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La guardia costiera libica spara contro una nave italiana: «ci siamo sbagliati, pensavamo a una barca di migranti»

Raffiche di arma da fuoco contro la motovedetta italiana CP 288 della Guardia Costiera sarebbero state sparate da una imbarcazione della Guardia Costiera libica a 13 miglia al largo delle coste libiche. Lo dice Grnet.it, il sito web su questioni di Sicurezza e Difesa precisando che nessuno degli occupanti della motovedetta italiana sarebbe rimasto ferito.

Fonti qualificate interpellate a Roma hanno confermato l’ episodio, che è avvenuto tre giorni fa, e le successive scuse della guardia costiera libica. “La motovedetta libica – spiega Grnet – avrebbe ordinato via radio all’unità italiana di fermare le macchine ma la CP288 si sarebbe data alla fuga, provocando la reazione della controparte libica che avrebbe sparato una raffica di avvertimento a poppa sinistra della vedetta italiana, che riusciva però a distanziare gli inseguitori”.

Successivamente, dice il sito web, “sarebbe arrivata una telefonata di scuse da parte delle autorità libiche, diretta al Comando generale delle Capitanerie di Porto (Maricogecap), che ha ammesso l’errore dei militari libici, i quali avrebbero scambiato l’unità italiana per un barcone di immigrati“.

La vicenda appare però preoccupante. Sia per il rischio corso dai marinai italiani, sia per il fatto che in qualche modo si ammetta da parte libica di avere voluto sparare sui migranti. Si attendono precisazioni.

(fonte)

Per ragionare sulle ONG vale la pena leggere Manconi (i tifosi rimarranno delusi)

(Luigi Manconi, oggi, su Il Manifesto)

Tra i tanti fattori indecenti di questo scandalo del posticcio scandalo delle Ong, ne voglio sottolineare due.

L’immagine, così frequentemente utilizzata, dei «taxi del Mediterraneo» (Luigi Di Maio) appartiene a un immaginario dozzinale e a una misera sottocultura che ha già prodotto la definizione di «hotel di lusso» (Roberto Castelli) a proposito degli istituti penitenziari italiani. E rimanda a un’angustia mentale, a una concezione immancabilmente sordida delle attività umane, a una voluttà di anticonformismo straccione, indirizzato contro il «buonismo» così come contro la globalizzazione, contro le politiche universalistiche e contro tutto ciò che trascende il perimetro del giardino di casa.

E a quel sottofondo oscuro di pulsioni profonde che è il collante principale di settori dell’elettorato di Lega e Cinquestelle: un rancore sociale che arriva a vedere nei migranti – così come nei detenuti – i concorrenti di una competizione giocata sulle macerie dei sistemi di welfare e delle culture solidaristiche.

C’è poi, in questo quadro, un secondo elemento almeno altrettanto offensivo. Ed è rappresentato da quel Dottore Carmelo «forse» Zuccaro che rovescia d’un colpo solo il già traballante codice di comportamento della categoria, mortificando ogni regola, umiliando ogni stile di condotta e infrangendo ogni vincolo di ruolo. In una incontinente e a tratti persino esilarante performance oratoria, il Dottore Carmelo «forse» Zuccaro annuncia prima di «aver aperto» e, dopo un mese, di «voler aprire un’inchiesta per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nei confronti delle Ong». E poi è tutto un rovinoso e logorroico precipitare: «Ho evidenze che tra alcune Ong e i trafficanti di uomini ci sono contatti diretti», «alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti», ma «non sappiamo ancora se e come utilizzare processualmente queste informazioni».

Il procuratore disegna così un vero e proprio progetto criminale che potrebbe avere tra le sue finalità – alla lettera – «la destabilizzazione dell’economia italiana». E denuncia l’esistenza di un piano capace di minacciare gli interessi italiani e la stessa sicurezza nazionale. Ma, alla prima richiesta di verifica, quella articolata e dettagliata narrazione si disgrega e si sfalda sotto una sequenza di avverbi di dubbio (forse, innanzitutto; e poi: probabilmente, quasi, eventualmente…), di tempi al condizionale e di periodi ipotetici. E il Dottore Carmelo «forse» Zuccaro candidamente dichiara di non avere «alcuna prova» e che, tuttavia, è suo dovere segnalare «il fenomeno». Va detto – per amor di verità – che ormai da trent’anni una parte, numericamente ridotta ma irresistibilmente loquace, della magistratura ci ha abituato a simili mitologiche rappresentazioni: «senza alcuna prova».

E tuttavia qui si rischia davvero di toccare il fondo di un comportamento che disonora la stessa magistratura e ne deforma fino alla caricatura la funzione.

Sia chiaro: certamente vanno indagate le possibili ombre che l’attività di soccorso può suscitare, va incentivata la massima trasparenza e vanno stabilite regole condivise: non contro le organizzazioni, ma a loro stessa tutela. Ma qui si è fatto l’esatto contrario. Qui si è allestita la più velenosa campagna di denigrazione e manipolazione contro le politiche per l’immigrazione e l’asilo: una campagna che, per ragioni molto serie e preoccupanti, è penetrata fino in fondo alle culture tradizionalmente considerate della solidarietà (riconducibili alla sinistra, e non solo).

E pensare che tutto ha avuto inizio con un rapporto di Frontex che accenna ad alcune conseguenze non volute (unintended consequences), ad effetti involontariamente avversi che coinvolgerebbero la presenza delle navi militari e di quelle delle Ong e il loro aumento nel corso del 2016, a poche miglia dal limite delle acque libiche. Effetti che porterebbero entrambe queste categorie di navi (quelle militari e quelle delle Ong) a essere l’obiettivo più agevolmente raggiungibile da parte dei migranti. Tutto qui. E senza che venisse posto in discussione il fatto che il cosiddetto pull factor, di cui si è parlato fin dai tempi di Mare Nostrum, viene considerato dagli stessi soggetti militari un elemento secondario rispetto a quel push factor, ben maggiore e inarrestabile, che induce migliaia e migliaia di persone a lasciare la propria terra.

Tanto è vero che a tutto questo improbabile castello di accuse hanno risposto puntualmente non solo i rappresentanti delle Ong, ma soprattutto gli alti ufficiali responsabili delle diverse missioni italiane ed europee nel Mediterraneo.

E, finalmente, giovedì scorso anche le istituzioni dell’Unione europea si sono fatte sentire. Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione europea, ha affermato che «non c’è alcun tipo di prova che le Ong lavorino con organizzazioni criminali» e, ancora, che quelle stesse Ong «sono un asset prezioso perché fanno quello che i governi per ragioni politiche non sono in grado di fare».

Ecco, questo è il punto: le Ong surrogano una politica europea o totalmente deficitaria o drammaticamente irresponsabile.

E guai se non ci fossero le Ong.

Questo è il naufragio dei nostri scheletri.

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Mentre ripeschiamo il peschereccio che il 18 aprile dell’anno scorso ha inscatolato e disperso i corpi di 700 persone nel canale di Sicilia mi viene da pensare al relitto che è poi i relitti che siamo noi. Relitto è ciò che resta ai bordi della strada, in fondo al mare, sulle pendici di una montagna sorvolata con incuria o arrugginito in una collina di rifiuti. Ci sono, nel relitto, tutti i segni della consumazione, dell’usura affaticata e dell strada percorsa: la potenza del relitto è che ha disegnata addosso la curva della sua fine. Anche per questo quel peschereccio che ha trasportato cadaveri fino al fondo al mare sarebbe da esporre nelle piazze come monumento in memoria di tutto ciò che inosservato ci affonda intorno.

Verrà un giorno, credo, che questo Mediterraneo cimitero liquido di fuggitivi (perché non viaggia chi non sa dove arrivare, chi s’imbarca solo per scappare) muoverà nel ricordo le stesse pinze delle camere a gas, quei becchi di disperazione da cui non riusciamo ad assolverci, le stesse punte di una tragedia che ha pascolato prepotente in mezzo alla quotidianità impermeabile e anafettiva. Quando davvero la storia riuscirà a mostrare le dimensioni della tragedia il barcone ripescato in queste ore sarà il museo della vigliaccheria. Ci saranno scolaresche in gita ad Auschwitz e sul ponte di questa nave. Cammineremo là dove si i corpi sono sdraiati asfissiati sott’acqua e racconteremo quanto l’uomo possa diventare un’isola quando puzza di disperazione e di paura.

Ci chiederanno dov’eravamo noi. Sicuro.

(continua qui)

La risposta in copertina

Ci abbiamo pensato a lungo: ho molti colleghi che da tempo cercano di convincermi che la copertina di un settimanale ne determina in gran parte le vendite; tra l’altro si esce di venerdì ed è quasi il 25 aprile e quanta gente ha voglia di condannarsi a riflettere nel fine settimana? Molti. Io credo molti. Io spero molti. Per questo con un Mediterraneo insanguinato com’è in questi giorni abbiamo deciso di dare la copertina secondo le priorità di umanità e abbiamo deciso di prendere una posizione, stare fortemente da una parte, essere partigiani insomma. Con una copertina così (da venerdì, Left, in edicola):

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Niente da scrivere. Ora.

Quintali di parole. Quintali di carne morta. Quintali d’acqua. E ogni volta le parole che sono più o meno le stesse. E questa sensazione che non cambi niente, mai niente, con un’immobilismo che uccide più di un esercito.

Io, per ora, non ho niente di intelligente da dire, non so nemmeno che colore ha il mio dolore. Quindi niente da scrivere. Ora.

Tredicimilacinquecento

Tredicimilacinquecento morti durante le traversate dei mari che promettono una migrazione a buon fine. I numeri sono di Human Rights Watch.

Tredicimilacinquecento morti sono un genocidio senza padroni negli stessi mari che bagnano le coste dei nostri ferragosto. Dietro ai “flussi”, “respingimenti”, la legge “Bossi-Fini” e tutto il resto ci sono loro: sono due volte il paese in cui apriamo il teatro tutti i fine settimana. E sono un fallimento per tutti. Sicuro.