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Mosul

Papa Francesco in Iraq ha fatto politica. Quella che non sanno fare i potenti

Forse ci metteremo anni a capire l’importanza storica della visita di Papa Francesco in Iraq e chissà che non si possa imparare in fretta come la diplomazia, parola sgraziata e scarnificata in questi anni di commercio con una spolverata di finti diritti, è un esercizio serissimo che richiede il coraggio di andare controvento.

Papa Francesco è atterrato in Iraq e in pochi giorni ha infilato il dito nelle ingiustizie di quella parte di mondo che pochi si prendono la briga di raccontare, in mezzo alle macerie che stanno lì ma che sono partorite da tutto l’Occidente. Gli avevano sconsigliato di andare, i venditori di morte occidentali, fingendosi consiglieri apprensivi ma non riuscendo a non apparire ipocriti.

È entrato a pregare in Mosul, l’ex capitale delle milizie del Califfato da cui il Daesh ha sparso morte e ha ripetuto a voce alta che non esiste nessuna possibile guerra in nome di nessun Dio, che non è consentito “odiare i fratelli” e che non bisogna cedere ai “nostri interessi egoistici, personali o di gruppo”.

Al di là del credo di ognuno quelle parole sono un atto politico potentissimo. Così come rimarrà nella storia l’incontro con Ali al Sistani, la massima autorità religiosa sciita del paese, in una stanza spoglia che profuma di sala d’attesa, e in cui si è stretto l’impegno di una collaborazione tra comunità religiose che troppo spesso la politica gioca a brandire l’una contro l’altra.

Sono due uomini che si battono contro le divisioni e che riportano il discorso finalmente a un livello più alto, abbandonando i bassifondi di un razzismo religioso che anche dalle nostre parti si è acuito sempre di più. È il viaggio in cui Papa Francesco ha ascoltato le parole del padre di Alan Kurdi, naufragato su una spiaggia turca nel settembre del 2015 mentre con la madre e con il fratello tentava di raggiungere l’Europa.

Una foto che ha fatto il giro del mondo ma di cui ancora nessuno ha chiesto scusa, nemmeno tra i responsabili politici di una tragedia che ancora oggi continua a rinnovarsi. Le cronache raccontano di un Papa che “ha ascoltato, più che parlare”: quella è una storia che va ascoltata e raccontata, ascoltata e raccontata.

Papa Francesco, comunque la si pensi, si è preso una responsabilità politica enorme gettando luce là dove molti vorrebbero convenientemente mantenere il buio esercitando la diplomazia nel suo senso più alto, guardando negli occhi e quindi legittimando le vittime. Mentre tutti sono concentrati sul proselitismo ascoltare diventa perfino un atto rivoluzionario.

Leggi anche: 1. La prima volta di un Papa in Iraq: Francesco va nei luoghi che furono dell’Isis per costruire la pace

L’articolo proviene da TPI.it qui

Siria chimica: Erode si è fermato Idlib

«È stato Assad!» gridano tutti. Come se il mondo (e ancora di più la Siria) potesse essere il tavolo banale su cui giocano i buoni contro i cattivi, come se poi non ci fossero anche i morti di Mosul, come se lo Yemen invece fosse solo la cloaca dei morti di serie b oppure come se la fabbricazione di armi non sia un ricco banchetto tutto occidentale.

Nell’ordine di qualche ora la colpa dei bambini gasati è stata affibiata a Assad, ai ribelli, a Obama (da Trump), all’ONU, a Putin, più qualche manciata di scenari apocalittici dei complottisti rossobruni più affilati. Tutti alla ricerca di un nemico unico che sia riconoscibile, facile e banalmente tranquillizzante.

Molti con le risposte, pochi con le domande. Francesco Vignarca, ad esempio, scrive: «La parte preponderante di colpa per i terribili attacchi chimici avvenuti in Siria è in chi ha lanciato tali ordigni. Ma non è secondaria nemmeno la colpa di chi ha fabbricato, trasportato, autorizzato tali armi. E vale per qualsiasi armamento, in ogni guerra. Troppo facile pensare che i “cattivi” siano solo quelli dell’ultimo pezzettino del viaggio tra l’ideatore di un’arma e la vittima finale…». Già, chi ha ” fabbricato, trasportato, autorizzato tali armi”? Tornando indietro nel tempo, chi ha appoggiato festante le “primavere arabe”?

 

(continua su Left)

Quello che manca al racconto su Aleppo

(un pezzo interessante di Fulvio Scaglione, editorialista di Famiglia Cristiana, per allargare lo sguardo)

La battaglia di Aleppo, con le stragi di questi giorni e gli anni terribili che le hanno precedute, ha segnato tra le altre cose il collasso del sistema informativo occidentale, ormai quasi incapace di distinguersi dalla propaganda di parte.

Tutto, nel racconto occidentale su Aleppo, sa di truffa e inganno. Dalla pubblicazione senza filtri né verifiche dei dati forniti dall’Osservatorio siriano per i diritti umani, fondato e animato da un oppositore di Bashar al-Assad e mantenuto dal governo inglese, alla parola “assedio”, usata senza risparmio per Aleppo ma solo negli ultimi mesi, e mai nei più di tre anni in cui la città era attaccata su tre lati da ribelli e jihadisti, arrivati anche a occupare il 60 per cento del territorio urbano.

Ma questi, se vogliamo, sono piccoli particolari. Il problema vero è il rifiuto di confrontarsi con una realtà che possiamo sintetizzare così: quanto è accaduto ad Aleppo in queste settimane non è per nulla eccezionale. Al contrario, è la norma della guerra contemporanea. Non ci credete? Allora cominciamo a guardarci intorno. Prendiamo Mosul, la grande città irachena che da due anni e mezzo è occupata dall’Isis.

A metà ottobre è partita (finalmente) l’offensiva per liberarla dai jihadisti. Grandi fanfare, toni trionfalistici, esultanza per i civili che “venivano liberati” dai quartieri prima sotto il controllo dei miliziani (mentre i civili di Aleppo, che escono dai quartieri dominati da al-Nusra, non sono liberati ma “fuggono”). Adesso, due mesi dopo, tutto è fermo e di liberare Mosul non si parla più. Non solo: l’offensiva di americani, curdi e iracheni è così ferma che l’Isis ha distaccato 4-5 mila combattenti dal fronte iracheno e li ha mandati a riprendere Palmira in Siria. Perché?

La risposta è molto semplice. I due anni e mezzo di estenuante campagna di bombardamenti hanno dato all’Isis tutto il tempo per organizzare le difese in città. Le strade sono state minate o sbarrate o sostituite da gallerie note solo ai miliziani. Certi palazzi sono stati abbattuti per liberare le linee di tiro, in altri punti sono stati costruiti muri per chiudere la vista e il passaggio agli attaccanti. Migliaia di civili, infine, sono stati bloccati per essere usati come scudi umani.

Per essere “liberata” Mosul dovrà diventare un’altra Aleppo: con i bombardamenti, le vittime civili, i bambini straziati dai colpi e così via. L’alternativa c’è: la conquista casa per casa con centinaia e centinaia di morti tra gli iracheni e i curdi. Cosa che peraltro già succede, anche se le operazioni militari sono quasi ferme.

La missione delle Nazioni Unite per l’assistenza all’Iraq (Unami), diretta da Jan Kubis, ex ministro degli Esteri della Slovacchia (dal 2006 al 2009), ha reso noti i dati, allucinanti, sul numero dei morti iracheni, civili e non, degli ultimi mesi. In settembre, cioè prima dell’offensiva su Mosul, i civili iracheni uccisi erano stati 609 (con 951 feriti); in ottobre sono diventati 1.120 (con 1.005 feriti) e in novembre 926 (930 feriti).

Per quanto riguarda militari e combattenti vari, le cifre sono: in settembre, 394 uccisi (208 feriti), in ottobre 672 uccisi (353 feriti), in novembre 1.959 uccisi (e 450 feriti). Risultato? Tutto bloccato, quindi altre sofferenze per i civili prigionieri a Mosul e altro tempo regalato all’Isis per continuare a fortificarsi.

Certo, nouveaux philosophes e altri clown possono pigiare sul pedale delle atrocità e delle violazioni dei diritti umani ad Aleppo. Ma sono solo degli ipocriti. Nel 2004, l’esercito americano combattè due battaglie per “liberare” la città irachena di Fallujah, di fatto occupata dai miliziani di al-Qaeda, gli zii dei miliziani di al-Nusra, che tanta parte hanno avuto nella battaglia di Aleppo.

Secondo l’Ong indipendente Iraq Body Count, nella prima battaglia (aprile 2004) morirono tra 572 e 616 civili; nella seconda (novembre 2004) ne morirono tra 581 e 670. Gli americani usarono armi al fosforo e, pare, all’uranio impoverito. Avete mai sentito un nuovo filosofo stracciarsi le vesti in proposito? Ricordate che il Corriere della Sera abbia usato, nei titoli, per Fallujah, il termine “mattatoio” come ha fatto per Aleppo?

E che dire di Gaza? Secondo i dati più prudenti, che sono quelli pubblicati dal Jerusalem Center for Public Affairs, solo il 45 per cento dei 2.100 palestinesi uccisi nella Striscia durante la guerra del 2014 erano veri civili e non combattenti. Il che fa pur sempre 945 persone inermi ammazzate in due mesi di scontri.

Allora furono proprio i paesi che oggi gridano allo scandalo per le operazioni di Aleppo a bloccare, all’Onu, le proposte di censura contro Israele. E Gaza, d’altra parte, non è una perfetta copia dei quartieri est di Aleppo, quelli attaccati con le bombe dai russi e dai siriani di Assad?

Ancora. L’Unicef ci ha fatto sapere che nei primi sei mesi del 2016 in Afghanistan si è avuto il numero record di vittime civili: 1.601 morti e 3.565 feriti. Il semestre peggiore dall’invasione anti talebani del 2001. Secondo le stime dell’Onu, il 60 per cento dei civili afghani cade sotto i colpi dei talebani e degli altri gruppi ribelli e criminali.

Ma il 40 per cento di 1.601 morti fa pur sempre 640 morti, ossia 640 afghani innocenti ammazzati in sei mesi (più di 3 al giorno) dalle truppe arrivate dai nostri paesi, cioè da coloro che dovrebbero proteggerli e “liberarli”. Ma tutto tace, quei morti non meritano lo sdegno riservato ai morti di Aleppo est.

La guerra dei nostri tempi, insomma, è questa roba schifosa. Chi fa finta di credere che in Cecenia e ad Aleppo si siano fatte cose diverse da quelle accadute altrove, per esempio a Fallujah o a Gaza, molto semplicemente mente. Tutte le guerre di oggi si combattono sulla pelle dei civili. Tutte.

E in tutte le guerre gli uomini armati, portino o meno un’uniforme, sono al più le vittime collaterali. Cosa che politici, militari e terroristi sanno bene. Dunque la questione vera è evitare il più possibile le guerre, non far finta che ci siano guerre buone e guerre cattive.