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Mauro Rostagno

Mauro Rostagno: 26 anni per riconoscere il volto.

ROSTAGNOErgastolo per entrambi gli imputati del processo per l’omicidio di Mauro Rostagno. Dopo oltre due giorni di camera di consiglio la condanna alla pena perpetua per Vincenzo Virga, capomandamento della mafia di Trapani, e per il killer Vito Mazzara è stata letta dal Presidente Pellino alle 23,30 nell’aula Falcone di Trapani.

I due mafiosi erano accusati di essere l’organizzatore-mandante e l’esecutore dell’omicidio portato a termine la sera del 26 settembre del 1988 in contrada Lenzi, nelle campagne di Trapani. La condanna arriva dunque a ventisei anni dal fatto e dopo una lunga serie di depistaggi che si sono susseguiti nel tempoErgastolo per entrambi gli imputati del processo per l’omicidio di Mauro Rostagno.

Nel giorno del compleanno della figlia Maddalena finalmente arriva una sentenza che ristabilisce un briciolo di verità. E può farci solo bene.

Altro che “corna”

Altro che omicidio per “corna”, vendette meschine, altro che rivalsa di un pugno di spacciatori o ancora per coprire le magagne contabili della comunità. Ammazzato dalla mafia seguendo prima, durante e dopo, le metodologie mafiose: gli avvertimenti, i segnali di fastidio, le modalità del delitto, il mascariamento della vittima seguito successivamente, per quasi 26 anni. La “firma” della mafia sta tutta in queste poche righe. Solo chi non ha voluto vedere non ha visto. Anche tra i giornalisti, che fino a pochi giorni addietro hanno ancora scritto facendo intendere che la pista mafiosa è la panacea per tutti i mali di questa terra. “Dimostrerò – ha commentato il pm Paci – che avere individuato la mafia quale mandante ed esecutrice del delitto non è stata la pista più comoda e facile da battere. Non è stata comodità ma si sono messe in fila una serie di prove, e lo abbiamo fatto processando in questo processo anche chi ha condotto le indagini, inquirenti e investigatori”.

Rino Giacalone che segue con dovizia e intelligenza il processo per l’omicidio di Mauro Rostagno riporta le parole del pm Gaetano Paci.

Un patto per le storie (ballata per Mauro Rostagno)

24 anni fa moriva Mauro Rostagno. Ieri a Milano molti amici, artisti e persone hanno voluto ricordarlo. Questo il mio ricordo scritto e recitato per lui e la sua meravigliata complessità:

Facciamo un patto. Un regolamento per le storie. Per cercare di provare a tenerlo almeno in bilico questo paese che tende sempre a volere stare a testa in giù e raccontarci che sia comunque tutto così normale. Un patto mica solo per i professionisti, delle storie. Per tutti: chi le racconta, chi le ascolta, chi le vive, chi le subisce, chi le nasconde, chi le confessa e chi sente anche se gli mancano le ultime prove. Ci sono tutti, a pensarci bene. Un patto mica come un comandamento, molto più laico, divertitamente profano come quelle lotte senza bava alla bocca ma con la meraviglia della missione, che manca la tenda, le frecce e gli indiani per poter essere benissimo un pomeriggio tutti insieme in giardino.

Le frasi, prima. Le frasi che nel patto delle storie dovrebbero essere l’andata e il ritorno, l’inizio e la fine e insieme anche il cuore bianco: dice Francesco Milazzo (roba di mafia, per capirsi) che Francesco Messina gli disse “Per Rostagno abbiamo sistemato tutto”. Ecco così. Pronti, via. E la mettiamo la frase sul comodino pronta per usarla come coperchio per chiudere tutto prima di metterla in bella mostra sulla dispensa della cucina o sulla vetreria appena dentro il corridoio d’ingresso. Non è troppo importante il posto. Conta che ci passino spesso i nostri figli, e i figli dei nostri figli e gli amici che invitiamo a casa. E poi viene da solo che la storia si racconta da sola. Scavalca le generazioni con la leggerezza di un’onda di vento. E vive.

Poi facciamo che il protagonista non è il morto. Il protagonista è il vivo. Perché una storia con il morto finisce che è una memoria che non si può mica difendere e allora dentro la storia ci si infilano tutti per raccontare le cose loro che sono così banali, strumentali e oscene che hanno bisogno di infilarsi dentro i morti delle storie degli altri per meritare qualche riga di attenzione. Come una storia che parte dalla fine e serve solo quando è abbastanza fredda con le formiche e gli avvoltoi sopra. Niente formiche e niente avvoltoi, per favore nel patto che vogliamo fare per un’ecologia sana nel raccontare di questo Paese. La storia è del vivo, anche se ha la barba troppo lunga e fa paura alle signore al mercato, che la paura hanno bisogno di rivestirla con la giacca buona dell’odio per riuscire a conviverci, anche se il vivo ha sotto il palato i tempi che sono stati così vivaci e pieni che non si riescono a banalizzare con le etichette con cui si tranquillizzano le epoche, anche se il vivo ha quella curiosità così bambina, ogni anno più bambina di qualche giorno, da diventare una curiosità insopportabilmente leale e fiera, gioiosa e aperta, discutibile e discutente. Che “discutente” nemmeno esiste ma nel nuovo regolamento per le storie ogni parola che lascia un senso, un fastidio o un rumore addosso vale lo stesso. Esiste. Si parla del vivo, si chiede ai vivi, si racconta ai vivi. Si festeggia i compleanni prima del giorno che si muore ammazzati. Perché si festeggia il perché delle cose, con il nuovo patto per le storie, e se manca il perché delle cose non esiste finché qualcuno una volta per tutte non ce lo viene a raccontare. Come le parole che non esistono ma valgono lo stesso, le morti successe e con nemmeno un perché non valgono per essere commemorate. Ci si siede e si aspetta. Si aspetta un senso, un fastidio o un rumore addosso.

Facciamo che è abolita la paura: ogni parola la si pronuncia guardandola negli occhi appena evapora su davanti al naso appena detta. I mandanti sono quelli che scrivono la lettera per uccidere, gli assassini sono gli esecutori che portano la portata al tavolo (e non ci ha mai fatto impazzire l’arresto di un cameriere) e le protezioni sono quelle che curano che tutto fili liscio, come dei manuntentori della strada del proiettile dalla scatola, alle tasche, al tamburo, la pistola, l’aria, vento, faccia e poi le ossa o il marciapiede.

Dico, Mauro ci rideva anche quando si vedeva passare davanti alla faccia le parole. Per dire. Facciamo che teniamo le cose buone e che ci serve tenere sempre in tasca o nel portafoglio. Tipo, come diceva Mauro  “…agli uomini capita di mettere radici, e poi il tronco, i rami, le foglie… quando tira vento, i rami si possono spaccare, le foglie vengono strappate via: allora decidi di non rischiare, di non sfidare il vento. Ti poti, diventi un alberello tranquillo, pochi rami, poche foglie, appena l’indispensabile. Oppure te ne fotti. Cresci e ti allarghi. Vivi. Rischi. Sfidi la mafia, che è una forma di contenimento, di mortificazione. La mafia ti umilia: calati junco che passa la piena, dicono da queste parti. Ecco, la mafia è negazione d’una parola un po’ borghese: la dignità dell’uomo”.

Ecco ci teniamo le frasi buone. Quelle che tengono insieme il vento, le foglie, l’amore e la vita e riescono a raccontare comunque la merda. E ci scappa anche un sorriso mentre la racconti. Facciamo un regolamento per le storie. E decidiamo che ci ricordiamo i buoni e i cattivi. I buoni, come al solito, ce li teniamo come protagonisti per tenerli al centro e per ripararli dagli schizzi che qualcuno di corsa gli butterebbe volentieri in faccia e i cattivi in tutte le mille diversi forme di cattivi. I cattivi fieri di essere cattivi, quelli sono facili e vengono riconosciuti subito dai primi minuti. E i cattivi che vorrebbero rimbalzare tranquilli con la forma dei buoni: gli amici che dimenticano, i polemisti senza fantasia, le sicumere importanti che nessuno se la sente di mettere in discussione, quelli che sembra che scavano e invece spostano solo la sabbia e i cattivi che sono pagati per fare i buoni e se ne fottono perché il bipolarismo dell’etica e la labirintite della morale sono malattie molto in voga in questo paese a testa in giù.

Ecco facciamo che la memoria non la decidono i processi, questo no. Ma i processi una storia hanno il dovere di raccontarcela. Perché un fatto è un fatto perché è stato fatto e se è stato fatto c’è un chi, dove, come, cosa, quando e se siamo fortunati anche un perché. Senza quei sanguinosi sfilacciamenti che durano venti o trent’anni per riprendere il filo della storia. E la memoria è una vigilessa che si preoccupa prima, poi se ne occupa e poi non si addormenta. Semplice come una mamma.

Facciamo che ce la prendiamo la responsabilità della storia di Mauro. Di mettere insieme i pezzi. Di tenere al caldo quelli che abbiamo, di preparare il pennello quello degli archeologi per i pezzi che ci eravamo dimenticati in giro e che rovistiamo tra le siepi tutto intorno con la stessa attenzione come se ci fosse scoppiato per sbaglio il cuore. Poi mettiamo tutto in uno straccio, per riparare dall’umido dal freddo, e i pezzi li rimettiamo in fila girandoli per vedere qual è l’angolo in cui si attaccano e poi ci mettiamo il coperchio. Quello a forma di frase sul comodino pronto per usarla come coperchio per chiudere tutto.

“Per Rostagno abbiamo sistemato tutto”. Ci diciamo. E se riusciamo non spegniamo mica nemmeno il sorriso.

Poi la storia con le nuove regole delle storie in questo paese a testa in giù che vorrebbe convincerci che così è normale, la storia di Mauro la mettiamo in bella mostra sulla dispensa della cucina o sulla vetreria appena dentro il corridoio d’ingresso. Non è troppo importante il posto. Conta che ci passino spesso i nostri figli, e i figli dei nostri figli e gli amici che invitiamo a casa.

“Per Rostagno abbiamo sistemato tutto”. Ci diciamo. E poi viene da solo che la storia si racconta da sola. Scavalca le generazioni con la leggerezza di un’onda di vento. E vive.

(pubblicato su IL FATTO QUOTIDIANO)

Memento Rostagno semper

In questi giorni sto lavorando ad un pezzo su Mauro Rostagno (il sociologo e giornalista italiano, come lo definisce wikipedia, ucciso dalla mafia il 26 settembre 1988) per l’evento a Milano che lo vuole ricordare 24 anni dopo. In molti campi Mauro è stato un innovatore pagandone il dazio come spesso succede con l’isolamento che concima l’attentato e poi innaffia il silenzio. Appartengo ad una generazione che su Rostagno ne sa poco, che vede il ’68 come un lungo happy hour molto floreale e che ha bisogno di poche ma rassicuranti vittime di mafia. Con morti certi, assassini identificati e un certo analfabetismo sui mandanti.

Ho ritrovato un pezzo uscito su Il Manifesto ormai più di un anno fa che traccia bene della morte di Rostagno la confusione e la banalizzazione successive. Mi colpisce quella solita zona molle e grigia che una certa semplificazione anche politica oggi cerca di dissipare in questo sempiterno gioco di buoni da una parte e cattivi dall’altra, di Stato in perenne lotta contro la mafia e mai pezzi di Stato consapevolmente o meno al suo servizio. Vale la pena rileggerlo, sul serio:

In fondo, anche quella dell’uccisione di Mauro Rostagno è stata una storia semplice. Cosa Nostra uccise, nel lontano settembre 1988, a Trapani, un giornalista perché le faceva molta paura. Molti erano al corrente che questa sarebbe stata la sua sorte e si adoperarono per facilitare il compito di Cosa Nostra, prima e dopo l’uccisione.
Tra questi, diversi esponenti dell’arma dei carabinieri; magistrati; uomini politici, leader dell’opinione pubblica. Ora che, a distanza di 23 anni, si celebra finalmente un processo contro mandanti ed esecutori, alcune delle circostanze vengono fuori e confermano quanto, in Sicilia, la dissimulazione sia sempre stata un’abitudine; la menzogna ben accetta; la connivenza con la mafia ben più vasta e profonda di quanto sia logico immaginarsi. Per il lettore del manifesto, che è sicuramente già molto informato, riassumo qui alcuni passaggi simbolo della vicenda.

Mauro Rostagno: una storia semplice

SUBITO PRIMA DEL DELITTO

Nel 1988 Mauro Rostagno, una delle icone del ’68, gestisce alle porte di Trapani una comunità per il recupero di tossicodipendenti e alcolisti. A questa attività associa quella di giornalista televisivo, con trasmissioni in cui cui si parla di mafia e corruzione politica, come mai è stato fatto in Sicilia (e non sarà mai fatto dopo): nomi e cognomi, filmati, inchieste vanno in onda ogni giorno dell’emittente locale RTC con ascolti altissimi. All’inizio dell’anno Rostagno è andato dai carabinieri di Trapani a denunciare quanto ha appreso su Licio Gelli e una potentissima loggia massonica in cui convivono i capimafia, i politici e le istituzioni della città e ha ottenuto che la sua denuncia fosse trasmessa in Procura. E’ andato a Palermo a parlare di altre sue scoperte (traffico d’armi all’aeroporto di Kinisia) con il giudice Giovanni Falcone, e a Roma alla direzione del Pci.
Nel luglio 1988, Leonardo Marino, il “pentito” che i carabinieri del colonnello Umberto Bonaventura istruiscono da settimane, dichiara che Mauro Rostagno, insieme ad altri, era al corrente del delitto Calabresi avvenuto nel 1972 ad opera di Lotta Continua. L’attività antimafia di Rostagno viene così resa pubblica, la sua immagine pubblica pesantemente colpita. In tutto il lunghissimo processo Calabresi si scoprirà che, da parte degli inquirenti, non ci fu mai nulla che giustificasse quell’avviso di garanzia. Rostagno chiede inutilmente di essere interrogato. Il 26 settembre 1988 viene ucciso.

IL DELITTO

E’ un agguato in una strada di campagna. L’illuminazione pubblica è stata tagliata. L’automobile usata è stata rubata mesi prima a Palermo e subito dopo viene trovata bruciata. Per la polizia, guidata dal vicequestore Rino Germanà capo della Squadra mobile, ovviamente si tratta di un delitto di mafia. Movente: far tacere Rostagno. Per i carabinieri di Trapani, invece, la mafia non c’entra per nulla. Rostagno è rimasto vittima di spacciatori di droga, oppure di una faccenda di corna. Per la magistratura di Trapani, in città la mafia non esiste (e dire che tre anni prima a venti chilometri di distanza è stata scoperta la raffineria d’eroina più grande d’Europa). All’obitorio, i carabinieri diffondono la voce che nella macchina di Rostagno c’erano rotoli di dollari e siringhe per eroina.

A TRAPANI, SUBITO DOPO

Il capitano dei carabinieri Elio Dell’Anna del Reparto Operativo invia alla procura trapanese un rapporto riservato in cui afferma che il giudice istruttore Lombardi (inchiesta per il delitto Calabresi) gli ha comunicato, a Milano, che «il Rostagno era al corrente di tutte le motivazioni, compresi esecutori e mandanti, concernenti l’omicidio Calabresi; il Rostagno aveva rotto i ponti con i suoi ex compagni di lotta e forse aveva intenzione di dire la verità».
La sua informativa verrà riscontrata come falsa.

A MILANO, CINQUE ANNI DOPO

Nel novembre del 1993 al processo d’appello per l’omicidio Calabresi (dove Sofri. Bompressi e Pietrostefani verranno assolti), l’avvocato di parte civile Luigi Ligotti dichiara: «… Mauro Rostagno non è morto per lupara … è stato fatto tacere dai suoi compagni di un tempo, loro sì mafiosi». (Luigi Li Gotti diventerà poi senatore per l’Italia dei Valori e sottosegretario alla Giustizia nel secondo governo Prodi).

A TRAPANI, OTTO ANNI DOPO

Il procuratore capo Gianfranco Garofalo convoca, gioioso e spavaldo, una conferenza stampa per annunciare la risoluzione del «caso Rostagno». L’ha fatto uccidere la sua compagna Chicca Roveri, che viene arrestata come mandante, per questioni adulterio, gelosie e traffici di droga. «Cosa Nostra non doveva essere gratuitamente incolpata» afferma solennemente. La sua inchiesta crolla miseramente in due settimane, ma questo non impedisce la pubblicazione di un libro di un certo successo: «Rostagno, un delitto in famiglia», edizioni Mondadori.
Se l’iniziativa del procuratore fosse ispirata alla malafede, o semplicemente frutto della sua vanità, o della sua insipienza, ancora oggi non è dato sapere.

A PALERMO, DICIANNOVE ANNI DOPO

Il pubblico ministero Antonio Ingroia chiede il rinvio a giudizio di Vincenzo Virga, capo mafia di Trapani come mandante dell’omicidio; e di Vito Mazzara, suo killer di fiducia, come esecutore. L’accusa presenta una inequivocabile perizia balistica; rivela il movente attraverso le dichiarazioni dei maggiori esponenti di Cosa nostra (Brusca,Siino, Sinacori); rivela che l’uomo che tagliò la luce quella sera, tale Vincenzo Mastrantonio operaio Enel e autista di Virga, venne ucciso nel 1989 «perché sapeva troppo». Mostra che le armi in dotazione a Mazzara hanno ucciso altre persone, oltre a Rostagno.
Ricorda che il filone giusto fu quello della polizia di Stato, che subito indicò la pista mafiosa e che Rino Germanà fu oggetto di un attentato nel 1992, dal quale si salvò con coraggio rispondendo al fuoco. Per quanto riguarda Vincenzo Virga, egli è un ex contadino diventato imprenditore, monopolista del cemento trapanese, proprietario della più grande gioielleria della città. Sodale di Marcello Dell’Utri, per cui agisce come «recupero crediti»; fondatore del primo club di Forza Italia, latitante dal 1994, in carcere dal 2001.
All’udienza di ieri sono stati ascoltati l’allora capo del reparto operativo dei Carabinieri di Trapani, oggi generale, Nazareno Montanti e l’allora brigadiere dei CC, oggi responsabile degli stessi a Buseto Palizzolo (Tp), Beniamino Cannas.
Non si ricordavano quasi nulla, nemmeno le cose che si ricordano tutti.
Anche per loro era stata una storia piuttosto semplice. Routine.

Quello che conta è l’appartenenza

‎”Qui non conta più se uno è bravo o non è bravo, se è pulito o se ha le mani sporche, se è intelligente o è cretino, se sa fare il suo mestiere o è un ignorante della più bell’acqua, ma quello che conta è l’appartenenza: si iddu m’apparteni o non m’apparteni. Se fai parte della casta, della mia tribù, della mia corrente e allora la cosa vale, se invece non ne fai parte non sei nessuno. Fuori fa freddo, però io apro la finestra: pftu, sputo e richiudo, e fuori deve stare, perchè quello che conta è l’appartenenza. Il degrado dell’appartenenza è il clientelismo politico” Mauro Rostagno

Mauro Rostagno. Oggi.

Ma certo è curioso che ad appena sette mesi da quella deposizione, di fronte al cadavere di Rostagno, allo stesso carabiniere Cannas e ai suoi superiori non sia venuto in mente di approfondire anche le relazioni tra mafia e massoneria di cui il giornalista s’era interessato. Né se ne trova traccia nei successivi rapporti ai giudici. I carabinieri preferirono concentrarsi sulle «irregolarità» all’interno della comunità, poi sui tossicodipendenti allontanati da Saman, tralasciando l’ipotesi mafiosa… Seguire gli sviluppi del processo Rostagno è un vaccino.

Non facciamo spegnere Mauro Rostagno

In questi giorni si tiene un processo che nessun cittadino eticamente e costituzionalmente vivo può permettersi di non ascoltare e seguire. Mauro Rostagno è stato ucciso a 46 anni per mano di mafia. Seguo il processo cercando briciole in giro per la rete e studiando le poche carte che sono riuscito a recuperare. Mauro Rostagno è una noce di impegno e rifiuto del compromesso nella nebbia trapanese. Ogni volta che leggo le parole e i fatti sento il peso insopportabile e pluriomicida di un’antimafia che dimentica per comodo o sottovaluta il dovere di esercizio della memoria. Mauro Rostagno è una favola che addolcisce, e appena si comincerà seriamente a raccontarla avremo la colpa di essere in ritardo.

Le parole di Maddalena (sua figlia) sono il ritratto di un dolore che non si spegne sotto la brace. Mi sono commosso a leggerla. Sono le parole che sanguinano di una storia ancora viva, come un’aragosta. Con un lamento quasi impercettibile. Seguiamo il processo Rostagno: cerchiamolo nei blog, parliamone al bar, agli amici, chiediamoci tutte le mattine come andrà a finire. Teniamo acceso questo fuoco.

di Maddalena Rostagno – Nei giorni della camera ardente io stavo fuori dalla porta, senza entrare, a guardare i volti delle persone che entravano a salutarti. Ti ho salutato per ultima, all’ultimo, da sola. Al funerale non sono venuta. Ti ho salutato da sola, al cimitero, scavalcando il muretto. I nostri saluti sono una cosa nostra, intima, privata. Se ogni tanto diventano cosa pubblica è solo per avere lo spazio per farti ricordare.

Il tuo funerale. Due giorni fa ero in aula di tribunale mentre il generale Nazareno Montanti, capo del reparto operativo dei carabinieri che si occupò delle indagini, fin da subito. Ha detto che lui non guardava la televisione, che sapeva dai suoi sottoposti che avevi uno spazio a RTC, che forse ti occupavi di temi sociali e non di denuncia. E che comunque non eri molto seguito. Ringrazio Enza Rando, legale di Libera, costituitasi parte civile nel processo, per il suo intervento. Per aver dato voce al mio dolore e soprattutto al falso storico. Il tuo funerale l’ho visto pochi giorni dopo, da sola, lo custodisco e mi è capitato in questi quasi 23 anni di riguardarlo. Al tuo funerale non c’erano solo i tuoi familiari, in prima fila vicino a Chicca, un’anziana signora che avrebbe potuto essere tua mamma. Non c’erano solo i numerosi tuoi amici arrivati dal Nord. Al tuo funerale c’era la città di Trapani, o almeno una consistente parte di essa. La chiesa era stracolma durante la bellissima omelia di monsignor Adragna. Quando hanno preso la tua bara e sei uscito dalla chiesa c’erano tantissime persone, le strade piene, a darti un’ultima carezza. Arrivati in piazza, stracolma di gente, loro, le persone hanno fischiato e/o applaudito gli interventi. E dopo sono stati intervistati tanti giovani, che avevano la mia età, che ti ascoltavano. Che ti avevano scelto come punto di riferimento.

Se è stato concesso al Generale di dire questo nell’aula, senza che l’avvocato della comunità Saman, anch’essa costituitasi parte civile nel processo, abbia sentito il dovere ed il bisogno di controbattere. Spero venga accolta la mia preghiera, nella prossima udienza, di acquisire agli atti il girato del tuo funerale. Ma questo è molto sentimento.

Mi chiedo dove siano i tanti giornalisti che si definiscono tali e d’inchiesta. In molti ti ignorano, altri -pochi-scrivono di te senza essere mai andati al tribunale, a leggere i 35 faldoni e più delle carte che ti riguardano. Certo, ci vuole tempo e passione. E‘ più facile fare copia e incolla da articoli di colleghi, rischiando di riportare, ancora e ancora, come vere falsità. Un piccolo esempio la frase di Renato Curcio e di un colloquio con Mariano Agate avvenuto nel carcere di Favignana. Dove a domanda di Renato gli viene risposto che è cosa vostra, cosa nostra non c’entra. Falso. io ho letto il verbale, ma forse sono l’unica ad averlo fatto. Curcio smentisce tale circostanza davanti al pm. Ma siccome qualcuno lo ha scritto una volta, altri copia e incolla continuano a riportarlo come fatto vero, effettivo, accaduto. E così si continua a mascariare il Contesto, a gettare fango e rendere sempre più lontana e impossibile la verità

Io non sono una giornalista. Ma le fonti, le fonti primarie?

Perché nessuno di loro si è mai posto alcune domande. Perchè la necessità di denigrare ed escludere la pista mafiosa sin dal “rapporto preliminare”? Per quale ragione “alcuni” non diedero mai impulso al compimento di atti di indagine finalizzati ad appurare la veridicità delle circostanze poste a fondamento delle valutazioni contenute nel rapporto preliminare, specie di quelle a fondamento della esclusione della pista mafiosa? E’ ammissibile che ciò sia avvenuto in assoluta autonomia? E perché nessuno è interessato ad un esposto che è stato fatto contro Montanti & co?

Più facile scrivere della teoria del “pompino divino”. Pensa Mauro, c’hai avuto la sfortuna di infrattarti con una moglie di un generale in un campo e guarda caso di vedere un aereo atterrare e il verificarsi di strani scambi. E casualità, tornandoci un’altra volta, questa seconda fornito di telecamera, hai avuto la stessa sfacciata fortuna – o sfortuna- di riassistere allo stesso episodio. Il “pompino divino” e non, mi pare più verosimile, una soffiata o una collaborazione ed indagine con terzi. Ma si sa, certe cose tirano di più.

Radio radicale sul sito propone l’audio integrale di tutte le udienze. Noi familiari, credo tutti, siamo disponibili ad aiutare eventuali giornalisti pronti e volenterosi, necessariamente forniti di un po’ di tempo ed umiltà per leggersi alcune cosuzze, prima di scrivere, e contribuire al mascariamento.