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Kamala Harris

Trump ha perso. Insieme a Trump perde anche quel sovranismo populista condito di niente che ha attraversato il mondo, quel modo muscolare di fare politica pescando nel torbido per non affrontare i problemi, quella politica che ancora si innamora dell’uomo forte per potersi concedere di non occuparsi dei deboli che sono da sempre i nemici di certa destra. Diritti e dignità, forse, ce lo auguriamo tutti, trovano almeno uno spazio nel dibattito pubblico dopo essere stati oscurati come inutili lamentosi che avrebbero solo potuto rallentare la produttività del Paese.

Dagli Usa arriva anche la storia della prima vicepresidente donna, finalmente, una donna che non è moglie di qualche ex vicepresidente e che ha una storia da portare con fierezza. Kamala Harris è donna, nera, figlia di una biologa indiana e di un economista giamaicano, sposata con un bianco ebreo. Qualcuno dice che potrebbe “oscurare” Biden. Ma magari.

In lei molti elettori e elettrici democratici hanno intravisto il futuro di un Paese che sta diventando sempre più diversificato dal punto di vista razziale, sognando un’America inclusiva, integrata e progressista. Ex procuratore distrettuale di San Francisco, è stata la prima donna nera a essere procuratorice generale della California. Quando è stata eletta senatrice degli Stati Uniti nel 2016, è diventata la seconda donna nera nella storia della Camera. Una donna di legge che contraria alla pena di morte, favorevole ai diritti gay, sostenitrice della sanità pubblica, impegnata nel movimento Black Lives Matter.«Ogni volta che ho corso ero la prima a vincere. La prima persona di colore. La prima donna. La prima donna di colore. Ogni volta», diceva nel 2019.

Nel suo discorso inaugurale ha detto: «Penso alle donne, alle donne nere, asiatiche, bianche, ispaniche, nativo americane, che nel corso della storia di questo paese hanno aperto la strada per questo momento, si sono sacrificate per l’uguaglianza, la libertà e la giustizia per tutti noi; penso alle donne nere che troppo spesso non sono considerate, ma sono la spina dorsale della nostra democrazia. Penso a tutte le donne che hanno lavorato per garantire il diritto di voto e che ora nel 2020 con una nuova generazione hanno votato e continuano a lottare per farsi ascoltare. Stasera voglio riflettere sulle loro battaglie, la loro determinazione, la loro capacità di vedere cioè che sarà a prescindere da quello che è stato. E questa è una testimonianza della personalità di Joe, che ha avuto il coraggio di buttare giù uno dei muri che continuavano a resistere nel nostro paese scegliendo una donna come vicepresidente. Anche se sono la prima a ricoprire questa carica, non sarò l’ultima. Ogni bambina, ragazza che stasera ci guarda vede che questo è un paese pieno di possibilità. Il nostro paese vi manda un messaggio: sognate con grande ambizione, guidate con cognizione, guardatevi in un modo in cui gli altri potrebbero non vedervi. Noi saremo lì con voi».

È un buon vento, quello di Kamala Harris.

Buon lunedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Amate smisuratamente

Cosa ci colpisce e ci affonda dei bambini quando si buttano in tutto quello che fanno, quando stritolano per il volere bene il collo di qualcuno, quando si incaponiscono su inezie che non si riescono a pesare, quando gioiscono come se soffiassero da tutti i pori, quando si lamentano con lamenti lamentosi che sembrano la fine del mondo? È il loro senso della dismisura, quel vivere ogni sensazione senza paracadute, senza nient’altro tutto intorno.

Ogni tanto mi viene da pensare che poi, con gli anni, tutti noi a quell’essere a dismisura ci aggiungiamo il controllo e la patina della paura di tutte le botte che abbiamo preso, delle ferite che ci sono rimaste addosso, dell’incriocchiarsi dei sentimenti come se dovessero essere tenuti a bada e della buona educazione che ci viene imposta come limitazione di ciò che sentiamo e di ciò che siamo in nome di una rotondità sentimentale sociale che è quasi un annilichimento.

Pensate agli adulti con la dismisura dei bambini che difendono i diritti, che lottano per ciò che è giusto, che non lesinano energie per ciò in cui credono e che non accettano la realtà smussata di chi ci racconta che le cose vadano così perché devono andare così perché non c’è alternativa di come potrebbero andare. Pensate all’amare a dismisura le ingiustizie, quelle piccole e quelle grandi, e battersi smisuratamente per curarle e smisurata,ente prendersi cura di quelli che abbiamo vicino e che abbiamo lontano.

Perché poi in fondo tutti gli eroi sono smisurati: è smisurato il modo in cui ci hanno creduto, è smisurato il modo in cui hanno tenacemente tenuto la posizione quando non conveniva e è smisurato il modo in cui poi vengono seguiti dopo essere stati derisi.

Ecco, se ci fosse un augurio da farci per questa estate che percorriamo sulle macerie e sui muri sfranti che ci ritroveremo a percorrere, l’augurio che ci farei è quello di amare smisuratamente, di scrollarci dalle spalle questa misura che è un fardello e cominciare a pensare che ci siano motivi validi per essere smisurati. E fa niente quello che ci dicono intorno.

Amate smisuratamente, vi darà nuove misure.

Buon venerdì.

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Bibbia in mano, mascherina abbassata: quei simboli branditi per coprire il vuoto politico

È un neo-simbolismo furioso e coprente, solo che copre il vuoto, copre il niente che c’è sotto e tutta una serie di commentatori finiscono per analizzare il cerotto dimenticandosi che sotto c’è il nulla. È un neo-simbolismo che attraversa la politica internazionale e si appiattisce sulla comunicazione veloce che è solo un vomito di spot (e no, non è colpa dei social, lancerebbero le loro tiritere anche solo nei dieci secondi montati in qualche tg nazionale, allo stesso modo) e che ha bisogno di rendersi riconoscibile. Qualcuno dice “indossate le mascherine” e loro non indossano le mascherine, qualcuno protesta dall’altra parte del mondo per un razzismo cancellato solo sulla carta e Trump risponde con i poliziotti a cavallo e la Bibbia in mano, qualcuno lamenta le morti nere in mare (che chissà perché valgono meno dei morti sotto le ginocchia) e qualcuno risponde sferragliando il rosario, alcuni dettano una regola e altri violano le regole rivendicando la violazione come eroico dissentimento.

Da Salvini con la mascherina abbassata a Bolsonaro che si assembra fino a Trump che invoca i proiettili, la politica di questi giorni è tutta una lava di gesti brevi e di metafore belliche che non rispondono a una che sia una delle questioni che sono sul tavolo. Trump risponde alla violenza invocando ancora più violenza e poi lamentandosi della violenza degli altri: rispondere a una questione complessa con uno spot di qualche parola è più da incapaci che irresponsabili. I Gilet Arancioni invocano un complotto mondiale ordito per mettere in scena una finta pandemia ma non si capisce chi ci stia guadagnato e che cosa: a domanda non rispondono, sono i soliti poteri forti. Bolsonaro in Brasile ci avvisa che tanto “moriremo tutti” prima o poi: mo’ me lo segno, grazie per l’illuminante rivelazione.

Dovunque si gratti non ci sono mai soluzioni, una che sia una. Esistono solo per contrapporsi senza nemmeno sentirsi in dovere di proporre un’alternativa. Chiedete a Trump, Salvini o Bolsonaro quale sia la via per vincere: l’eliminazione degli avversari. Solo quello, solo così, come dei ragazzini che giocano a battaglia navale sul tavolo della cucina. Vivono solo di riflesso dei loro nemici, se glieli togli balbetterebbero per ore di riforme che li mostrerebbe per quelli che sono: muri, condoni, preghiere mimate, sostegno ai più forti, calpestamento dei più deboli. Modelli economici impraticabili e culto di se stessi. Sono il niente mischiato con niente che usa i simboli per nascondere le proprie pudenda.

Leggi anche: 1. Per la Festa della Repubblica in piazza ci vanno i nemici della Repubblica (di Marco Revelli) / 2. Roma, gilet arancioni in piazza del Popolo senza protezioni. Pappalardo: “Abbracciatevi!”. Troupe di La7 aggredita in diretta 

L’articolo proviene da TPI.it qui

La prossima marcia dell’accoglienza va organizzata in Africa: anche l’Italia costruisce muri. Ma sottovoce.

Un post (terrificante) di Stefano Catone, che per Possibile da tempo studia i numeri piuttosto che rilanciare sensazioni:

Manderemo dei soldati in Africa con lo scopo di rafforzare il confine sud della Libia. Lo aveva anticipato Repubblica alcuni giorni fa, lo aveva smentito il ministero della Difesa (con una smentita che non smentisce, dato che parla di «normale attività addestrativa»), lo ha confermato il ministero dell’Interno, con tanto di foto a corredo dell’accordo raggiunto tra i governi italiano, della Libia (che non si capisce che poteri abbia), del Ciad e del Niger.

L’accordo si pone gli obiettivi di «assicurare la sicurezza dei confini, sostenere la formazione ed il rafforzamento delle guardie di frontiera, sostenere la costruzione in Niger e Ciad e sostenere la gestione in Libia dei centri di accoglienza per migranti irregolari, conformemente agli standard umanitari internazionali, promuovere lo sviluppo di una economia legale». Tradotto: manderemo militari con lo scopo di «sigillare la frontiera a sud della Libia, che significa sigillare la frontiera a sud dell’Europa», parole di Marco Minniti, ministro dell’Interno con la tessera del Partito Democratico in tasca.

Tradotto meglio: le persone devono restare nei luoghi dai quali vorrebbero scappare e, dato che l’accordo con la Libia si sta rivelando inefficace e inattuabile, spostiamo sempre un po’ più a sud i nostri confini. Siamo arrivati al Ciad e al Niger. Perché lo facciamo? Perché non possiamo respingere i migranti in mare, non possiamo sparare ai barconi, non possiamo costruire un muro sulle nostre coste: siamo persone civili, noi. Possiamo, però, delegare ad altri, lautamente finanziati, il tentativo di controllare gli oltre quattromila chilometri di confine terrestre della Libia. Fare un muro nel deserto di queste dimensioni non è semplice: è molto più semplice addestrare militari e costruire campi di accoglienza, dove concentrare i migranti.

Quando parliamo del Ciad parliamo di un paese in cui vige lo stato di emergenza a causa delle condizioni in cui versa l’omonimo lago, in cui è al potere la stessa persona dal 1990, in cui «a seguito di diverse manifestazioni di protesta, le forze dell’ordine sono intervenute con conseguenze a volte tragiche» e in cui è consigliabile «viaggiare in convoglio, tenere le porte chiuse a chiave e portare con se stessi carburante di riserva».

Quando parliamo del Niger, invece, parliamo di un paese in cui «il 3 marzo 2017 è stato proclamato lo stato di emergenza nella regioni di Diffa, Tillaberi e di Tahoua a causa dell’aumento degli attacchi terroristici nel Paese», in cui i terroristi assaltano i campi profughi, in cui la schiavitù è stata abolita nel 2003 (ma rimane un problema preoccupantee, inoltre, di un paese «soggetto ad instabilità politica, insicurezza alimentare cronica e crisi naturali, in particolare siccità, inondazioni e infestazioni di locuste».

Della Libia sia sufficiente ribadire che è un paese che non ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati, e cioè la più importante convenzione internazionale in materia.

Quando ci indigniamo per il muro al confine tra Serbia e Ungheria, quando ci indigniamo per il muro di Trump e il Muslim Ban, quando ci indigniamo per i muri e quando invochiamo un mondo senza muri, dovremmo ricordarci che il governo italiano a guida Partito Democratico è uno dei principali sponsor e attuatori della strategia dei muri, che in questo caso non hanno natura fisica (solo perché la geografia non ce lo permette, penseranno i maligni), ma natura politica e diplomatica. Saranno altri a respingere, saranno altri a sparare, saranno altri a detenere i migranti. Lontani da questi luoghi migliaia di chilometri noi stiamo solamente armando gli aguzzini.