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NY Times

Dimenticare Assange

Nel processo al fondatore di WikiLeaks si discute anche del ruolo, della libertà e dei doveri dell’informazione. E del diritto della stampa di presidiare le azioni dei governi. Ma se ne parla pochissimo

In fondo è una delle nostre più discutibili e disturbanti debolezze, un atteggiamento che ci trasciniamo da anni e che applichiamo anche alle questione dei diritti come se i diritti potessero seguire le mode, essere qualcosa da stampare su una maglietta e poi dimenticarsene senza che la situazione si sia risolta. Julian Assange, discusso fondatore di WikiLeaks, è sotto processo a Londra, si decide se estradarlo o no negli Usa che gli hanno già promesso una condanna che potrebbe arrivare a 175 anni di carcere e quel processo, che è un processo che discute anche del ruolo, delle libertà e dei doveri dell’informazione è finito per essere raccontato solo da qualche tweet o da qualche ostinato osservatore che insiste nell’informarci.

In questo processo che non sta raccontando quasi nessuno intanto è emerso che non ci fu nessun furto di password di enti governativi americani ma il soldato Chelsea Manning, che aveva accesso a quei documenti, aveva già scaricato tutto il materiale. Non è una cosa da poco: c’è in discussione il ruolo delle fonti, il ruolo del giornalismo investigativo, c’è in gioco il diritto della stampa di presidiare le azioni dei governi. C’è in gioco moltissimo.

Era quello che aveva pensato il governo Obama nel 2013 quando si rese conto che criminalizzare Assange significava in fondo mettere sotto accusa il giornalismo investigativo. Ed è la strada opposta rispetto a quella che ha inforcato Trump quando nel 2018 lo ha accusato di crimine informatico e altri 17 capi di accusa nel maggio del 2019.

Sia chiaro: Assange ha dimostrato prove di crimini di guerra statunitensi in Iraq e Afghanistan, violazioni di diritti che tutto il mondo ha il diritto e il dovere di conoscere. E poi c’è un altro punto sostanziale: se Assange è colpevole quindi sono colpevoli anche tutti i giornali (NY Times incluso) che hanno pubblicato le sue scoperte, no? Come ci si comporta? Perché la sensazione dieci anni dopo è sempre la stessa: che il governo malsopporti di avere curiosi troppo curiosi che rovistano dove non dovrebbero rovistare. Accade sempre così, con tutti i governi ed è proprio l’atteggiamento che certo giornalismo combatte.

Eppure di Assange si parla poco, pochissimo. Quella che prima era una figura iconica oggi è diventata una notizia laterale. Perché noi siamo fatti così: ci innamoriamo di simboli e poi non ci prendiamo nemmeno la briga di controllare almeno che non vengano buttati via e che non vengano calpestati. Qui una volta era tutto foto e magliette di Assange e ora sembra che il suo processo non ci interessi più. Così si logorano i diritti, così si consumano le persone. Accade così.

Buon lunedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Eccolo. L’articolo del NY Times su Giulio Regeni. In italiano, per i duri d’orecchie.

(eccolo il tanto discusso articolo su Giulio Regeni del New York Times. Il quotidiano USA ha deciso di pubblicarlo tradotto in italiano. Si vede che hanno avuto il dubbio che fossero problemi di lingua, mica di mancata volontà)

Quel giorno di novembre 2015 l’obiettivo della polizia egiziana erano i venditori ambulanti di calzini, occhiali da sole da 2 dollari e gioielli finti, raggruppati sotto i portici degli eleganti edifici secolari di Heliopolis, un sobborgo del Cairo. Blitz come questo erano di routine, ma questi venditori occupavano una zona particolarmente sensibile. A solo una novantina di metri di distanza si trova il palazzo riccamente decorato nel quale il Presidente dell’Egitto, l’autoritario leader militare Abdel Fattah el-Sisi, accoglie i dignitari stranieri. Mentre gli uomini raccoglievano in fretta le lore cose dai tappetini e dai portoni, preparandosi a fuggire, avevano tra loro un assistente improbabile: un ricercatore universitario italiano di nome Giulio Regeni.

Giulio era arrivato al Cairo pochi mesi prima per condurre ricerche per il suo dottorato a Cambridge. Cresciuto in un piccolo paese vicino a Trieste da un padre rappresentante e da una madre insegnante, Regeni, un ventottenne di sinistra, era rimasto affascinato dallo spirito rivoluzionario della Primavera Araba. Nel 2011, quando erano esplose le manifestazioni di Piazza Tahrir che condussero alla caduta del Presidente Hosni Mubarak, stava finendo il suo corso di laurea in arabo e scienze politiche all’università di Leeds. Si trovava al Cairo nel 2013 come stagista per un’agenzia delle Nazioni Unite, quando una seconda ondata di manifestazioni portarono le forze armate a cacciare il presidente egiziano recentemente eletto, l’Islamista Mohamed Morsi, e a mettere al potere al-Sisi. Come molti egiziani divenuti ostili al governo troppo invadente di Morsi, Regeni apprezzò questo sviluppo. “Fa parte del processo rivoluzionario,” scrisse ad un amico inglese, Bernard Goyder, all’inizio di agosto. In seguito, meno di due settimane dopo, le forze di sicurezza di al-Sisi uccisero 800 sostenitori di Morsi in un solo giorno, il peggior massacro voluto dallo stato nella storia dell’Egitto. Fu l’inizio di una lunga spirale di repressione. Regeni presto partì per l’Inghilterra, dove cominciò a lavorare per Oxford Analytica, un’azienda di analisi e ricerca.

Da lontano, Regeni seguiva con attenzione il governo di al-Sisi. Scriveva rapporti sul Nord Africa, analizzando tendenze politiche ed economiche, e in capo a un’anno aveva risparmiato abbastanza soldi da poter iniziare il dottorato in studi dello sviluppo a Cambridge. Decise di concentrarsi sui sindacati indipendenti egiziani — la cui serie di scioperi senza precedenti iniziati nel 2006 aveva predisposto il popolo egiziano alla rivolta contro Mubarak. Adesso con la Primavera araba a pezzi, Regeni vedeva i sindacati come fragile speranza per la maltrattata democrazia egiziana. Dopo il 2011, il loro numero era esploso, passando da quattro a migliaia. C’erano sindacati per ogni cosa: macellai, assistenti di teatro, scavatori di pozzi e minatori, addetti alla riscossione delle bollette del gas e comparse nelle telenovelas trash che andavano in onda durante il mese santo del Ramadan. C’era anche un sindacato indipendente dei nani. Guidato dalla sua relatrice, una nota professoressa egiziana di Cambridge che aveva scritto in modo critico su al-Sisi, Regeni scelse di studiare i venditori ambulanti — giovani uomini provenienti da paesini lontani che si ingegnavano per sopravvivere sui marciapiedi del Cairo. Regeni si immerse nel loro mondo sperando di valutare il potenziale del loro sindacato nella guida del cambiamento politico e sociale.

Però con l’arrivo del 2015 quel tipo di immersione culturale, preferito a lungo da arabisti in erba, non era più facile come prima. Una coltre di sospetti era caduta sul Cairo. La stampa era stata ridotta al silenzio, avvocati e giornalisti venivano regolarmente molestati e gli informatori riempivano i caffè del centro del Cairo. La polizia fece un blitz nell’ufficio in cui Regeni conduceva le sue interviste; folli storie di cospirazioni straniere andavano regolarmente in onda sui canali televisivi del governo.

Regeni non si fece scoraggiare. Parlava cinque lingue, era insaziabilmente curioso e aveva un fascino poco appariscente che gli aveva attirato un‘ampia cerchia di amici. Dai 12 ai 14 anni, era stato il sindaco dei piccoli della sua cittadina natale, Fiumicello. Teneva molto alla sua capacità di navigare culture diverse e gli piaceva la vita disordinata delle strade del Cairo: i caffè fumosi, l’attività frenetica e infinita, le barche colorate come caramelle che la sera navigavano sul Nilo. Si registrò come ricercatore esterno presso l’American University del Cairo e trovò una stanza a Dokki, un quartiere strozzato dal traffico tra le piramidi ed il Nilo, dove condivideva un appartamento con due giovani professionisti: Juliane Schoki, che un insegnante di tedesco, e Mohamed El Sayad, avvocato in uno dei più antichi studi legali del Cairo. Dokki non era una zona alla moda, però si trovava a due sole fermate di metropolitana dal centro del Cairo, con i suoi labirinti di alberghi economici, bettole e isolati di appartamenti fatiscenti che circondano Piazza Tahrir. In breve, Regeni aveva fatto amicizia con scrittori ed artisti e perfezionava il suo arabo da Abou Tarek, un emporio di quattro piani illuminato con luci al neon che è il posto più famoso del Cairo per il koshary, il piatto tradizionale egiziano di riso, lenticchie e pasta.

Passava le ore a intervistare venditori di strada a Heliopolis e nel piccolo mercato dietro la stazione Ramses. Per ottenere la loro fiducia, mangiava dagli stessi carretti sporchi dei suoi interlocutori; il supervisore accademico di Regeni all’American University lo avvertì che si sarebbe procurato un’intossicazione alimentare. A Regeni non interessava: si muoveva attraverso il Cairo con una tranquilla aura di determinazione.

Per caso venne al Cairo per lavoro Valeriia Vitynska, un’ucraina che Giulio aveva conosciuto a Berlino quattro anni prima. I due riallacciarono i rapporti. “Era più bella di quanto ricordassi,” scrisse in un messaggio ad un amico. Fecero un viaggio sul Mar Rosso e quando lei tornò al suo lavoro a Kiev, continuarono la loro relazione via Skype. “Era molto intenso e bello,” mi ha detto l’amica di Regeni Paz Zàrate, “Lui era gioioso, pieno di speranza per il futuro.”

Tuttavia Regeni era cosciente dei pericoli del Cairo. “È molto deprimente,” scrisse a Goyder dopo un mese di soggiorno. “Tutti sono super-consapevoli dei giochi in atto.” A dicembre partecipò ad un incontro di attivisti sindacali e scrisse di questa esperienza per una piccola agenzia di stampa italiana. Durante l’incontro, disse ad amici di aver notato una ragazza velata che gli scattava foto con il cellulare. Era stato inquietante. Regeni si lamentò con i suoi amici che alcuni venditori ambulanti lo infastidivano per chiedergli favori, come per esempio cellulari nuovi. E poi il rapporto con il suo contatto principale, un uomo massiccio di circa quarant’anni di nome Mohamed Abdullah, prese una strana piega.

(continua qui)