i suoi frutti: alle ultime elezioni per la guida della città (nel 2012) il leghista Tosi è stato rieletto con il 57 per cento delle preferenze, spinto dalla sua lista civica infarcita di ex fascisti.
Tre anni dopo, Tosi alza il tiro; e l’obiettivo dichiarato del raduno del 7 febbraio è quello di scalare il centrodestra e provare a contendere la leadership del segretario leghista Matteo Salvini.

Per un’impresa del genere servono gli uomini giusti e una ramificazione nazionale: finora sono circa un migliaio gli ex camerati reclutati e per l’importante piazza di Milano vengono scelti l’ex tesoriere dei Nuclei armati per la rivoluzione (Nar), Pasquale “Lino” Guaglianone, e il suo delfino Domenico (detto Mimmo) Magnetta. Entrambi presenti in prima fila nell’incontro di Verona.

Un pedigree da duri e puri che non dispiace a Tosi: Guaglianone è stato condannato a cinque anni per la sua appartenenza ai Nar fondati da Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Franco Anselmi e Alessandro Alibrandi, i terroristi italiani d’ispirazione neofascista che alla fine degli anni Settanta firmano trentatré omicidi e nel 1980 la strage alla stazione di Bologna, costata la vita a ottantacinque persone. Oggi però l’ex estremista è un affermato commercialista che sa muoversi bene negli ambienti che contano nella borghesia milanese fatta di avvocati, notai e lobbisti. Grazie all’appoggio dell’ex ministro della Difesa, Ignazio La Russa, nel 2009 è stato nominato nel consiglio di amministrazione di Ferrovie Nord, la controllata della Regione Lombardia che gestisce le linee locali, e presidente del collegio sindacale di Fiera Milano congressi.

Magnetta, invece, non ha poltrone. Il suo è un curriculum di manovalanza. Ma sempre dura e pura, tanto che muove i primi passi insieme al boss di “Mafia Capitale” Massimo Carminati. È infatti in una notte di aprile del 1981 che il futuro re della piramide criminale romana cerca di scappare all’estero con 25 milioni di lire, diamanti e documenti falsi. Ha ventitré anni ma è già un militante dei Nar, invischiato nella malavita di Roma e ricercato per azione sovversiva e banda armata. A Magnetta, di un solo anno più vecchio, i camerati milanesi affidano il delicato incarico di accompagnarlo oltreconfine, passando dalla frontiera di Gaggiolo, in provincia di Varese. Dove li aspetta la polizia, messa sulla pista giusta da una soffiata.

I due incappano nel posto di blocco e una raffica di proiettili degli agenti stoppa ogni tentativo di fuga. Carminati viene colpito all’occhio e finisce in ospedale. Primo arresto e prima ferita, quella che gli vale il soprannome di “Er Cecato”. Magnetta viene condannato per favoreggiamento, ma la sua carriera criminale già vanta un ricco curriculum: furto, ricettazione, rapina, detenzione illegale di armi, fino al sequestro di persona.

Negli anni successivi, mentre Carminati diventa il “Nero” della Banda della Magliana, lui incappa nella storiaccia brutta del presunto attentato al magistrato milanese antimafia Gianni Griguolo. Accusato insieme al terrorista Mauro Addis, viene condannato a tre anni e dieci mesi dalla Corte di appello di Milano nel 1999 per detenzione abusiva di armi e ricettazione. Nel gennaio 2001 passa agli arresti domiciliari e quattro anni dopo torna in circolazione. Ed eccolo di nuovo a fare comunella con il suo mentore Guaglianone, riabilitato anche lui e candidato nella lista di Alleanza nazionale per le elezioni regionali in Lombardia.

Il seggio sfuma, ma questo non nuoce agli affari, sempre più grossi per il professionista legato a molte società calabresi e all’ex governatore regionale Giuseppe Scopelliti.

Guaglianone finisce indagato nel 2012 dalla Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria insieme ad alcuni suoi soci per lo scandalo del Carroccio e gli investimenti in Tanzania: i rimborsi elettorali del partito venivano investiti in cascate di diamanti, fiduciarie africane, banche levantine e lingotti d’oro.

Dall’inchiesta si scopre che nel suo quartier generale, l’ufficio di via Durini 14, a due passi dalla centralissima piazza milanese di San Babila, c’era una scrivania per l’ex segretario amministrativo della Lega Nord Francesco Belsito, l’uomo dei conti segreti di casa Bossi. Che da qui, accusano i magistrati, gestiva partite molto pericolose, muovendo denaro in un triangolo tra cosche, massoneria ed estremisti di destra. Le indagini non sono ancora chiuse e puntano ad accertare se di queste transazioni era a conoscenza anche il vertice della Lega.

È dalle stanze di via Durini che, nonostante le indagini della Procura calabrese, Guaglianone riparte all’attacco: prima dell’ultimo Natale organizza vari incontri con colleghi e altri professionisti allo scopo di sondare la disponibilità di appoggiare Tosi nella scalata al centrodestra. E c’è un gran via vai in via Durini 14, dove ha sede anche la società “Iniziative Belvedere srl” della quale Magnetta è amministratore e ha della quote di minoranza. Lo scopo? Compravendita di immobili.

Un trasformista questo Magnetta, prima terrorista, poi galeotto; e, nel giro di dieci anni piccolo imprenditore e paladino dell’associazione leghista che lotta contro «un fisco sempre più insostenibile e una burocrazia soffocante». Una missione che va ampliandosi, tanto che dai microfoni di Radio Padania lui si celebra: «Ultimamente mi sono intestardito nella lotta contro le banche, per tutelare i risparmiatori e spingerle a concedere prestiti e fidi».

(clic)

Per quelli che “non è mafia”: Mafia Capitale si riorganizzava come un oliato clan

Minacce di morte, pizzini e regole sulla successione. Roba da associazione mafiosa, per l’appunto, quella che ieri la procura di Roma ha depositato al tribunale dei Riesame, chiamato a decidere sulla revoca della custodia cautelare di Rocco Rotolo e Salvatore Ruggiero, entrambi calabresi ed entrambi in carcere dall’11 dicembre scorso nell’ambito dell’inchiesta su Mafia Capitale (i giudici si sono riservati).

I due, accusati di associazione per delinquere di stampo mafioso, sarebbero il collegamento tra la banda guidata da Massimo Carminati e il clan Mancuso di Vibo Valentia. Un legame che avrebbe uno snodo centrale in Salvatore Buzzi, il ras delle cooperative capitoline, considerato dai pm il braccio finanziario del “Cecato”. Parla chiaro l’informativa che i carabinieri del Ros del 3 gennaio: i legami con i calabresi c’erano eccome, secondo l’accusa.

Il 3 dicembre, giorno successivo ai primi arresti, Rotolo e Ruggiero (in quel momento ancora a piede libero, ndr) non si danno pace. Commentano gli arresti con gli amici, si preoccupano di non fare la stessa fine. E pensano alla gestione futura: già il giorno successivo alla retata, fissano un incontro per decidere che cosa ne sarà della Cooperativa 29 giugno, fino ad allora guidata da Buzzi.

Prima di andare alla riunione Rotolo incontra Franco La Maestra, ex brigatista condannato a 18 anni di carcere e coinvolto nell’omicidio di Massimo D’Antona, e uomo di fiducia di Buzzi. L’ex terrorista racconta: “Ieri l’ho visto (Buzzi, ndr). C’ha teso a specificà a noi de Giovanni (Campennì, ndr). .. ha detto… “quello non deve… non si deve neanche avvicina’…” le testuali parole so state queste mentre lo portavano via… “non voglio che Giovanni stia in mezzo ai piedi”… ci ha detto a me e a Salvatore (Ruggiero, ndr)”. Giovanni Campennì, imprenditore, secondo i pm Giuseppe Cascini, Paolo Ielo e Luca Tescaroli è il collegamento tra Buzzi e la ‘ndrangheta.

Non a caso Rocco e La Maestra si stupiscono delle parole di Buzzi e si chiedono se quest’ultimo non avesse appositamente voluto far individuare Campennì dalle forze dell’ordine. “E se l’è cantatu stu scemo di merda?  –  chiede Rotolo  –  I Mancuso u ‘mmazzano”. Sta di fatto che, proprio come nella tradizione mafiosa, Buzzi negli attimi prima di finire in carcere, riesce a dare le indicazioni sulla sua “successione” alla guida delle cooperative. Vuole escludere Campennì e decidere chi deve prendere il suo posto. “Mentre andava via  –  dice ancora La Maestra a Rotolo  –  m’ha guardato e m’ha fatto: “Me raccomando, non litigate. Tu sei il capo, mi raccomando, non litigate”. Poi mentre andava via mi ha detto: “Ci vediamo tra due anni”… lui s’è già attrezzato”.

Infine i pizzini. I militari del Ros ne hanno sequestrati alcuni a casa di Salvatore Ruggiero. In mezzo a una serie di ricevute di pagamento da parte della Cooperativa 29 Giugno, gli investigatori hanno trovato anche due pen drive, una lettera del 2004 in cui Buzzi invitava i suoi soci e dipendenti a votare Oriano Giovannelli e Nicola Zingaretti al Parlamento europeo e tre pizzini. Uno con la dicitura “Glok 179.21, uno con scritto “Rosario 29 giugno” e un terzo: “Fasciani”. Probabilmente il riferimento è al clan che da anni gestisce la malavita di Ostia. Elementi sui quali ora il Ros è al lavoro.

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“Se non fosse stato ucciso oggi Renatino De Pedis starebbe in Parlamento, minimo sottosegretario”

hqdefault“C’è sempre qualcuno dei ripuliti a comandare, a stare sopra, senza i ripuliti non andremmo da nessuna parte, fermi alle rapine”. L’intervista del Fatto Quotidiano ad Antonio Mancini, ex boss della Banda della Magliana, apre la caccia all’uomo che sta sopra Massimo Carminati nella scala gerarchica di Mafia Capitale, un “insospettabile”.

Antonio Mancini conosce Massimo Carminati, il “Guercio” o il “Nero” di Romanzo Criminale, da “quando aveva tutti e due gli occhi boni”, spiega, e lo ha visto crescere come uno abituato a “drizzare i torti”. “La più grossa sorpresa, anzi l’unica, sono i termini che utilizza Massimo. Io me lo ricordo come una persona educata, riservata, taciturna, conosceva l’italiano. Ora si aggrappa a espressioni forti che non gli appartenevano” spiega Mancini, più noto come Accattone della Banda della Magliana. Inizialmente non lo vedeva come un leader, “per me era un ragazzo d’azione. Ma è stato bravo a riempire il vuoto lasciato da Renatino De Pedis dopo la sua morte”. Se non fosse stato ucciso “oggi Renatino starebbe in Parlamento, minimo sottosegretario. Lui è morto incensurato. Eppure ha ammazzato la gente con me, ha rapinato con me, è stato dentro, ma è riuscito a farsi ripulire tutto”. Fu lo stesso De Pedis a dire ad Antonio Mancini che “era stato sempre Carminati a far parte del commando che ha ammazzato Mino Pecorelli”, il giornalista ucciso nel 1979. E aggiunge: “Ha presente quante e quali prove avevano su di lui rispetto all’omicidio Pecorelli? Chiunque altro, me compreso, sarebbe stato condannato”.

Carminati sale poi ai vertici dell’organizzazione perché “di tutti gli altri che c’erano attorno a Renato, era l’unico ad avere lo spessore giusto, appellava De Pedis come presidente, ci sono le intercettazioni a raccontarlo, ed era l’unico a poter riacchiappare i fili della varie componenti“. C’è però qualcuno sopra Carminati, Antonio Mancini è sicuro di questo: “C’è sempre qualcuno dei ripuliti a comandare, a stare sopra, senza i ripuliti non andremmo da nessuna parte” spiega al Fatto Quotidiano, “anche per questo nella Banda c’è stata la frattura tra noi della Magliana e quelli di Testaccio”. Perché “loro avevano preso le sembianze mafiose, esattamente quelle che hanno scoperto ora. Noi della Magliana eravamo banditi da strada, amavamo le rapine, senza guardarci le spalle, senza compromessi”.

Per quelli di Testaccio Carminati “era l’unico ad avere le chiavi per entrare nell’armeria del Ministero della Sanità” e Mancini lo tira in ballo per la strage di Bologna perché “il fucile ritrovato alla stazione stava nella nostra armeria, e lui aveva le chiavi e lui già stava dentro a certe storie di Servizi”.

Accattone è convinto che Carminati uscirà presto, “prima di quanto potete immaginare, altrimenti dovrebbero incarcerare mezzo mondo”. Ricordando il suo passato da Boss della Banda della Magliana, Mancini dice che “noi eravamo il terzo mondo di Carminati, quello in basso; mentre oggi quello di mezzo, e quello sopra, si utilizzano a vicenda, per questo dico che Carminati ne uscirà pulito; il mondo di sopra si salverà, e porterà con sè il mondo di mezzo e ucciderà il mondo di sotto”.

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Carminati: da Milano a Roma, da Fausto e Iaio alla ‘ndrangheta passando per Roma

massimo-carminati-206213Una svastica d’oro tempestata di diamanti. Da appendere al collo con una catenina. Bisogna partire da questo gingillo che portava Francis Turatello, storico boss della mala di Milano, prima nemico e poi testimone di nozze di Renato Vallanzasca, ucciso brutalmente in carcere nel 1981, per capire i legami del Re di Roma Massimo Carminati con Milano. Il Cecato, il Nero della Banda della Magliana, il protagonista dell’inchiesta su Mafia Capitale, è infatti nato nel capoluogo lombardo nel 1958. Di origini bergamasche, è qui che ha iniziato a coltivare sin da giovanissimo la passione per la destra eversiva che lo ha portato poi nei Nuclei Armati Rivoluzionari, i temibili Nar. Carminati si trasferisce nella Capitale insieme con la famiglia negli anni ’70, ma continua a mantenere rapporti con il Nord, con la città che in quegli anni vede in piazza San Babila l’avamposto della destra milanese negli scontri con la sinistra antagonista.

«Faceva parte dei Nar con cui noi della destra missina abbiamo avuto sempre da polemizzare. Erano schegge impazzite. Lui per di più teneva i rapporti tra una certa destra militarizzata e la malavita organizzata, quella di Francis Turatello e della mafia del Brenta di Felice Maniero»

E’ la trincea nera dei picchiatori, tra Ordine Nuovo, Terza Posizione o esponenti del Msi di Giorgio Almirante. Il nome di Carminati spunta persino nell’omicidio di Fausto Tinelli e Lorenzo “Iaio” Iannucci, i due ragazzi diciottenni del Leoncavallo, uccisi il 18 marzo del 1978. Il Re di Roma, in sostanza, non è un personaggio qualunque. «E’ sempre stato un personaggio border line» spiega un camerata milanese che lo ha conosciuto e che chiede rassicurazioni sull’anonimato. «Faceva parte dei Nar con cui noi della destra missina abbiamo avuto sempre da polemizzare. Erano schegge impazzite. Lui per di più teneva i rapporti tra una certa destra militarizzata e la malavita organizzata, quella di Francis Turatello e della mafia del Brenta di Felice Maniero…». Fu Cristiano Fioravanti, fratello di Valerio, condannato per la Strage di Bologna, a descrivere nei numerosi processi Carminati come un killer spietato, al soldo dei servizi segreti e della Banda della Magliana.

Oltre ad aver conosciuto Giusva a Roma, i due erano compagni di scuola, Carminati può vantare le conoscenze dei Nar milanesi. E’ il collante tra il Nord e il Sud, in quel mondo fatto di rapine, spaccio di droga e politica. Tra i suoi sodali c’è Gilberto Cavallini, ora rinchiuso nel carcere di Terni o Lino Guaglianone, ex tesoriere del gruppo terroristico, condannato nel 1992, dalla quarta Corte d’Assise di Milano per associazione sovversiva e partecipazione a banda armata. Guaglianone non è personaggio da poco. Proprietario di alcune palestre di boxe, tra cui la Doria in pieno centro, è stato candidato più volte in regione Lombardia e ha vantato in questi anni appoggi politici nel centrodestra – in particolare Alleanza Nazionale di Ignazio La Russa – che lo hanno portato a sedersi in consigli di amministrazione di importanti società pubbliche.

MILANO, I NERI E LA ‘NDRANGHETA

Del resto se Milano è diventata provincia di Reggio Calabria lo deve anche a quel legame forte tra il colore nero e la criminalità organizzata calabrese, in particolare il clan De Stefano. Tra i Nar con una carriera fulminante sotto la madonnina c’è appunto Guaglianone. L’ex tesoriere costituisce diverse società, partecipa ad altre, si candida al Pirellone e a Palazzo Marino senza essere eletto, ma arriva a sedersi nel consiglio di amministrazione di Ferrovie Nord Milano, società pubblica gestita al 57% da Regione Lombardia e nel collegio sindacale di Fiera Congressi Milano, altra partecipata lombarda. Negli anni ’90 per lui arriva una condanna per banda armata e riciclaggio. Anni dopo finisce nelle carte dell’inchiesta della dda di Milano “Redux-Caposaldo” per alcuni suoi incontri con Paolo Martino, definito dagli inquirenti come il tramite tra i De Stefano di Reggio Calabria e le cosche insediate al nord. Ambienti che non a caso ritornano poi nell’inchiesta su Mafia Capitale, con indagini per associazione a delinquere persino sull’ex sindaco Gianni Alemanno, esponente storico della destra italiana. 

Ambienti che non a caso ritornano poi nell’inchiesta su Mafia Capitale

Grattacapi più grossi però per il giro “nero” arrivano con le indagini su Francesco Belsito, ex tesoriere della Lega Nord. Qui le indagini toccano uno dei punti nevralgici dell’intreccio: lo studio Mgim di via Durini. Non è un mistero che i pm di Reggio Calabria nell’inchiesta sui conti della Lega Nord sia arrivata a contestare anche l’associazione segreta.Secondo il pm Giuseppe Lombardo e Francesco Curcio della Direzione Nazionale Antimafia le indagini proverebbero la caratteristica di segretezza della presunta associazione fra professionisti e imprenditori in odore di ‘ndrangheta, tanto da rientrare nella fattispecie prevista dalla Legge Anselmi. Non è un caso, tra l’altro, che la vicenda delle società riconducibili alla galassia sia ricostruita anche nella relazione dei commissari prefettizi che portò allo scioglimento del comune di Reggio Calabria. Si legge nelle carte: vi sono i “noti professionisti” Bruno Mafrici (calabrese classe 75, non è neppure avvocato è indagato per riciclaggio, ma compare pure in altre indagini della Dda calabrese, tra queste pure un omicidio del 2008) ,Guaglianone e Giorgio Laurendi, amministratore unico della società Milasl e subentrato a Guaglianone nel ruolo. Milasl è una delle società citate nel decreto di scioglimento del comune di Reggio Calabria, con sede in via Durini 14. Lo stesso Laurendi detiene il 20% dello studio Mgim e figura insieme a Michelangelo Tibaldi, nella compagine di Multiservizi, società partecipata al 51% dal comune di Reggio Calabria, sciolta per mafia alcuni mesi fa per infiltrazioni della cosca.

Proprio in uno dei locali milanesi della Milasl in via Pareto, gestito dalla società Brick di Tibaldi ha trovato posto la sede di “Lealtà e Azione”, dietro la quale si muovono anche gli Hammerskin, movimento neonazi internazionale. Leader degli Hammer milanesi è Domenico Bosa, detto Mimmo Hammer, gelese classe ’67 e un passato con qualche guaio con la giustizia. Bosa, non indagato, verrà comunque pizzicato da due recenti inchieste del Gico della Guardia di Finanza perché in rapporti con il narcotrafficante montenegrino Milutin Todorivic, che a sua volta intratteneva rapporti con il boss della ‘ndrangheta Pepè Flachi. A fare da sfondo la “bamba” e una malavita che anche a Milano incrocia criminalità organizzata e ambienti dell’estrema destra.

L’OMICIDIO DI FAUSTO E IAIO

Alla fine degli anni ’80 due giornalisti, Fabio Poletti e Umberto Gay scrivono una controinchiesta sull’omicidio di Fausto e Iaio, che fu rivendicato proprio dai Nar come vendetta per la morte di Sergio Ramelli. La vicenda non si è mai risolta. «La nostra fu un’inchiesta sull’ambiente in cui era maturato quell’omicidio, non avevamo individuato i colpevoli», ricorda Poletti. Non ci riusciranno neppure i giudici dopo aver indagato proprio su Carminati, Mario Corsi, detto Marione, ex capo della curva della Roma pure lui tra le carte dell’inchiesta di Mafia Capitale e Claudio Bracci, cognato del Re di Roma. Stefano Dambruoso, nel 1999, ha archiviato l’inchiesta per insufficienza di prove. Eppure anche in quella storia di due ragazzi di diciotto anni trucidati con otto colpi di pistola s’incrociano i misteri d’Italia che ritornano di attualità dopo l’arresto di Carminati, uno degli esponenti più importanti della Banda della Magliana, cerniera tra la malavita organizzata, l’estremismo di destra e servizi segreti deviati. C’è infatti un lato inquietante inella morte dei due ragazzi. E riguarda via Montenevoso, strada dove negli anni ’70, al numero 9, c’era un covo delle Brigate Rosse. Fausto Tinelli viveva al numero 8.

Anche in quella storia di due ragazzi di diciotto anni trucidati con otto colpi di pistola s’incrociano i misteri d’Italia che ritornano di attualità dopo l’arresto di Carminati

E proprio in quella palazzina, come ricostruirà in una puntata Chi l’ha visto, che i servizi segreti hanno una piccola mansarda da dove spiano i brigatisti: dalla finestra della camera di Fausto si vedono le finestre del rifugio brigatista. In via Montenevoso quasi 12 anni dopo sarà ritrovato il memoriale di Aldo Moro, lo statista democristiano rapito il 16 marzo del 1978, due giorni prima di quel massacro di via Mancinelli. Danila Angeli, madre di Fausto, in diverse interviste alla fine del 2000 tirò in ballo i servizi segreti. Dopo l’omicidio di mio figlio», raccontò la madre di Tinelli, «ognuno offriva la sua versione. Chi parlò di regolamento di conti tra spacciatori di droga, oppure una faida tra gruppi della sinistra extraparlamentare. Negli anni ho riannodato i fili della memoria, i pezzi di un piccolo mosaico che mi ha permesso di raggiungere la vera verità che io conosco. Mio figlio è stato vittima di un commando di killer giunti da Roma a Milano, nel pieno del rapimento di Aldo Moro, in una città blindata da forze dell’ordine. Un omicidio su commissione di uomini dei servizi segreti. Gli apparati dello Stato avevano affittato un appartamento al terzo piano del mio palazzo, in via Monte Nevoso 9, esattamente davanti all’appartamento in cui risiedevano appartenenti alle Brigate Rosse, responsabili del rapimento Moro, dove vennero rinvenuti i memoriali del presidente della Democrazia cristiana». Un altro tassello nella storia di Carminati che non ha mai avuto risposta. 

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La ragnatela de la mafia Capitale

massimo_carminati_notte_criminaleLa banda, la nuova banda di Roma. “La Mafia capitale”, per dirla con le parole dei magistrati. Strutturata come una piovra che asfissia la città. Ogni uomo ha un compito, ogni compito ha un prezzo. Appalti, usura, estorsioni, corruzione. Dentro il Comune di Roma, nelle istituzioni, nelle cooperative. Amministratori “a libro paga” come Franco Panzironi, ex presidente Ama, e Carlo Pucci dirigente di Eur spa. Pubblici ufficiali “a disposizione”, come Riccardo Mancini, ex presidente di Eur spa, che ha fatto da garante con l’amministrazione di Alemanno dal 2008 al 2013. La collusione con forze di polizia e servizi segreti.

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Un luogo: il distributore di benzina di Corso Francia, gestito da Roberto Lacopo, “base logistica del sodalizio”. E tutto quest’universo criminale che ruota attorno a Massimo Carminati, l’ex nar, 56 anni. Capo, organizzatore, fornitore ai suoi sodali di schede telefoniche dedicate, reclutatore di imprenditori collusi “ai quali fornisce protezione”, l’uomo che “mantiene i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali operante su Roma, nonché esponenti del mondo politico istitutzionale, con esponenti delle forze dell’ordine e dei servizi”. La sua villa di Sacrofano, Carminati la intesta fittiziamente a Alessia Marini, acquistandola per 500mila euro, di cui 120 mila in contanti.

Accanto a lui c’è sempre Riccardo Brugia, col quale condivide il passato di estremista di destra. Nell’organizzazione di Carminati, armata e di stampo mafioso secondo i pm di Roma, Brugia ha il compito di gestire le estorsioni, “di coordinare le attività nei settori del recupero crediti e dell’estorsione, di custodire le armi in dotazione del sodalizio”, scrive il gip Flavia Costantini nelle 1249 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare. Brugia e Carminati, tra le altre cose, sono accusati di estorsione ai danni di Luigi Seccaroni per farsi vendere il terreno in via Cassia.

Ogni uomo ha un compito, dunque. Ad esempio Fabrizio Franco Testa, manager, e presidente di Tecnosky (Enav) e uomo di Alemanno ad Ostia. “Lui è la testa di ponte dell’organizzazione nel settore politico e istituzionale, coordina le attività corruttive dell’associazione, si occupa della nomina di persone gradite all’organizzazione in posti chiave della pubblica amministrazione”.

I NOMI ECCELLENTI Dall’ex sindaco Alemanno a Panzironi

Oppure Salvatore Buzzi, l’uomo della rete di cooperative. Amministratore delle coop riconducibili al gruppo Eriches-29 giugno, affidatarie di appalti da parte di Eur Spa, gestisce per conto della banda Carminati le attività criminali nei settori della raccolta e smaltimento dei rifiuti, della accoglienza dei profughi e rifugiati, della manutenzione del verde pubblico, settori “oggetto delle gare pubbliche aggiudicate anche con metodo corruttivo”. Si occupa anche – secondo i pm – della contabilità occulta dell’associazione.
Sullo sfondo una pletora di imprenditori collusi, in primo piano, invece Franco Panzironi. Nel suo ruolo di componente del consiglio di amministrazione e amministratore delegato di Ama spa dal 2008 al 2011, ha del tutto “asservito la sua qualità funzionale”. Nelle carte ci sono tutti gli addebiti a suo carico: violando il segreto d’ufficio, violando il dovere di imparzialità nell’affidamento dei lavori, ha preso accordi con Buzzi “per il contenuto dei provvedimenti di assegnazione delle gare prima della loro aggiudicazione”.

Panzironi è accusato anche di averla turbata, quella gara. L’appalto è quello della raccolta delle foglie per il comune di Roma, 5 milioni di euro. Per la sua attività di “agevolazione dell’associazione mafiosa di Carminati” nel tempo ha ricevuto, per sé e per la sua fondazione Nuova Italia, 15.000 euro al mese dal 2008 al 2013, 120.000 euro in una tranche (il 2,5 per cento dell’appalto assegnato da Ama), la rasatura gratuita del prato di casa, e finanaziamenti non inferiori a 40.000 euro per la sua fondazione.

Per dire come funzionavano le cose al Campidoglio, basta leggere le accuse che vengono fatte a Claudio Turella, funzionario del Comune di Roma e responsabile della programmazione e gestione del Verde Pubblico: per compiere atti contrari ai suoi doveri di ufficio nella assegnazione dei lavori per l’emergenza maltempo, la manutenzione delle piste ciclabili e delle ville storiche, “riceveva da Buzzi, il quale agiva previo concerto con Carminati e in accordo con i suoi collaboratori, 25.000 euro per l’emergenza maltempo, la promessa di 30.000 euro per le piste ciclabili, più la promessa di altre somme di denaro”.

Nel calderone degli arresti c’è anche Luca Odevaine, ex vice capo di gabinetto di Veltroni. Nella sua qualità di appartenente al Tavolo di coordinamento nazionale sull’accoglienza dei rifugiati, dunque pubblico ufficiale, “orientava le scelte del Tavolo al fine di creare le condizioni per l’assegnazione dei flussi di immigrati alle strutture gestite da soggetti economici riconducibilia Buzzi e Coltellacci”, “effettuava pressioni finalizzate all’apertura di centri in luoghi graditi al gruppo Buzzi”. E per questo “riceveva 5.000 euro mensili in forma diretta e indiretta da Coltellacci e Buzzi”. Con l’aggravante di aver agevolato la banda di Carminati.

Infine Gennaro Mokbel, che finisce in questa inchiesta con l’accusa di estorsione, perché “mediante violenza e minacce” voleva costringere Marco Iannilli a restituire 8 milioni di euro “comprensiva dell’attesa remunerazione, consegnatagli un anno prima per investirla nell'”operazione Digint””. E qui è intervenuto Carminati il quale, su richiesta della vittima, “la proteggeva da Mokbel”. Faceva anche questo, Carminati. Il protettore.

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La Lupa: la mafia romana, i nomi

La mani mafiose sul Campidoglio. Una immagine che si svela con un’inchiesta della Procura di Roma, battezzata Terra di Mezzo, che porta in carcere 28 persone e ha fatto finire nel registro degli indagati il nome di 37 persone tra cui quello dell’ex sindaco della Capitale, Gianni Alemanno. Che risponde di associazione di stampo mafioso. Ai 37 gli inquirenti, coordinati di Giuseppe Pignatone, contestano a vario titolo, anche estorsione, usura, corruzione, turbativa d’asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori, riciclaggio e altri reati.

Al centro dell’indagine del Ros, un sodalizio da anni radicato a Roma e facente capo a Massimo Carminati, ex terrorista di estrema destra dei Nar ed ex membro della Banda della Magliana, con infiltrazioni “diffuse” nel tessuto imprenditoriale politico e istituzionale.Tra gli arrestati anche l’ex ad dell’Ente Eur, Riccardo Mancini. È in alcuni intercettazioni, Tra Mancini e Carminati, che è venuto fuori il nome dell’ex primo cittadino, dei rapporti con alcuni importanti imprenditori romani.

I carabinieri hanno perquisito gli uffici della Regione Lazio e del Campidoglio per acquisire documenti gli uffici della Presidenza dell’Assemblea Capitolina e presso alcune commissioni della Regione Lazio.Contemporaneamente la Guardia di Finanza ha eseguito un decreto di sequestro di beni riconducibili agli indagati, emesso dal tribunale di Roma, per un valore di 200 milioni di euro. Gli inquirenti, infatti, hanno documentato un sistema corruttivo finalizzato all’assegnazione di appalti e finanziamenti pubblici dal Comune di Roma e dalle aziende municipalizzate, con interessi anche nella gestione dei centri di accoglienza per gli immigrati.

In manette anche Riccardo Brugia, Roberto Lacopo, Matteo Calvio, Fabio Gaudenzi, Raffaele Bracci, Cristiano Guarnera, Giuseppe Ietto, Agostino Gaglianone, Salvatore Buzzi, Fabrizio Franco Testa, Carlo Pucci, Franco Panzironi, Sandro Coltellacci, Nadia Cerrito, Giovanni Fiscon, Claudio Caldarelli, Carlo Maria Guarany, Emanuela Bugitti, Alessandra Garrone, Paolo Di Ninno, Pierina Chiaravalle, Giuseppe Mogliani, Giovanni Lacopo, Claudio Turella, Emilio Gammuto, Giovanni De Carlo, Luca Odevaine. Il gip ha disposto gli arrestu domiciliari per Patrizia Caracuzzi, Emanuela Salvatori, Sergio Menichelli, Franco Cancelli, Marco Placidi, Raniero Lucci, Rossana Calistri, Mario Schina. Il giudice per le indagini preliminari ha invece rigettato la richiesta di misura cautelare nei confronti di Gennaro Mokbel e Salvatore Forlenza, che sono comunque indagati.

Domenica scorsa era stata perquisita la casa di Marco Iannilli, il commercialista romano, già finito in carcere e condannato in primo grado per la colossale truffa su Fastweb e Telecom Sparkle e coinvolto nel caso Enav. Domenica gli uomini del Ros hanno effettuato delle perquisizioni nella villa di Iannilli a Sacrofano, in provincia di Roma. Perquisita anche la casa di Gianni Alemanno, l’ex sindaco di Roma.

di Marco Lillo e Valeria Pacelli

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