Segui le Navi dei Veleni e arrivi a Mogadiscio
Da tempo Marco Birolini sta approfondendo la questione dei rifiuti tossici e delle navi dei veleni con una costanza e uno studio che in un Paese normale farebbero gridare ogni volta allo scandalo. E invece niente. Ecco sia scriveva ieri per Avvenire:
I viaggi delle navi dei veleni non si sono mai fermati. Lo dimostrano le ultime carte desecretate dalla Commissione d’inchiesta sui rifiuti. In una nota «riservatissima » del 30 luglio 2003, il Sismi comunica al ministro degli Esteri, Franco Frattini, che, «secondo quanto riportato da fonti attendibili, starebbero giungendo a Mogadisco due navi cariche di rifiuti industriali e scorie tossiche ». Gli 007 segnalano che la “Serjo 103”, battente bandiera portoghese, e la “Al Niil” (Kuwait), «sarebbero bloccate sulla costa, poiché la società contattata per lo scarico, composta da somali e stranieri, non avrebbe trovato un accordo sul prezzo». Per questo motivo il gruppo, «che da anni si occuperebbe dello scarico di rifiuti in Somalia», avrebbe addirittura minacciato di denunciare i nomi delle società estere abituate a scaricare i veleni a Mogadiscio e dintorni.
Non si conosce l’epilogo della vicenda (molte carte restano segrete), ma la sostanza non cambia. Perché l’intelligence italiana è tuttora convinta che la Somalia rimanga uno dei punti d’approdo dei rifiuti tossici italiani ed europei, così come gli altri Stati del Corno d’Africa e altri paesi poverissimi, specialmente quelli che si affacciano sul Golfo di Guinea. I servizi conoscono anche le rotte: dai nostri porti i carichi di spazzatura industriale rimbalzano in un altro Paese europeo, per arrivare a Gibilterra. Sullo Stretto fanno base alcune società inglesi, che curano il trasferimento delle scorie in Marocco e altre località del Nordafrica. Tutto legale, dal punto di vista delle autorizzazioni. Ma c’è il forte sospetto che si tratti di aziende di copertura gestite dietro cui si nasconde la mano della grande criminalità italiana: i vari passaggi servono a confondere le tracce e, ovviamente, a declassificare la pericolosità dei rifiuti. Una volta sbarcati in Maghreb, i container vengono rimbalzati sempre via mare nei Paesi in via di sviluppo, magari in territori governati da funzionari corrotti, il più lontano possibile dalla capitale.
Succede così che i moli di porti remoti si ritrovino coperti da fusti contenenti sostanze sconosciute, scaricati da navi che ripartono subito dopo. I veleni restano abbandonati, senza che nessuno li ritiri. E le autorità locali scelgono la via più facile per sbarazzarsene: li caricano su qualche peschereccio, li portano al largo e li buttano nell’Oceano. Ogni indagine si perde rovistando in scatole che si rivelano vuote: le società destinatarie della “merce”, infatti, durano lo spazio di una settimana. Uno scenario desolante.
E non è certo una consolazione sapere che i mari italiani e i porti sono più controllati rispetto a prima. Difficile che oggi nelle nostre acque vengano affondati veleni, ma in passato potrebbe essere accaduto. I servizi, su questo punto, sembrano avere pochi dubbi. Semmai c’è chi si stupisce che le procure, di fronte a tante informative, non abbiano aperto inchieste. Dal canto loro, i magistrati ribattono che è impossibile iniziare ricerche dispendiose di fronte a segnalazioni rivelatesi sempre troppo generiche. Come quelle riportate in una nota inviata dal Cesis alla presidenza del Consiglio nel ’95: «A seguito di indagini condotte all’inizio del ’94 su un carico di scorie nucleari che sarebbe pervenuto dalla Germania, si è ipotizzato che nell’Aspromonte reggino esista una discarica di rifiuti tossici controllata dalla criminalità organizzata ». Già, ma dove? Il riferimento è al carico della Koraby, che dopo esser stata respinta dal porto di Palermo per radioattività a bordo, fu trovata con le stive vuote al largo di Pentimele. La Koraby, scrivono i servizi, aveva tentato in passato «di scaricare più volte materiale radioattivo in territorio italiano ». Con l’aiuto della ’ndrangheta potrebbe esserci riuscita.