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metoo

Un’azione politica contro violenze e molestie? La politica. Ad esempio.

Rivedere la legge, ad esempio. Che è compito della politica ma come sappiamo la politica ha bisogno di essere stimolata, diciamo. E la legge italiana su violenze e molestie continua ad essere debole per i tempi ristretti della denuncia (Beatrice Brignone aveva presentato un progetto di legge proprio per allungare gli attuali 6 mesi a 12), per prevedere la procedibilità d’ufficio e magari pensare a “un’aggravante da quattro a sei anni se la molestia è commessa nell’ambito di una qualsiasi tipologia di rapporto di lavoro, formazione, docenza” come nel novembre scorso aveva proposto MDP con Laura Ricciatti.

E sono solo alcune delle soluzioni fattibili di cui discutere, tutti (perché è un problema maschile, anche se ai fallocrati dà così fastidio sentirselo dire) e magari sfruttando il momento di consapevolezza che sembra riaccendersi.

Eccolo, un impegno da campagna elettorale.

Qualche buon motivo per non avere paura di #MeToo

Ne scrive Anna Momigliano per Rivista Studio:

«Le argomentazioni dei Grandi Preoccupati, si diceva, non mi convincono. Eppure. Eppure devo ammettere che ci sono molte persone che stimo, inclusa Teresa, che esprimono un disagio. Provo ad avanzare un’ipotesi: forse, se questa storia ci mette a disagio, è anche perché ci sono ancora troppi non detti, troppe questioni – morali e culturali – che non sono state sollevate, o affrontate con la serenità e l’onestà intellettuale che meriterebbero. Una di queste questioni è, suppongo, il rapporto tra il garantismo e il credere alle donne. Insomma, è da secoli che ci ripetiamo che quello che distingue la civiltà dalla barbarie è che in un mondo civile si è innocenti fino a prova contraria, e adesso arriva un movimento che dice che dobbiamo credere alle donne che dicono di essere molestate. Una tensione tra questi due valori, inutile negarlo, esiste. La domanda è, c’è modo di trovare una sintesi?

Non risposte. Credo però un punto di partenza sia riconoscere che le violenze di natura sessuale sono, quando avvengono ai danni di donne adulte, un caso unico: nessun altro reato ha mai portato, storicamente, a mettere le vittime sul banco degli imputati, e nessun altro reato genera, ancora oggi, reazioni di sospetto nei confronti di chi lo denuncia. Quando una donna accusa un uomo di averla violata nella sfera più intima, c’è qualcosa che scatta e che ci fa dubitare, automaticamente, di lei: se la sarà cercata? se lo sarà inventata? e se invece ci stava? Sono dinamiche, consce e inconsce, che si trascinano da secoli e che non si cancellano da un giorno all’altro. Ed è proprio questa tendenza a mettere in dubbio le parole delle donne ha permesso ai loro aguzzini di agire con un senso di impunità. A questo si aggiungono, poi, questioni più pratiche: spesso, come ha detto qualcuno, le vittime di violenze sessuali non hanno alcuna prova se non il loro dolore. Sarebbe bello, allora, che cominciassimo a credere alle donne, magari anche rendendoci conto che farlo richiederà uno sforzo, arginando certe tendenze ataviche.

Questo significa che dobbiamo fare un’eccezione al principio di presunzione di innocenza? Dio ce ne scampi, voglio sperare che riusciremo a trovare una quadra. Nel mio piccolo, mi sono autoimposta questa regola: mai accusare una donna di mentire, salvo prove evidenti a suo sfavore; mai esigere che un uomo paghi, salvo prove evidenti a suo sfavore. E qui veniamo al caso di cui parla tutta la città: per quel che vale, io credo a Dylan Farrow, perché non vedo che ragione avrebbe di dire il falso (è stata manipolata dalla madre, dicono il padre e uno dei fratelli, però il giudice che si occupò del caso nel ’93 stabilì che «non ci sono elementi credibili» per sostenerlo, rimproverando ad Allen di «nascondersi» dietro «lo stereotipo della donna abbandonata»; lo stesso giudice assolse il regista dalle accuse di molestie per mancanza di prove: «Non sapremo mai quello che è successo»); credo a Dylan, ma non per questo avverto l’esigenza di crocifiggere Allen: un’assoluzione per mancanza di prove è sempre un’assoluzione, meglio mille colpevoli liberi che un solo innocente in galera. Quanto ai suoi film, si potrebbe continuare a guardarli anche se fosse colpevole e dietro le sbarre, siamo tutti adulti quanto basta per sapere distinguere tra opera e artista (io A Rainy Day in New York pensavo di vederlo, ora scopro che forse non uscirà).

Concludendo, visto che la domanda alla base di questa serie è “che direzione può o deve prendere la battaglia sui diritti delle donne?”, queste sono le mie due modeste, ma serissime, proposte: primo, andiamo avanti, senza farci prendere da inutili paturnie sull’andare troppo oltre, tenendo sempre gli occhi sul Paese reale, anche perché nel Paese reale di strada ne abbiamo fatta davvero poca; e, secondo, proviamo a parlare delle questioni non risolte, armati di tutta la razionalità e di tutta l’onestà intellettuale di cui siamo capaci. Poi ce ne sarebbe una terza di proposta, che però è un po’ meno seria: qualcuno potrebbe chiedere al giudice che ha stabilito che sculacciare non è molestia se la regola vale solo quando si sculaccia una dipendente o vale anche quando si sculaccia un giudice?»

L’articolo completo è qui.

Ilda Dominijanni: «Je ne suis pas Catherine Deneuve»

(di Ilda Dominijanni da Internazionale)

La scoperta delle molestie e dei ricatti sessuali in uso a Hollywood e in tutto il mondo del lavoro americano dimostra che questi non sono tempi buoni né per il desiderio né per l’esercizio della sessualità fra donne e uomini. Com’era già accaduto in Italia con gli scandali sessuali d’epoca berlusconiana, quello che viene alla luce non è solo la tentazione maschile perenne all’abuso di potere, che riduce le donne a oggetto da possedere e la libertà femminile a disponibilità di concedersi. È anche, forse soprattutto, una diffusa miseria della sessualità maschile, che scambia potere, favori, assunzioni in cambio di briciole come un massaggio sotto un accappatoio, una masturbazione a cielo aperto, un assoggettamento a una virilità incerta. Una miseria sessuale che è parente stretta di una miseria relazionale, ovvero di una altrettanto diffusa incapacità maschile di relazionarsi all’altra, al suo desiderio e ai suoi dinieghi, alla sua forza e alla sua vulnerabilità, alla sua libertà e alle sue necessità.

Precisamente il cinema hollywoodiano, a ben guardare, ci aveva lentamente abituato, nell’ultimo decennio, a questo progressivo immiserimento, per non dire scomparsa, della sessualità nelle relazioni fra uomini e donne, con un sottile ma percettibile scivolamento dalle scene di sesso passionale degli anni novanta a quelle quasi sempre giocate successivamente su un ambiguo confine fra sesso e violenza, sesso e possesso, sesso e performance. E del resto basterebbe il successo sorprendente, e non a caso contemporaneo al #metoo, di un racconto come Cat person per farsi un’idea dello stato delle cose: in questo caso non c’è ombra di violenza né di molestie, ma la miseria sentimentale è la stessa, l’alfabeto della seduzione è precipitato nel dimenticatoio e ogni passione è spenta.

Quello che sta saltando con il #metoo e il Time’s up è il tappo di silenzio-assenso femminile che copriva questa situazione. A un primo sguardo, certo, si tratta di movimenti contro le molestie e i ricatti sessuali, e contro l’abuso di potere maschile che c’è dietro. Ma com’era già avvenuto in Italia pochi anni fa, la presa di parola femminile ha l’effetto di svelare qualcosa di più profondo, un “dispositivo di sessualità”, per dirlo con l’espressione di Foucault, in cui il desiderio non ha più posto e il sesso è ridotto a contrattazione, ricatto, performance. E da cui è urgente uscire, se i destini della sessualità come espressione libera e creativa della specie umana ci stanno a cuore.

La Francia è la Francia, e pretende sempre di avere l’ultima parola, a costo di far diventare la libertà “libertà di importunare”

Perciò è del tutto fuori campo e fuori fuoco la reazione, finora prevalentemente maschile nonché prevalentemente italiana, di chi ulula che all’esito del #metoo ci sarebbe l’oscurantismo politically correct di un totalitarismo (sic!) proibizionista e sessuofobico. È vero l’esatto contrario: il #metoo, e in generale la presa di parola femminile contro l’andazzo corrente della miseria del maschile, nasce in una situazione che ha già mandato a morte la sessualità, e forse più farla risorgere, una volta liberata dal dispositivo di cui sopra. Non stupisce che a non capirlo sia, in Italia, lo stesso fronte mediatico, il Foglio in testa, che agitò gli stessi fantasmi liberticidi, sessuofobici e proibizionisti a tutela della “libertà” e della “seduzione” che circolava nelle “cene eleganti” di Berlusconi, già allora paventando e minacciando la fine dell’ars amatoria, la censura della passione, l’inibizione del corteggiamento, e impugnando l’inscindibilità del sesso da una certa dose (quale, esattamente?) di prevaricazione, o l’indecidibilità fra molestia e avance.

Stupisce di più – ma in fondo neanche tanto – che a usare gli stessi argomenti sia adesso un gruppo di donne francesi – intellettuali, artiste, attrici, psicoanaliste, giornaliste, fra le altre una campionessa riconosciuta della seduzione doc come Catherine Deneuve – le quali si lanciano nella difesa della “libertà di importunare, indispensabile alla libertà sessuale”, come se il #metoo avesse già instaurato un regime del divieto dove nessuno può sporgersi sull’altra e nessuna sull’altro, il nemico delle donne sono gli uomini nella loro totalità, la parola femminile, altro che liberarsi, si autoimprigiona in un codice politically correct autoinibitorio, e le donne, altro che guadagnarci qualcosa, si auto-segregano nel ruolo di “eterne vittime dominate da demoni fallocrati”. Potenza dei fantasmi maschili interiorizzati anche dalla mente femminile, o “differenza culturale” francese vs egemonia “puritana” americana? L’una e l’altra cosa, probabilmente, e la seconda non meno influente della prima.

Non c’è donna al mondo che non sappia distinguere un “corteggiamento insistente e maldestro” da uno stupro, come le firmatarie dell’appello francese temono: esse stesse non possono non saperlo. Non c’è persona sana di mente che non possa aver registrato, seguendo le vicende del #metoo o più semplicemente la recente cerimonia dei Golden Globe sotto il segno del Time’s up, che tutto circola fra le silence breakersamericane tranne un’autovittimizzazione inerziale e passiva: tutta la faccenda sembra al contrario parecchio empowering, e parecchio liberatoria anche per quegli uomini che la guardano con curiosità e fiducia invece che attaccarsi come Francesca Bertini alle tende di una virilità decadente. E anche questo le consorelle francesi non possono non averlo notato. Ma si sa che la Francia è la Francia, e quand’è in gioco la sacra triade della modernità pretende sempre di avere l’ultima parola, a costo di far diventare la libertà “libertà di importunare”, o, come ai tempi di Charlie Hebdo, liberté d’impertinence, sottospecie opinabile della libertà d’espressione. Ma il politically correct gioca brutti scherzi . Allora fu molto politically correct, e conformista, lo slogan “Je suis Charlie Hebdo”, e molto politically uncorrect, e anticonformista, arrogarsi il diritto di dire “Je ne suis pas Charlie Hebdo”: negli Stati Uniti lo rivendicarono in molti, anche nella stampa mainstream, in nome di una libertà di religione che non poteva essere conculcata dalla libertà di satira. Questione di punti di vista. Del resto, anche i simboli della seduzione non sono eterni e risentono dell’usura del tempo. A dispetto di uno slogan che ha fatto scuola per generazioni di donne, oggi la palma della seduttività passa a chi può permettersi allegramente di dire “Je ne suis pas Catherine Deneuve”.